Principali lotte sindacali

in Sardegna

Le lotte sindacali di inizio XX secolo


A inizio XX secolo l’Italia era uno dei paesi europei con la legislazione sociale più arretrata, né le società minerarie si mostravano contente di interventi statali in questo campo, se l’ingegner Arturo Ferrari, direttore della miniera di Malfidano, dichiarava nel marzo 1900: «L’industria mineraria... non chiede nulla per sé allo Stato; se un desiderio deve esprimere è che lo Stato la lasci vivere tranquilla... non legiferi sulla industria come ha finora fatto con imperfette e infelici disposizioni sul lavoro dei fanciulli, sulla polizia dei lavori, sull’impiego degli esplodenti, sugli infortuni... tenga conto delle condizioni diverse in cui nelle diverse regioni d’Italia le industrie si sviluppano e progrediscono».

Se dal periodo 1860-1869 a quello 1900-1907 la produttività del minatore sardo era aumentata, anche grazie alle migliori tecnologie utilizzate, da 8.1 a 13.3 tonnellate annue, molto meno erano cresciute le tutele sociali: l’organizzazione della società e soprattutto la condizione della maggior parte della classe operaia iglesiente risultavano ancora estremamente mediocri.

In tutto l’Ottocento gli interventi di legislazione sociale a favore dei minatori si riducevano a pochi provvedimenti:

  • la legge mineraria del 20 novembre 1859 di tutela degli infortuni, con alcune misure inadeguate e ignorate dagli imprenditori minerari;

  • la legge dell’8 luglio 1883 che istituiva la Cassa Nazionale di Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro, a contribuzione volontaria e perciò non utilizzata dai minatori sardi;

  • la legge dell’11 febbraio 1886 sul lavoro dei fanciulli nelle fabbriche, cave e miniere, che poneva limitazioni sull’età e sull’orario di lavoro, ma non contemplava alcuna speciale misura circa i cottimi, l’igiene nei luoghi di lavoro, il rispetto del riposo settimanale;

  • la legge 15 giugno 1893 che istituiva dei Probiviri con il compito di dirimere le controversie tra padroni e operai;

  • le leggi del 17 marzo 1898 sugli infortuni di lavoro e del 17 luglio 1898 sulla Cassa di Previdenza per le Malattie e la Vecchiaia.

Se lo Stato interveniva poco e male nella questione operaia, ancora più labile era l’intervento del padronato industriale; di conseguenza i problemi enormi dei minatori sardi, il cui movimento si andava organizzando in quegli anni in Iglesiente, si incancrenirono fino al punto che nel primo scorcio del nuovo secolo esplosero drammaticamente in tumulti e dimostrazioni anarcoidi, che provocarono misure di polizia durissime contro i lavoratori, su cui pesava anche la mancanza di una tradizione sindacale capace di incanalare in maniera costruttiva le proteste.

Per lungo tempo l’unica società operaia di mutuo soccorso esistente nel bacino minerario fu, infatti, quella di Iglesias, fondata dall’imprenditore locale Sanna Nobilioni, volutamente spoliticizzata e sostanzialmente controllata dagli imprenditori minerari.

Solo negli ultimi anni del secolo, grazie alle prime lotte sindacali dei battellieri di Carloforte organizzati da Giuseppe Cavallera, un medico socialista della provincia di Cuneo trasferitosi in Sardegna dopo aver vinto una borsa di studio presso la facoltà di medicina di Cagliari, la coscienza di classe e le idee socialiste cominciarono a diffondersi anche tra i minatori sardi.

I battellieri guidati da Cavallera intrapresero un braccio di ferro durato più di tre anni per combattere il monopolio di alcuni imprenditori nel settore del trasporto dei minerali per via mare, diventando un esempio mitico da seguire in tutto il bacino minerario, attraverso la diffusione nelle miniere di un analogo modello di organizzazione politica e sindacale, che ricalcava le esperienze delle avanguardie operaie del Nord Italia.

In tutte le principali miniere (Buggerru, Nebida, Masua, Gonnesa, Guspini, Iglesias, Carloforte) sorsero le leghe di resistenza socialista, circa 4,000 associati da Cavallera alla Federazione Regionale dei Minatori, senza, peraltro, che le istanze ideologiche venissero recepite dalla massa degli operai, in gran parte sensibili solo a rivendicazioni di pura natura economica e sindacale.

Questo prevalente carattere “impolitico” della militanza sindacale si manifestò con grande evidenza durante le vertenze sindacali del settembre 1904, in cui prevalse da un lato lo spontaneismo, dall’altro l’incapacità di resistenza nella lotta, non adeguatamente supportata ideologicamente.

Intervenendo sull’Avanti, Cavallera affermava: «Le leghe dei minatori in queste manifestazioni avevano ben poco a vedere: tutti gli scioperi, eccezion fatta per quello di Nebida, si proclamarono al di fuori dell’organizzazione, la quale a dire il vero raduna intorno a sé un numero ancor molto scarso di aderenti. Però l’opera dei vari segretari delle leghe e quella del segretario della Federazione erano richieste insistentemente in ogni sciopero, non solo dagli operai, che dopo la proclamazione si trovavano generalmente in una via senza uscita; ma, più o meno direttamente, dagli stessi direttori di miniera e dalle autorità, che conoscendo l’ascendente dei socialisti sugli operai si raccomandavano per il mantenimento dell’ordine più ad essi che alle centinaia di carabinieri ed alle decine di delegati».

Lo stesso tragico episodio dell’eccidio di tre minatori [1] alla miniera Malfidano di Buggerru (fig.1), descritto anche da Dessì in Paese d'Ombre (Premio Strega 1972), si inserisce in questo quadro, ribadito due anni dopo dall’ondata di ribellismo popolare che investì l’intera Sardegna, minatori in testa vittime di nuovi eccidi (fig. 2) a Nebida (21 maggio 1906, 2 morti) e Gonnesa (21 maggio 1906, 3 morti).

In seguito a tali fatti, il 3° governo Giolitti, insediatosi proprio a maggio 1906, promosse un’inchiesta parlamentare sulle condizioni dei minatori sardi, nella cui relazione preliminare si legge: «Insistentemente si afferma che le condizioni economiche, igieniche ed intellettuali dei lavoratori del sottosuolo sono tristi; che essi sono scarsamente retribuiti della penosa opera loro; che le loro mercedi permangono le stesse, se non subiscono minorazione, quantunque il valore totale della produzione complessiva segni aumento e non diminuzione. Si aggiunge che al caro viveri, per sé stesso rilevantissimo, a causa o dell`improduttività del terreno, o della esportazione, o della lontananza dai centri principali di produzione, va unito, pei minatori, il dovere di sottostare all’adozione del truck-system; che essi vivono in cameroni luridi, senza aria e senza luce, esposti alle più perniciose infermità; che molte famiglie di minatori sono ricoverate in capanne, il cui agglomerato è contro ogni principio d’igiene e d’umanità; che si difetta di acqua potabile; che sono cadenti le scuole minerarie; che non è strettamente osservata l’applicazione della legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli e quella sugli infortuni; e si domandando, in nome della civiltà e della prosperità economica, rimedi radicali ed energici».

La commissione d’inchiesta nominata allo scopo indagò utilizzando i risultati di ricerche recenti di sicura imparzialità e affidabilità, come le statistiche sulle condizioni dei minatori italiani prodotte dall’Ufficio del lavoro.

Per gli aspetti specifici si puntò sulla raccolta empirica del maggior numero possibile di testimonianze e di documenti prodotti dalle persone interrogate, ma anche sull’acquisizione sistematica di dati sui contratti di lavoro, sulle istituzioni sanitarie, sulle malattie sociali, sull’ambiente economico e sociale delle miniere.

A conclusione dei lavori, i cui risultati furono pubblicati tra il 1910 e 1911, emerse un quadro ben rappresentato dalle principali richieste presentate dalle organizzazioni dei minatori:

  • un contratto di lavoro stabile e ben definito;

  • la creazione di un ispettorato operaio sugli infortuni;

  • l’istituzione della pensione di invalidità e/o di vecchiaia;

  • la frequenza quindicinale del pagamento del salario;

  • l’abolizione del truck-system [2] e dei cottimi;

  • l’istituzione dell’ufficio di collocamento;

  • la definizione di regole per il buon funzionamento del Collegio dei Probiviri;

  • la distribuzione gratuita delle medicine;

  • la libertà di riunione e organizzazione;

  • l’aumento del salario minimo giornaliero (da 2.5 a 3 lire per i manovali; da 3 a 4 lire per i minatori).

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[1] Furono uccisi quattro minatori: due rimasero sul terreno (Salvatore Montixi, 49 anni, e Felice Littera, 31) mentre il terzo, Giustino Pittau, morì 15 giorni dopo per le conseguenze delle ferite riportate.

Secondo alcune fonti anche Giovanni Pilloni, ferito negli scontri e deceduto un mese dopo, è da considerarsi vittima dell’eccidio.

Fig. 1 - Buggerru 1904: sciopero dei minatori

Fig. 2 - Estratto dell’Avanti di Martedì 5 giugno 1906

Di queste, quelle d’ordine legislativo e sociale furono in qualche misura affrontate subito, mentre le questioni di natura economica rimasero a incancrenire, sia per la caduta precipitosa dei prezzi dei metalli dopo il 1908 (-37% per il piombo, -22% per lo zinco, -20% per l’argento), che per la ridotta capacità d’intervento dei vertici del movimento operaio, profondamente diviso tra le istanze rivoluzionare delle organizzazioni cagliaritane e quelle riformiste dell’Iglesiente.


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[2] «Vi erano poi le cosiddette ‘cantine’, un sistema di spacci aperti dalle aziende in prossimità delle miniere (gestite direttamente dalle società o da privati legati alle amministrazioni minerarie, talvolta da cooperative), che commerciavano di tutto, derrate alimentari, stoffe, stoviglie, attrezzi di lavoro per la miniera e per la campagna (in genere a prezzi più alti rispetto ai centri abitati più vicini, che però quasi sempre erano distanti rispetto alle miniere dove risiedevano i minatori), che favorivano una forma di sfruttamento, assai diffusa, denominata ‘truck-system’. Operanti in quasi tutte le miniere sarde (su quarantotto miniere ben trentaquattro le avevano) esse godevano della garanzia dei debiti contratti dagli operai mediante ritenute sul salario operate dall’amministrazione mineraria, creando quindi un sistema che di fatto obbligava le famiglie operaie a servirsi esclusivamente della ‘cantina’ padronale. In questo modo ai minatori veniva di fatto pagata in natura una parte consistente del salario, con profitto o per le amministrazioni minerarie o per i loro fiduciari.» (Atzeni, 2016)

La "lotta dei 47 giorni" nelle miniere metallifere dell'Iglesiente


L’onda lunga della vertenza sul carbone arrivò, comunque, a coinvolgere anche le miniere del bacino metallifero che, il 13-14 gennaio del 1949, proclamarono lo sciopero a oltranza per ottenere la modifica del sistema dei cottimi e aumenti salariali, scontrandosi con la posizione rigida e oltranzista delle industrie minerarie, egemonizzate da Monteponi, Montecatini e Pertusola, che detenevano anche il controllo dell’Associazione degli industriali, rappresentante del blocco agrario-industriale sardo e fortemente collegata, in un rapporto di dare-avere, al governo democristiano del tempo.

Dopo 47 giorni di sciopero, il 1° marzo 1949, la vertenza fu chiusa con la sottoscrizione del cosiddetto “Patto Aziendale”, con il quale la Direzione non aveva più come interlocutori le organizzazioni sindacali ma Commissioni Interne che si riunivano alla presenza del Direttore della miniera, in un’ottica di sostanziale sottomissione della rappresentanza operaia da scambiare con benefici di tipo economico.

Si trattò di una sconfitta totale che diede inizio a un periodo di forte arretramento sindacale, segnato da una forte rappresaglia da parte delle aziende: molti minatori, soprattutto gli attivisti e i componenti di commissioni interne, furono licenziati, anche in base ad una vera e propria schedatura politica.

Per dare un’idea dell’atmosfera sindacale che si respirava in quegli anni tra i minatori sardi, si tenga conto che esistevano vere e proprie “liste di proscrizione” che le aziende minerarie si scambiavano, per cui se un minatore era dentro una di quelle liste e andava a chiedere lavoro in un’altra miniera non aveva nessuna possibilità di essere assunto.

366 giorni in fondo al pozzo per ottenere l'istituzione del Parco Geominerario della Sardegna


Partito con il Convegno sull’Archeologia industriale mineraria a Iglesias il 25-26 novembre 1983, il progetto di istituire un Parco Geominerario della Sardegna ebbe una decisa accelerazione il 23 novembre 1991 quando, nell’Hotel Artu di Iglesias alla presenza del notaio Paolo Macciotta, venne stilato l’atto costitutivo dell’Associazione denominata “Comitato permanente per Il Parco Geominerario, Ambientale e Storico dell’Iglesiente”, con sede legale presso l’Associazione Mineraria Sarda, siglato da 18 soci fondatori[1].

Tuttavia, pur destando interesse nel mondo accademico, la proposta non riusciva ancora a convogliare l’interesse dell’opinione pubblica e delle istituzioni e fu solo in occasione del Convegno internazionale, organizzato a Monteponi il 12-13 ottobre 1996 (fig. 3) per celebrare il Centenario della fondazione dell’Associazione mineraria Sarda, allora presieduta dall’ingegner Giulio Boi, che la proposta incontrò l’interesse dell’Ente Minerario Sardo, presieduto dall’ingegner Giampiero Pinna.

L’appoggio organizzativo e finanziario dell’EMSA permise di invitare i funzionari dell’UNESCO a visitare le aree minerarie e a prendere contatto con l’Associazione, cui seguì, nel giugno 1997, la presentazione di una proposta di riconoscimento corredata da un voluminoso dossier informativo a sostegno (fig. 4), preparato con la collaborazione degli uffici regionali e della Progemisa, società regionale di consulenza tecnico-scientifica.

Fu nell’ambito della discussione sviluppatasi durante la compilazione di questo dossier che l’estensione del Parco si ampliò fino ad arrivare comprendere tutte le aree minerarie storiche presenti in Sardegna e non solo quelle dell’Iglesiente.

Il dossier fu accolto molto favorevolmente dai Delegati UNESCO, riuniti in Assemblea Generale a Parigi nel novembre 1997, che riconobbero l’istituendo “Parco Geominerario Storico Ambientale della Sardegna” come “Patrimonio dell’Umanità”, il primo Parco geominerario a godere di tale riconoscimento.

L’anno successivo, il 30 settembre 1998 in occasione della cerimonia ufficiale di conferimento del riconoscimento UNESCO, a fissare i principi ispiratori del Parco (salvaguardia, conservazione e valorizzazione del Patrimonio storico, sociale, tecnico e industriale nel territorio interessato) venne approvata la “Carta di Cagliari”, sottoscritta, oltre che dai rappresentanti dell’UNESCO Maurizio Iaccarino e Tullia Carrettoni, dal Ministro dell’Ambiente Edo Ronchi, dal Presidente della Regione Autonoma della Sardegna Federico Palomba, dal Presidente EMSA Giampiero Pinna, dal Rettore Pasquale Mistretta per l’Università di Cagliari e da Attilio Mastino per il Rettore dell’Università di Sassari.

Nonostante queste iniziative, cui si aggiunse, il 7-8 ottobre 1999 a Cagliari, un Convegno sul “Paesaggio Minerario”, conclusosi con l’approvazione unanime di una mozione finale a favore di una pronta istituzione del Parco, a novembre 2000 ancora niente era successo, anzi i mutamenti politico-istituzionali avvenuti ai vertici della Regione Sardegna, orientati più a una gestione economicistica del patrimonio immobiliare minerario, mettevano sempre più a rischio la realizzazione del progetto di Parco.

Così, domenica 5 novembre 2000, Giampiero Pinna, non più Presidente EMSA, essendo stata questa messa in liquidazione, ma Consigliere regionale, decise di occupare la galleria di Pozzo Sella nella miniera di Monteponi «fino a quando non verranno rispettati gli impegni assunti a livello internazionale, nazionale e regionale per l'istituzione del Parco Geominerario e per l'attuazione degli interventi programmati per avviare la rinascita economica e sociale delle aree minerarie dismesse della Sardegna...» e saranno raggiunti i seguenti obiettivi:

  • approvazione definitiva in Parlamento della legge istitutiva del Parco Geominerario;

  • sottoscrizione della prevista Intesa Stato-Regione per la formale istituzione del Parco;

  • costituzione del Consorzio per la gestione del Parco come previsto nel DdL già approvato dal Senato.»


L’iniziativa cui, già dal 6 novembre, si associarono i 486 lavoratori socialmente utili (LSU) che attendevano la stabilizzazione con la nascita del Parco, durò con alterne vicende ben 366 giorni[2], fino al conseguimento degli obiettivi prefissati, di seguito scansionati:

  • entro 15 giorni dall’inizio dell’occupazione fu approvato un emendamento alla legge finanziaria 2001, riguardante l’istituzione del Parco e proposto dal deputato sardo e ingegnere minerario Tore Cherchi;

  • 23 dicembre 2000: approvazione della L. n. 388/2000 (legge finanziaria 2001) contenente il finanziamento del Parco da istituire entro 6 mesi (art. 114 comma 10);

  • 16 ottobre 2001: emissione del DM istitutivo del Parco;

  • 6 novembre 2001: decreto del Ministero dell’Ambiente e del Territorio con cui si nominava il Comitato di gestione provvisoria del Parco, con il compito di assicurare l’immediato funzionamento dello stesso Parco ai sensi dell’art. 16 del decreto istitutivo, che prevedeva (art. 2 comma 3) le forme di utilizzo “dei lavoratori socialmente utili previste dal decreto legislativo 1° dicembre 1997, n. 468” e s.m.i.


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[2] In ordine alfabetico: Amat Di San Filippo Paolo, Angelelli Francesco, Boi Giulio, Castelli Pier Maurizio, Cocco Erminio, Del Bono Gian Lupo, Di Gregorio Felice, Madau Giorgio, Napoleone Ileana, Naseddu Angelo, Ottelli Luciano, Pintus Enrico Giulio, Priola Stefano, Saba Franco, Sanna Celestina, Severino Alberto, Todde Franco, Tronci Marco Luigi

[2] Su questa vicenda gli operatori di Videolina Carmine Conte e Angelo Palla hanno realizzato un documentario: “366° giorno: nasce il Parco geominerario”.

Fig. 3 – Manifesto del Convegno per il Centenario dell’Associazione Mineraria Sarda

Fig. 4 - Copertina del dossier informativo a sostegno del Parco Geominerario sardo

Nuraxi Figus 2012: l'ultima resistenza


Nell'ambito delle iniziative volte a individuare una modalità sostenibile per lo sfruttamento minerario del bacino carbonifero del Sulcis, nel febbraio 2003 venne siglato un Protocollo di Intesa tra Ministero Attività Produttive e Regione Autonoma della Sardegna con il quale si commissionava alla Sotacarbo SpA uno studio di fattibilità per verificare le condizioni di validità del progetto della concessione integrata di cui al DPR 28/01/1994 (Attuazione del piano di disinquinamento del territorio del Sulcis Iglesiente), che aveva disposto l’affidamento di “una concessione integrata per la gestione della miniera di carbone del Sulcis e produzione di energia elettrica e cogenerazione di fluidi caldi mediante gassificazione” (art. 1, comma 1), al cui concessionario veniva assicurato l’acquisto di energia elettrica a prezzi fissati e con agevolazioni (art. 1, comma 2).

Nel Giugno 2004, la Sotacarbo concluse lo studio esprimendo una valutazione positiva sul progetto; tuttavia, la relativa gara di assegnazione indetta dalla Regione nel 2005, sulla base dei criteri previsti dalla Legge n.80 del 14/05/2005 che all’art. 14 riprendeva quanto stabilito dall’art.1 del DPR succitato, andò deserta.

Su questa gara e per le agevolazioni pubbliche previste, la Commissione Europea avviò una prima procedura di infrazione, la C36/2008, per la violazione della normativa comunitaria in materia di aiuti di stato, procedura che venne archiviata in seguito alla comunicazione del 30 settembre 2009 di sospensione della gara da parte del Governo italiano.

Nonostante le modifiche intervenute con Legge n. 99 del 23 luglio 2009 (art. 38), in cui si prevedeva l’assegnazione con gara internazionale di “una concessione integrata per la gestione della miniera di carbone del Sulcis e la produzione di energia elettrica con la cattura e lo stoccaggio dell’anidride carbonica prodotta” entro il termine del 31 dicembre 2010, prorogato successivamente al 31 dicembre 2012, la Commissione Europea in data 21 novembre 2012 comunicava l’avvio di una nuova procedura d’indagine formale per aiuti di Stato.

Qualche mese prima, i minatori di Monte Sinni avevano dato luogo a una protesta eclatante: il 27 agosto in 40 erano scesi nelle gallerie della miniera a 400 metri di profondità, rimanendovi per una settimana.

Si battevano contro la chiusura programmata per il 31 dicembre 2012 e per l’applicazione della Legge 99.

La protesta terminò il 3 settembre, dopo che i minatori ottennero dal governo Monti l'assicurazione che la miniera di Nuraxi Figus non sarebbe più stata chiusa il 31 dicembre.

Il 13 novembre, dopo mesi di scioperi e agitazioni sindacali, tra Governo e Regione Sardegna venne firmato un protocollo d’intesa per la definizione di obiettivi e condizioni generali di sviluppo e l’attuazione dei relativi programmi nel Sulcis Iglesiente, comprendente una sperimentazione sul progetto integrato miniera-centrale-cattura-stoccaggio CO2 previsto dalla Legge 99.

Ma la posizione della Commissione Europea era chiara: la condizione per la prosecuzione dell’attività della miniera dipendeva dal rispetto della Decisione del Consiglio UE n. 787 del 10 dicembre 2010, che autorizzava aiuti di stato alle miniere di carbone solo se finalizzati all’accompagnamento verso la chiusura, fissata al massimo al 30 dicembre 2018, e a misure di mitigazione sociale ed ambientale contenute nel “Piano di chiusura”, deliberato con DGR n. 53/75 del 20 dicembre 2013.