L'oro del Monte Rosa

Inquadramento geologico

I giacimenti auriferi piemontesi sono localizzati all’interno dei ricoprimenti pennidici superiori nell’arco che, comprendendo le Alpi Graie e Pennine, va dal massiccio del Gran Paradiso alla Punta di Arolla, passando per il massiccio del Monte Rosa (fig.1).

Tale fascia mineralizzata, limitata a sud dall’unità dioritico-kinzigitica della zona “Ivrea-Verbano”, interessa svariati contesti petrografici: gneiss ghiandoni e micascisti del Gran Paradiso e Monte Rosa, gneiss granitoidi e micascisti granatiferi del cristallino di “Antigorio-Crodo”, gneiss minuti della zona “Sesia-Lanzo”.

In generale i vari giacimenti si presentano in forma di filoni, che possono essere discordanti o concordanti con la scistosità della roccia incassante.

Dal punto di vista delle associazioni paragenetiche, si possono ritrovare, seppure in rapporti variabili, da una parte i minerali metallici, principalmente pirite e arsenopirite con eventuali altri solfuri in forma subordinata (blenda, galena, pirrotina e calcopirite), dall’altra il quarzo, talora con tracce di carbonati.

In tal caso l’oro si presenta in forma disseminata allo stato nativo nella ganga quarzosa.

In particolare, i giacimenti polimetallici auriferi presenti alle testate delle valli meridionali del Monte Rosa (Anzasca, Sesia e Lys) formano un esteso complesso di sistemi filoniani incassati entro la parte sud-occidentale dell’omonima unità pennidica superiore (falda Monte Rosa), composta da rocce polimetamorfiche del basamento intruse da granitoidi tardo-ercinici e associate alla loro copertura permo-carbonifera, sequenza nel suo complesso interessata da un evento metamorfico eoalpino in facies eclogitica seguito da una pervasiva sovraimpronta mesoalpina in facies da scisti verdi ad anfibolitica.

A questo complesso fanno riferimento, in particolare, i giacimenti di Macugnaga e Ceppo Morelli (alta Valle Anzasca) i cui filoni, raggruppati in sciami o isolati, si sviluppano, in conformità con le deformazioni tettoniche post-metamorfiche sviluppatesi in età tardo-alpina (23÷5 Ma), in direzione NO-SE, mentre più a S in Valsesia la direzione ruota verso ONO-ESE.

Come tipologia dei corpi mineralizzati, sono presenti tanto filoni-strato sub-concordanti con le alternanze della sequenza litologica incassante (nei micascisti, paragneiss e anfiboliti), quanto veri e propri filoni discordanti entro fratture trasversali rispetto alla scistosità (negli gneiss occhiadini).

La paragenesi è quella già ricordata, tipica dei giacimenti auriferi piemontesi, in cui l’oro è associato ai solfuri e solo localmente allo stato libero, con tenore variabile da qualche g/t a decine di g/t, con una media di 7-12 g/t nel tout venant associato alla pirite.

«Tenori molto elevati, fino a centinaia di g/t crescenti verso il basso, si osservano nei gruppi filoniani centrali di Pestarena (Peschiera, Pozzone-Speranza), in cui queste zone arricchite in oro nell’ambito delle colonne mineralizzate costituiscono fasce ristrette con sviluppo di qualche decina di metri in direzione e fortemente inclinate lungo l’immersione (“colonne ricche”)» [1].

Fig. 1 -  Distribuzione dei filoni quarzosi auriferi nelle Alpi nord-occidentali (ELLIS et alii, 2004) 

Per quanto attiene al modello genetico si ipotizza una migrazione dei fluidi idrotermali in condizioni mesotermali derivati da devolatilizzazione metamorfica durante il sollevamento e il dissotterramento delle falde, avvenuto in modo differenziale procedendo da SO verso NE, come dimostra il progressivo ringiovanimento delle età di messa in posto dei filoni auriferi procedendo da Brusson (31.5 Ma) verso Gondo (10.5 Ma); per i campi di Alagna-Pestarena risultano età radiometriche per la deposizione dell’oro intorno a 29-32 Ma.


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[1] Riccardo Cerri, Ida Bettoni, Vincenzo Nanni: I giacimenti filoniani tra Valsesia e Val d’Ossola – Convegno L’attività mineraria nelle Alpi. Il futuro di una storia millenaria, XXVI edizione degli Incontri Tra/Montani (Gorno, settembre 2016)

Dalle origini al regno sabaudo

La prima testimonianza certa relativa all'estrazione mineraria nel vercellese risale al 1° novembre 1000: si tratta del diploma con cui l’imperatore Ottone III concedeva alla chiesa vercellese l’oro che si ricavava nel vescovato di Vercelli e Santhià.

Tuttavia, i primi documenti certi che si riferiscano a scavi minerari propriamente detti in Alagna risalgono al 1592, quando un gruppo di abitanti della Valsesia - Giovanni Cravini, Pietro e Antonio Prati, Pietro e Antonio Quali, Giannino Ferri - chiede e ottiene dal governatore dello Stato di Milano la concessione di una miniera, ma il loro tentativo di sfruttamento non avrà successo, anche se per gestire lo scavo era stato chiamato un “Mastro d’Alemagna” [2] e speso una grossa cifra, si parla di 500 scudi d’oro, per le prime coltivazioni.

Dopo gli anni della "peste manzoniana" (1629-1631), particolarmente virulenta in Valsesia, nel 1634 Don Fernando, governatore dello Stato di Milano, decide di concedere i privilegi di coltivare le miniere di d'Alagna, e ogni altra futura miniera di qualsiasi metallo in Val Sesia, al cavaliere gerosolimitano Giorgio d'Adda, proprietario in Valsesia di vari beni, tra cui una fucina di ferro in località Baraggia presso Varallo (fig. 2). Nel 1639 la concessione al D'Adda viene estesa a tutto il territorio dello stato milanese.

Negli anni successivi i filoni minerari di Alagna vanno verso l'esaurimento, tanto che il D'Adda chiede di essere esentato dal pagamento della decima, da sostituire con il versamento di un canone fisso di 600 lire complessive per sei anni, cosa che riesce a ottenere solo nel 1658.

Tre anni dopo Giorgio D'Adda muore senza aver potuto sfruttare le miniere d'oro di Macugnaga e della Valle Anzasca per cui aveva stabilito una convenzione con la Famiglia Borromeo. Gli succede, come erede [3], il nipote Francesco, che cerca di espandere le coltivazioni minerarie ai territori di Gressoney, sul versante opposto dello stesso gruppo montuoso.

Nel 1664, allo scadere dell'accordo con il fisco del Ducato milanese, i D'Adda, prima Francesco, deceduto nel 1672, poi i figli Giorgio e Gerolamo, riescono a mantenere la concessione a canoni sempre inferiori (tra 82 e 50 lire/anno) fino ai primi anni del XVIII secolo.

Solo nel 1704, un tal Giovanni Enrico di Alagna riesce ad aprire una crepa nel controllo esclusivo dei D'Anna sulle miniere valsesiane, ottenendo la concessione per coltivare un filone nell'Alpe di Solivo, a fronte di un pagamento una tantum a compenso della perdita dell'esclusiva dei D'Anna, che, peraltro, si distaccano progressivamente dall'attività mineraria, concentrandosi sugli impianti siderurgici di Locarno, fonti di più sicuro guadagno.

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[2] All’epoca i minatori tedeschi costituivano l’élite in campo minerario

[3] Come cavaliere gerosolimitano (di Malta) il D’Anna non poteva disporre per donazione o testamento dei suoi beni, salvo una dispensa papale che gli fu concessa da Urbano VIII nel 1650.

Fig. 2 - Diploma di concessione delle miniere della Valsesia a Giorgio D'Adda (6 maggio 1634)

L’Ispettore Generale delle Miniere sabaude Spirito Benedetto Nicolis de Robilant

Carlo Emanuele III e la gestione diretta statale delle miniere

Nel 1707, grazie al Trattato di Torino del 1703, la Valsesia viene ceduta allo Stato sabaudo e la conduzione delle miniere sia di oro che di rame è affidata prima a Giacomo Lorenzo Deriva (1712) e poi a Johann Niklaus Muhlhan (1724), per tornare dieci anni dopo al Deriva senza, tuttavia, risultati apprezzabili.

Nel 1752 Carlo Emanuele III, duca di Savoia (fig. 3), decide di dare nuovo impulso alla propria politica minerario-metallurgica e di rivoluzionare completamente la gestione delle miniere sul territorio sabaudo: mettendole direttamente sotto il controllo delle Regie Finanze, dandole una chiara impronta di tipo militare, affidando la Sovraintendenza al cavaliere Spirito Benedetto Nicolis di Robilant (fig. 4), giovane capitano di artiglieria nominato Ispettore Generale delle Miniere, e costituendo una compagnia di artiglieri-minatori.

Nato a Torino il 4 giugno 1724, secondogenito di Giuseppe e Maria Operti, il Robilant è presto avviato alla carriera militare e a una formazione tecnica, in particolare all’architettura e all’ingegneria.

Già a 18 anni, nel 1742, entra a far parte del Corpo Reale di Artiglieria partecipando alla Guerra di Successione Austrica, dove si distinguerà come ingegnere nel corso, tra le altre cose, degli assedi di Modena, della Mirandola e della Rocca di Piacenza e nella difesa della fortezza di Demonte.

Nel 1749 è inviato, insieme a quattro cadetti delle Reali Scuole di Artiglieria, in Europa Nord-orientale (Sassonia, Turingia, Austria, Boemia e Ungheria) a studiare le tecniche metallurgiche ed estrattive praticate in quei paesi, all’epoca particolarmente avanzati in materia.

A proposito di questo viaggio, molti anni dopo ricorda [3]: «I tedeschi, e in particolare i Sassoni... da molti secoli hanno la gloria d’aver dato abili chimici e mineralogisti... Gli Svedesi... i Russi e tanti altri Stati tedeschi... anche i Francesi vi andarono per studio. Dietro l’esempio di tutte quelle nazioni, il re Carlo Emanuele... mi inviò in Sassonia con quattro cadetti delle sua artiglieria per studiare le miniere... in due anni e otto mesi di assenza da casa raggiungemmo gli obiettivi della nostra missione, e ritornammo in Piemonte dopo aver impegnato più di un anno a Freiberg nello studio della mineralogia, della chimica metallurgica sotto la guida del celebre consigliere Geller, della docimastica, della geometria, dell’architettura sotterranea e della metallurgia sotto la guida degli uomini più esperti... quelle spedizioni in tanti paesi differenti avevano lo scopo d'esercitare l'occhio all'assetto delle miniere, apprendere la differente natura delle montagne, i particolari metodi di sfruttamento, il trattamento dei minerali, e abituarsi a fare dei paralleli per poi applicarli utilmente al nostro ritorno. Tutte queste cure ebbero l'esito più favorevole, e le vedute lungimiranti del Re furono soddisfatte. Egli fondò un laboratorio docimastico, chimico e metallurgico, perché tutti i suoi sudditi traessero beneficio dall’esattezza delle operazioni, e una sala molto appropriata per una collezione di fossili... affinché le persone destinate alla professione venissero istruite con lezioni regolari; s’insegnò loro la chimica metallurgica, la docimastica e la geometria sotterranea, studi fatti in inverno, mentre in estate ci si occupava con la scoperta, lo stabilimento e il trattamento delle miniere in esercizio...[in seguito, ndr] tutte le nazioni imitarono il grande Re Carlo Emanuele.»

Due anni dopo, nel 1751, Carlo Emanuele affida a Vitaliano Donati,  Professore di botanica dell’ateneo torinese, l’incarico di realizzare una mappa delle risorse minerarie della Savoia e della Val d’Aosta, mentre nel 1759 lo stesso Donati parte per una spedizione in Egitto e nelle Indie Orientali con scopi scientifici e commerciali.

Tornato in Piemonte nel 1752, il Robilant raccoglie le considerazioni sulle esperienze vissute in una serie di manoscritti raccolti nei “Viaggi e Memorie relative alle miniere di Allemagna” (fig. 5).

In particolare, il Discorso preliminare traccia le basi per una strategia di politica mineraria: «Chi ha un giusto criterio sull'economia politica d’uno Stato, conviene che non ignori di qual importanza siano le miniere e le manifatture dei metalli ed altri prodotti del regno minerale, La coltura delle medesime beneficiando tanti individui, concorre alla felicità d’una nazione... Si dee adunque nel suolo d’un paese separare tutta l’estensione de’ colli e delle pianure dalle montuose; la prima è il vasto campo dell’agricoltura, l’altra è la sede dei metalli; se comprendano monti di prima origine, ne' quali sogliono li metalli più nobili facilmente far dimora. Se si dà un’occhiata agli Stati della M.S., questi partecipano d'una gran'estesa di monti li più eminenti, e scoscesi, e d'una copiosa serie di pianure, e di colli compresi fra li principali fiumi, che irrigano queste felici terre il Tanaro ed il Po. Li primi sono la dimora de' metalli, gli altri la sede dell’agricoltura... Si deve dunque conchiudere, che se la Provvidenza con larga mano favorì questi Stati de' beni immensi provenienti della coltura delle terre, preparò nell'estensione de’ monti un campo vasto alla ricerca de' metalli. Qua si hanno per ogni parte indizi aurifori, là miniere d'argento, di stagno, di rame, di piombo, di ferro, e di molti semimetalli. Su queste premesse, è facile il dedurre, che l’introdurre le scuole di mineralogia, di chimica, d’architettura sotterranea, e di metallurgia, sarà il mezzo, col quale potranno rianimarsi le miniere.» 

Più avanti nelle memorie, si sottolinea l’importanza della cartografia e degli studi geologici: «... Quanto più si conosce la natura di un paese, le persone intelligenti sanno trar partito di ciò che esso presenta di più particolare. L’esatta cognizione di tutte le diverse qualità di sasso che costituiscono li monti, il modo con cui si comportino li filoni e le altre sedi de’ minerali, la qualità de’ medesimi tutto ciò rende più conto nell’intraprendere ricerche. Onde si conchiude che in ogni sito non si può tentare ricerche per ritrarne minerali, ed in tal modo si previene di non intraprendere là dove non si ha possibilità di riuscimento...».

Ѐ su queste basi, assai avanzate anche in un’ottica moderna, che Robilant, nominato Ispettore Generale delle Miniere, intende fondare la sua politica mineraria e la gestione dei lavori di ricerca e sfruttamento, passati sotto il comando diretto di ufficiali di artiglieria, che si avvalgono di una compagnia di artiglieri-minatori agli ordini dello stesso Ispettore generale.

Tra le zone minerarie su cui si concentra particolarmente l’attenzione del Robilant sono la Valsesia, con le miniere d’oro e di rame di Alagna, e la gestione complessiva delle miniere sarde.

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[3] Dell’utilità e dell’importanza dei viaggi e delle spedizioni nei propri paesi (1790)

Fig. 3 - Carlo Emanuele II, Duca di Savoia (1701-1773)

Fig. 4 - Spirito Benedetto Nicolis di Robilant (1724-1801)

Fig. 5 - Ristampa dei Viaggi Mineralogici del De Robilant (2001)

La gestione delle miniere di Alagna

In Alagna la gestione del Robilant opera una forte riorganizzazione del settore, che porta a una drastica riduzione degli addetti, passati da 531 a 132  (-75%). In cambio procede a sviluppare gli stabilimenti minerari alagnesi (fig. 6) e a ingrandire la fonderia di Scopello, operante già dal 1726, oltre a razionalizzare la coltivazione con l’utilizzo delle nuove tecniche di abbattimento apprese nel suo viaggio in Germania.

Al di fuori dei settori specificatamente minerari e ricorrendo ad appalti assegnati con bandi di gara a privati, vengono rafforzate le infrastrutture viarie, in particolare il collegamento Alagna-Scopello, e il settore dei servizi esterni che garantiscono le forniture necessarie al lavoro in miniera e in fonderia, compresa la costruzione di nuovi edifici.

Poiché il lavori minerari richiedono grandi quantità di legname, sia come combustibile che come elementi portanti delle armature di sostegno delle gallerie, ai topografi del regno è assegnato l’incarico di realizzare mappe e censimenti delle risorse forestali in tutte le aree minerarie sabaude.

Tra il 1753 e il 1755 i nuovi edifici vengono costruiti dall’appaltatore alagnese Pietro Giordano “a norma de’ dissegni, istruzioni, e calcoli, del Signor Cavaliere di Robilant [affinché tutto fosse realizzato] secondo le migliori regole dell’arte”.

Di questi edifici, due sono sopravvissuti fino ai nostri giorni [4]:

Il vasto complesso per la raffinazione dell'oro fu edificato nei pressi della "Cava vecchia", già conosciuta e sfruttata dal 1560.

Qui il minerale aurifero, proveniente dalle miniere di Mud, Jazza e del vallone delle Pisse, veniva macinato, separato con il mercurio (amalgama), quindi rifuso più volte per eliminare le scorie.

Abbarbicata alle pendici della montagna di Stofful e adiacente alla Cava S. Maria era particolare per le sue caratteristiche costruttive, dovute alla necessità di resistere a condizioni ambientali estreme.

Edificata esclusivamente in pietra scalpellata dalle fondamenta fino al tetto, essa si sviluppava su due piani, provvisti ciascuno di un grande camino e con arcuati soffitti. Ma era il tetto la parte più notevole, con le ali, il colmo e le gronde in lastre modellate ad incastro o embricate tra loro, in modo da impedire le infiltrazioni.

Il tutto realizzato secondo le “specifiche tecniche” del Robilant: «Le volte si faranno in pietre quadrate, usando la diligenza possibile nel prescegliere quelle, e si farà uopo anche farle tagliare... [e il tetto] con soli Lozzoni [lastroni, NdR], senza veruna boscamenta, collocati sovra muri elevati sovra le antidette volte».

La gestione militare del Robilant non ottiene, però, i risultati sperati: le spese rimangono tali da non permettere, se non sporadicamente, il pareggio e tantomeno un guadagno; inoltre, la eccezionale e disastrosa alluvione del 14 ottobre 1755 peserà grandemente sui bilanci.

Di conseguenza, dal 1761 l’attività statale viene progressivamente ridotta e dieci anni dopo, nel 1771, la gestione viene affidata ai privati, seppure sotto il controllo statale.

Termina così l’ambizioso progetto di politica mineraria del governo sabaudo, mentre il Robilant già dall’anno prima aveva lasciato il ruolo di Ispettore Generale delle miniere, conservando fino al 1796 quello di Direttore della Scuola di metallurgia e del laboratorio di chimica delle Reali Scuole d’artiglieria di Torino, da lui stesso fondati nel 1762.

Morirà settantasettenne a Torino il 1° maggio 1801.

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[4] Per entrambi gli edifici sono previsti lavori di ristrutturazione e trasformazione in museo



Fig. 6 - Il dipartimento dell’oro ad Alagna

(da Robilant: De  l’utilité  et  de  l’importance  des  voyages et  des courses dans son propre pays, 1790)

Fig. 7 - Edifici del Dipartimento dell'oro di Alagna

La gestione sabauda delle miniere sarde: il caso Mandell

Sulla base degli accordi stabiliti dal Trattato di Londra (2 agosto 1718), con il Trattato dell’Aia (20 febbraio 1720), che mette fine alla Guerra di Successione spagnola, la Sardegna viene ceduta dagli Asburgo d’Austria al Duca di Savoia Vittorio Amedeo II.

Come ricorda Quintino Sella nella "Relazione sulle condizioni dell’industria mineraria nell’isola di Sardegna" (fig. 8), presentata alla Camera dei Deputati nella seduta del 3 maggio 1871, in questo passaggio gli accordi di Londra garantivano alla Sardegna «la sua autonomia e la conservazione delle sue leggi, dei suoi diritti, privilegi e consuetudini. Essa si governava per mezzo di viceré, di intendenti generali, cui, con quella delle miniere, spettava l’azienda economica dell’isola. Le miniere vennero, come nel periodo anteriore, considerate come proprietà dello Stato. Nel 1721 si accordava a don Pietro Nieddu ed a Giovanni Stefano Durante privilegio per venti anni di coltivare tutte le miniere dell’isola, pagando alla regia finanza il quinto netto della rendita.

Un inglese, per nome Brander, nel 1736, si rivolse all’ambasciatore di Sardegna in Parigi, domandando la concessione [ottenuta il 30 giugno 1740, NdR] di tutte le miniere dell’isola... [associando] nell’impresa due altre persone, Carlo Hotzendorf, tedesco, e Carlo Gustavo Mandell, console di Svezia in Cagliari. Anzi a quest’ultimo, come assai pratico dell’industria mineraria tanto fiorente nei paesi scandinavi, venne affidata la suprema direzione. Egli cominciò per innalzare a Villacidro, sul torrente Eleni, una capace fonderia e chiamò a sopraintendere i lavori, col titolo di ispettore, Cristiano Bosen d’Hildesheim nell’Harz, regione allora ed oggi veramente classica per le miniere...

... Dopo il periodo pisano fu questo il primo momento in cui si manifestò qualche progresso rudimentale, se vuolsi, ma pur serio nelle miniere sarde... i lavori si concentrarono a Montevecchio, ove il minerale era abbastanza argentifero per pagare le spese. Il minerale ricco esportavasi, a quanto sembra, per Genova e Livorno; il più povero si fondeva in Villacidro.

Sia che si rallentasse dopo qualche anno la produzione, sia che vi fosse a ridire intorno alla condotta dei lavori, o che a torto gli ufficiali governativi si volessero ingerire in questa industria, il fatto è che gli intendenti generali accusavano il Mandell di non tenere i patti, di non aver aperte nuove miniere e di occuparsi soltanto di esaurire le antiche...».

Nell’aprile 1751, il futuro Ispettore Generale delle miniere sabaude, Spirito Benedetto Nicolis di Robilant, durante un viaggio di lavoro in Germania incontra il Bosen, nel frattempo rientrato in patria, che gli mostra un rapporto fatto a Mandell e soci già nel 1741, di cui si riportano alcuni passi relativi alla strategia di ricerca e alla ricchezza mineraria sarda: «...si potrebbe per dar qualche ordine a quelle Miniere di Sardegna attaccare quest’isola per i due Capi nello stesso tempo, cioè per quello di Mezzogiorno e quello di Settentrione... in questa maniera si renderebbe il lavoro successivo a due estremi dell'isola, e potrebbe essere durevole per fin a tanto che nissun bosco si vendesse estraneamente, e le selve si coltivassero a dovere; il commercio delle Galanze può parimenti sussistere; massimamente che quest’isola abbonda di tutte le specie de’ minerali e fossili che aver si possano in altri Paesi, che se ne può avere abbastanza fino alla fine del mondo; e non v’è dubbio che anche si potranno incontrare minerali d’oro, come dagli inizi si può presumere che gli antichi abbiano già avuto».

Dal passo sopra citato emerge la vastità del piano iniziale della società concessionaria e la piena fiducia nelle risorse minerarie sarde del Bosen, che ben conosceva la  regione dell’Harz, minerariamente ricchissima.

La qual cosa, inserita nella trama di sospetti circa l’operato del Mandell, lo mette ancor di più in cattiva luce agli occhi del Robilant.

Di fatto, le cose in Sardegna non andavano affatto lisce per il Mandell, da tutti i punti di vista: era malvisto dalle autorità, dalla popolazione, dagli addetti ai servizi della miniera, solo gli occupati della fonderia potevano dirsi soddisfatti di ricevere regolarmente il proprio salario; d’altra parte, lo stesso Mandell era profondamente insoddisfatto della scarsa sicurezza pubblica, della non collaborazione delle autorità e del comportamento burocratico dell’amministrazione statale. 

Uomo d’affari del Settecento, d'indole risoluta, di scarsa sensibilità sociale, in aderenza allo spirito degli imprenditori del tempo era intransigente verso tutto quello che si opponeva alle sue iniziative, dalle richieste di miglioramenti economici a quelle legate a una migliore organizzazione del lavoro e delle condizioni di vita degli operai, dentro e fuori del posto di lavoro.

Aveva molti nemici, sempre pronti a denunciare le irregolarità della sua gestione, soprattutto per quanto riguarda l’attività della fonderia.

Questa, nel periodo 1751-1752, aveva prodotto in media poco meno di 90 tonnellate/anno di piombo, ma nessuna di argento perché il Mandell affermava che il trattamento del piombo per ottenere l’argento (coppellazione) era antieconomico.

Molti pensavano, tuttavia, che egli coppellasse in segreto o che si fosse accordato con società straniere per vendergli piombo arricchito con argento.

Le voci in questione arrivano, quindi, a Torino e nel novembre del 1751 all’intendente generale di Cagliari, Francesco Maria Cordara 3° Conte di Calamandrana, viene richiesto di prelevare alcuni pani di piombo in partenza per l’esportazione per sottoporli a verifica.

Mandell reagisce scrivendo una memoria in sua difesa, in cui contesta tutte le accuse che gli sono rivolte e la rivolge direttamente alla Corte sabauda, pensando che a Torino, al di fuori dei rancori e delle passioni locali, avrebbe avuto maggiore ascolto.

Speranza vana, il 1° febbraio 1753 il Mandell viene convocato dal Cordara che gli contesta nove capi d’imputazione e gli chiede una relazione scritta di difesa.

L’8 marzo Mandell consegna la propria risposta, preceduta da un preambolo in cui afferma: «Il Concessionario delle Miniere di Sardegna non può che testimoniare la sua sorpresa nel vedere che dopo tre anni gli si sono poste delle questioni così spesso reiterate e a cui ha già abbondantemente risposto e spiegato e niente è più sorprendente di vedere che dopo tutte queste risposte a Torino e a questa Intendenza Generale, egli sia ancora davanti a Sua Eccellenza per rispondere alle stesse questioni tante volte reiterate e a cui tante volte si è risposto; tutto ciò getta il detto Concessionario in uno stato di estrema confusione e di tristezza... Si direbbe che lo si voglia fare abbandonare il suddetto commercio e la Impresa Mineraria poiché non si cessa di creargli difficoltà, fargli perdere tempo e rendergli più amaro il dolore di essersi rovinato in questa Impresa che nonostante ciò merita di essere risollevata e apertamente protetta... Ma infine poichè si deve egli va a rispondere con tutta l’umiltà e l’esattezza possibile alle questioni che Sua Eccellenza gli ha posto e che si riducono alle seguenti...» :

Fig. 8 - Relazione sull'industria mineraria sarda (ristampa 1999)

In realtà, più che il basso tenore è la scarsa capacità dei coppellatori di Villacidro a spingere il Mandell a vietare la coppellazione in caso di una concentrazione in argento inferiore a un chilogrammo per tonnellata di piombo (1‰);

Le risposte scritte del Mandell non vengono, però, prese in considerazione dell’Intendenza cagliaritana che, anzi, sollecita il già citato Salvatore Diana a presentare la richiesta di concessione per i 400 siti che dichiarava di aver scoperto, richiesta che viene presentata il 20 agosto 1754.

Ma, mentre a Cagliari non vi sono dubbi circa le inadempienze del Mandell, a Torino sono molto più cauti. Gli esperti legali della Corte erano evidentemente dubbiosi sulla fondatezza delle accuse basilari: sottosviluppo delle iniziative minerarie e illegalità della mancata coppellazione del piombo d'opera.

Seguono anni in cui l’opera del Mandell in Sardegna è fortemente avversata, un suo collaboratore, l’economo di Villacidro Giovanni de la Haye, viene ucciso durante un’agitazione dei carrettieri addetti al trasporto della galena.

Mandell è anche protagonista nel maggio 1756, come Console di Svezia, di quello che oggi si potrebbe definire uno scandalo internazionale di cui saranno protagonisti il capitano svedese Stiller, arrestato dalle autorità sabaude, e il cittadino danese Lindicamp, arrestato per rappresaglia dallo stesso Mandell.

L’incidente, pur se ricomposto [7], peggiora sempre di più la situazione, anche perché associato all'assassinio di un dipendente delle miniere ha un effetto deprimente sui finanziatori stranieri del Mandell.

Per verificare il reale stato della situazione, il 7 settembre 1757 l’Ispettore Generale delle Miniere sabaude, Nicolis di Robilant, invia in Sardegna il sottotenente Giovanni Stefano Ponzio, uno dei quattro cadetti che avevano accompagnato il Robilant nel suo viaggio del 1949 in Germania, con l’incarico di redigere una relazione sulla base di 39 capitoli di istruzioni appositamente fornite dallo stesso Robilant.

Tuttavia, ancora prima di poter disporre della relazione Ponzio, il 27 febbraio 1758 l’Intendenza Generale del Regno condanna il Mandell alla decadenza dalla concessione di tutte le miniere sarde, condanna poi ribadita dalla Reale Udienza otto mesi dopo, il 24 ottobre 1758.

Ma il Mandell non si dà per vinto neanche questa volta e, confidando sulla relazione del sottotenente Ponzio, fa ricorso al Supremo Reale Consiglio di Torino.

Ma né il Mandell né il Ponzio potranno conoscere l’esito di quel ricorso: il secondo, giovane e fino ad allora di buona salute, muore improvvisamente nell’aprile 1759, probabilmente di malaria perniciosa, mentre il 10 maggio successivo le febbri malariche provocano la morte del primo.

Scompare così un imprenditore minerario che, pur con i suoi limiti e le sue deficienze, è stato certamente un uomo che «amò la Sardegna fino a morirvi nel tentativo di farne fiorire l’industria mineraria e metallurgica.» [8]

Dal 1741 al 1759 le miniere del Mandell avevano prodotto circa 6,700 tonnellate minerali piombiferi: 1,850 di galena tal quale e 4,850 trattata in fonderia, da cui si erano ricavate 1,272 tonnellate di piombo e 280 chilogrammi di argento.

La produzione annuale della fonderia (più di 70 tonnellate), che oggi può apparire trascurabile, all’epoca era, nonostante i problemi citati, dello stesso ordine di grandezza (80÷100 tonnellate) delle fonderie del Basso Harz, prese in origine da Bosen come punto di riferimento.


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[5] Si riferisce all’incendio doloso di una baracca dove dormivano dei lavoratori tedeschi ubriachi.

[6] Dazio per la galena (piombo non raffinato) al 12% per una quantità minima di circa 275 tonnellate/anno; dazio del 5% per il piombo raffinato. Nel caso non si fosse raggiunta la quantità minima di galena, la metà della differenza doveva essere garantita da piombo raffinato con un dazio del 12%, ed era questo il punto per cui il Mandell si sentiva duramente colpito.

[7] Il viceré Don Vittorio Amedeo riuscì a disinnescare l’incidente riuscendo a convincere il Mandell a pagare la cauzione per la liberazione dello Stiller.

[8] Giovanni Rolandi: La metallurgia in Sardegna, l’Industria mineraria 1971

The Pestarena United Gold Mining Company Limited in Valle Anzasca

Le miniere d'oro della Valle Anzasca nel XVIII secolo 

Il XVIII secolo si apre con la guerra di successione spagnola (1701-1715), che nel Piemonte sotto il Ducato di Milano porta a diversi smembramenti del territorio, con annessioni alla Casa Sabauda e l'inizio della dominazione austriaca in Lombardia.

Nello specifico, la Valle Anzasca passa nel 1714 sotto il controllo del Ducato di Milano, annesso all’impero asburgico, anche se questo passaggio non interferirà con gli interessi della locale Famiglia feudataria dei Borromeo, che conserverà i propri privilegi, in particolare per quanto riguarda la decima sull’attività mineraria.

All’epoca, i documenti ufficiali [9] registravano, oltre alla presenza di alcuni opifici per la metallurgia dell’oro, l’esistenza di sei miniere attive, tra qui quella di Ciola, del gruppo delle miniere dei Cani sopra Vanzone San Carlo, e Lavanchetto tra Ceppo Morelli e Campioli.

Nel 1743 con il Trattato di Worms, la Valle Anzasca passa allo Stato sabaudo, anche se, come già ricordato, alla Famiglia Borromeo rimarrà il controllo della gestione dell’attività mineraria.

Così la Valle Anzasca non conoscerà il periodo (1752-1771) di gestione diretta delle miniere da parte delle Regie Finanze, sotto la Sovraintendenza del cavaliere Spirito Benedetto Nicolis di Robilant.

Lo stesso Robilant, nella sua "Relazione sull’oro alluvionale dei territori in terraferma del Regno Sabaudo", all’interno di “Essai géographique suivi d’une topographie souterraine, minéralogique et d’une docimasie des Etats de S.M. en terre ferme” (1786), esalterà la ricchezza mineraria dello Stato Sabaudo, in particolare della Valle Anzasca,  sottolineando la necessità di sottrarre ai Borromeo la gestione mineraria per passarla allo Stato: «... Li stati che hanno la fortunata sorte di essere sotto il Dominio della M.S. sono stati dalla Provvidenza beneficiati d’infinite dovizie, le quali sendo ben messe a profitto ponno renderne li sudditi fragili più felici di qualsivoglia altra nazione. Ometterò le ricchezze che derivano dall’agricoltura, come pure quelle che dall’arti procedono, ma mi limiterò solo ad alcune di quelle che dal Regno minerale si traggono. Ella è cosa dimostrata dall’esperienza che tutta la longa serie dell’Alpi dal S. Gottardo sino al contado di Nizza, così la catena dell’appennino sino alle sorgenti della Trebbia, comprendono infiniti dirò così indizi di miniere della maggior parte de metalli, che le colline di trasporto adiacenti a questi monti metalliferi ne sono pure abbondanti... La Valle Anzasca specialmente coltiva molte fodine d’oro di Macugnaga e, rileva dalla Casa Borromeo di Milano, scorre in essa un torrente detto l’Anza. Nelle falde del Monte Rosa alla sinistra del torrente sono in coltura molte fodine tra le quali quelle del Salto, ed il Pozzone sono le più rinomate, e molti altri filoni che si scavano da diversi proprietari; tutti hanno concessioni od appalti dal suddetto Principe. Il minerale si è la marcasite e terre rosse nel quarzo; sebbene da 34 anni a questa parte siansi moltiplicati i lavori in esse miniere, e che attualmente quello che ritrae maggiori prodotti sia il Sig. Testone, però se darà un’occhiata alla mia relazione si verrà in chiaro su la loro natura. Ed in tal tempo già si era proposto di convenire colla Casa Borromeo d’una cessione del diritto di tutte quelle miniere, per sottomettere tutte quelle che si scoprirebbero in tutto l’Alto Novarese ad una stessa legge onde metter in situazione l’Augusta Real Famiglia di ritrarre buon partito di tutte, le miniere d’oro dei suoi stati.

A metà della Valle Anzasca verso i monti di S. Carlo, e a Gondo, al luogo d’Arbarino furono gl’antichi tempi lavorate molte miniere d’oro con altri metalli di piombo, e di rame in Val Toppa, altri al Fontano nella detta valle alla Pieve di Vergonte, a Val Bona regione di Vossari d’oro, ed argento superiormente a Vogogna; e sulle altezze d’Ornavasso, di rame al Mingiandone, di ferro al Laiadavono di cui ebbi l’onore di presentare a questa Real Accademia delle Scienze una circostanziata relazione...».

Nella seconda metà del XVIII secolo, la crisi che colpisce l’attività mineraria della Valsesia, con il sostanziale fallimento del progetto di statalizzazione delle miniere e il ritorno alla gestione privata con una conseguente forte riduzione dell’occupazione, fornisce alla vicina Valle Anzasca la manodopera e le competenze necessarie al rilancio locale dell’attività mineraria.

Imprenditori locali, già occupati in attività mercantili o forensi, decidono di investire le loro ricchezze nelle miniere.

Tra questi spiccano il capitano Bartolomeo Testoni di Bannio in Valle Anzasca e gli alagnesi Pietro Giordano, Antonio Ferro e i fratelli Giovanni e Cristoforo de Paulis, i quali riescono rapidamente a concentrare nelle loro mani il controllo dell’attività mineraria della valle, concesso, a canone fisso rinnovabile ogni triennio, dal feudatario Federico VI Borromeo.

Il Testoni, ingegnere minerario “ante litteram” dotato di dinamismo e “fiuto”, ottiene, inoltre, l’investitura del feudatario a fiduciario delle miniere della Valle Anzasca.

Nel 1780 la valle viene visitata dal famoso naturalista e alpinista ginevrino Horace Benedict de Saussure, che nel suo “Voyages dans les Alpes” (fig. 9) così descrive la situazione mineraria della valle: 

«Le miniere principali sono nelle vicinanze di un villaggio chiamato Pescarena. Quella del signor Testoni, nella quale sono disceso e che ho osservato con la più grande cura, si chiama Cava del Pozzone. La maggior parte dei filoni sono posti in verticale, ma essi non seguono nessuna direzione particolare, talvolta addirittura s’incrociano, ed è questo che si cerca; è in queste intersecazioni che si trovano i nidi o nodi, ‘gruppi’, dove sono le più grandi ricchezze.

Fig. 9 - Horace  Benedict de Saussure: Voyages dans les Alpes

Si dice che il capitano Testoni vent’anni innanzi era completamente al verde e pieno di debiti e stava per essere costretto ad abbandonare la miniera, allorché capitò addosso a uno di questi nidi da cui ricavò in ventidue giorni centoventisei libbre e dodici once, ossia centottantanove marchi d’oro puro. Tuttavia è certo che il prodotto delle miniere è considerevolmente diminuito da qualche anno; e così va diminuendo giornalmente la brama di sfruttarle. Negli anni di maggior prosperità furono impiegati sino a mille operai nella sola miniera della giurisdizione di Macugnaga, e oggi se ne contano appena la metà; coloro che hanno miniere cercano di disfarsene e tutti i proprietari che ho incontrato, eccetto il Testoni, hanno proposto anche a me di comprarle. Sembra che queste miniere siano generalmente più ricche in superficie che all’interno della montagna e che si è estratto ormai tutto quello che c’era di meglio».

Negli stessi anni, lo scienziato e viaggiatore ligure Carlo Amoretti, a proposito del metodo con cui i valligiani scoprono i filoni auriferi, racconta: «Nelle notti oscure e procellose stanno gli abitatori di quei monti in luogo aperto e guardano se in alcun punto dell’opposto monte veggonsi fiammelle e scintille. Segnano quel luogo quanto più possono esattamente e al dì seguente vanno a visitarlo; e se vi trovano indizi di pirite scomposta (il che sovente avviene) concepiscono speranza di buon successo, e lo scavo imprendono».

Nonostante quanto affermato dal de Saussure, probabilmente dovuto al fatto che gli imprenditori locali erano stati confinati in concessioni di poco valore e se ne volevano disfare, il periodo 1760÷1785 è stato il più significativo della storia della Valle Anzasca nel XVIII secolo.

Nel 1783, per il solo distretto di Pestarena, erano in attività ben 17 miniere: Valletta, Minerone, Valler, Lavanchetto, Scarpia, Trappola, Alpetto, Caccia, Venna, Bruttone, Brusone, Bosco di Fornalei, Quarazza, Hatte, Cavetto e Pozzone.

Quest’ultima, già coltivata in passato e poi abbandonata a causa di un’inondazione che ne distrusse l’ingresso, fu recuperata dal Testoni per mezzo di un pozzo, da cui il nome, che raggiunse la galleria in un punto più elevato del filone.

Tra il 1785 e il 1792, tuttavia, muoiono alcuni dei maggiori impresari locali, tra cui de Paulis, Giordano e lo stesso Testoni, segnando l’inizio di un rapido declino dell’attività, dovuto anche all’approfondirsi delle coltivazioni per esaurimento delle zone ricche più superficiali e alle difficoltà connesse all’intercettazione delle falde acquifere con le conseguenti infiltrazioni in galleria, problematica che per essere risolta dovrà aspettare i primi anni del XX secolo, quando sarà costruita una galleria di scolo di 2 km tra Campioli e Pestarena, tracciata 120 metri sotto il livello del torrente Anza e con sbocco all’aperto.

Bisognerà attendere il 1840, con l’entrata in vigore della nuova legge mineraria sabauda che favoriva l’arrivo di capitale britannico, per poter registrare un nuovo periodo di sviluppo delle miniere anzaschine.


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[9] Lettera del Barone D’Engelhardt, rappresentante di Vienna nella "Commissione per la definizione dei confini tra Piemonte e Milano", al Governatore di Milano (2 agosto 1725)

La seconda metà del XIX secolo: arrivano gli inglesi!

Eugene Francfort

Nel 1840, nella zona di Pestarena erano attive sei miniere con una produzione annuale di circa 142 kg d’oro, gestite da imprenditori locali, ma l’emanazione delle leggi minerarie del Regno sabaudo e le successive liberalizzazioni volute da Cavour nel 1856 favorirono l’afflusso di tecnici minerari incaricati di valutare le potenzialità dei maggiori giacimenti, per investirvi capitali messi a disposizione da facoltosi finanziatori di oltre Manica.

In questo contesto, nel 1857 approda in Piemonte l’ingegnere londinese Eugene Francfort, reduce da attività minerarie svolte per 8 anni negli Stati Uniti, che per le sue capacità tecniche e affaristiche diviene il punto di riferimento di diversi gruppi di investitori inglesi, interessati particolarmente alle miniere d’oro del Monte Rosa.

Dapprima interessato alle miniere cupro-nichelifere e piombifere della parte orientale della provincia ossolana, in vicinanza della riva occidentale del Lago Maggiore (Migiandone, Baveno, Motto Piombino, Peel), nel luglio 1858 il Francfort si sposta verso occidente, in Valle Anzasca dove viene chiamato dalla Società Anonima delle Miniere dei Cani a esprimere un parere sulle potenzialità del giacimento e sul trattamento metallurgico, con particolare riguardo al processo di amalgamazione dell’oro (fig. 10).

Rendendosi conto del potenziale dei giacimenti auriferi della valle e sfruttando la stima e l’amicizia che si era conquistato da parte di Quintino Sella e Costantino Perazzi, allora ispettori del Corpo delle Miniere e responsabili in successione del Distretto Minerario di Torino, in meno di dieci anni Francfort riesce a concentrare nelle mani dei capitalisti britannici la gran parte dei giacimenti auriferi anzaschini.

Nasce così, nel 1863 con 50,000 sterline di capitale, “The Vallanzasca Gold Mining Company Ltd” per l’affitto venticinquennale della miniera dei Cani.

Quello stesso anno vengono acquistate:

Il vero obiettivo è, però, il bacino aurifero di Pestarena con le sue cinque miniere principali: Peschiera, Acquavite, Morghen, Pozzone e Speranza.

Sono tutte sotto il controllo del gruppo locale Spezia, Moro e Conterio, secondo i RR.DD. di concessione del 2 dicembre 1852, le prime tre, e 28 aprile 1855, le altre due.

Il 18 ottobre 1865, il Francfort sborsa ben un milione di sterline per acquisirle e poi passarne il controllo alla società inglese “The Pestarena Gold Mining Company Ltd”, fondata nel gennaio successivo con 150,000 sterline di capitale e che nel marzo 1867 accorperà le altre società inglesi succitate nella nuova “The Pestarena United Gold Mining Company Ltd” (fig. 11), acquisendo, così, il controllo di tutte le principali miniere dalla parte orientale della provincia ossolana.

Nominato già nel 1861 Ufficiale dell’ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro e successivamente Commendatore, il Francfort espande la sua attività anche al di fuori dell’ambito minerario, facendosi promotore per un’altra Società inglese, la “The City of Milan Improvements Company Ltd”, di interventi urbanistici sulla città di Milano, comprendenti lavori di ampliamento del Duomo e della Galleria Vittorio Emanuele II.

Questi interventi si svolsero tra il marzo 1865 e il settembre 1867 dopodiché, all’apice del successo, il Francfort si isola dal mondo e il 22 settembre 1868, a Pallanza, si uccide con un colpo di pistola, probabilmente a causa di alcune divergenze di opinione con gli imprenditori inglesi riguardo la reale potenzialità delle miniere anzaschine, che lo avevano particolarmente amareggiato.



Fig. 10 - Rapporto del Francfort sulle Miniere  dei Cani

Fig. 11 - Marchio della Pestarena United

The Pestarena United Gold Mining Company Ltd [10]

L’ingresso della società inglese nella gestione delle miniere aurifere ossolane porta una maggiore organizzazione ed estensione delle attività, che si articolavano su tre distretti (fig. 31): Pestarena (Peschiera, Acquavite, Morghen, Pozzone e Speranza), Battiggio (Cani), Val Toppa (Tagliata).

La produzione aumenta velocemente, passando dai quasi 70 kg del biennio 1864-1865, ai poco più di 190 kg del 1866, quando entra in funzione anche il distretto di Pestarena che produce circa il 50% del totale.

I principali problemi che, in questa fase, la società concessionaria incontra sono legati al processo di trattamento del minerale per amalgamazione e al costo dei trasporti tra miniere e impianti di trattamento.

Nel primo caso si osserva che il rendimento del processo peggiora all’aumentare della concentrazione di arsenopirite, cosa che nei filoni ossolani si verifica quasi costantemente con l’aumentare della profondità di coltivazione.

Per quanto riguarda i costi di trasporto elevati, essi limitano la coltivazione alle sole zone ricche, tali da garantire un ritorno immediato dell’attività estrattiva.

Pertanto, poiché il minerale abbattuto al contatto con l’aria subisce l’ossidazione dei solfuri e non garantisce un elevato rendimento del processo di amalgamazione, in molte zone le masse aurifere rimanevano “a vista” non coltivate e la capacità degli impianti di trattamento del minerale grezzo non era sfruttata adeguatamente.

A provare a dare una prima risposta a questi problemi ci pensa il ventottenne ingegnere Clement La Neve Foster, uscito dalla Royal School of Mines di Londra, con esperienze nelle miniere di Cornovaglia, Sinai e Venezuela.

Assunto nel 1869, opererà nella Pestarena Gold Mining fino al 1872, occupandosi soprattutto della Val Toppa.

Su sua iniziativa vengono adottate nuove soluzioni sia per il trattamento di minerale a basso tenore che per quello ricco di oro libero, mentre per il trasporto dei minerali l’ingegner Foster propone l’introduzione di un innovativo sistema di trasporto, detto “ferrovia sospesa”, una sorta di primitiva funivia brevettata da Charles Hodgson nel 1868 e già utilizzata nelle miniere inglesi.

Il sistema (fig. 13) consisteva in una linea monofune a moto continuo supportata da una serie di pulegge sostenute da pali e con vagoncini agganciati mediante un semplice morsetto ad appoggio.

Tra le prime realizzazioni pionieristiche del sistema, figurano proprio le due linee aeree stese per il trasporto del minerale dai cantieri di Pestarena e della Val Toppa ai rispettivi impianti di trattamento.

Da Pestarena il minerale veniva portato a spalle fino al Morghen e da lì la funicolare di 2,500 m di lunghezza, in tre tronconi, lo convogliava a Ceppo Morelli, da cui tramite la strada carrabile arrivava a Battiggio; in Val Toppa, invece, la linea scendeva direttamente dall’Alpe Fontano all’impianto di Fomarco, con un singolo tratto di 2,800 m.

Nella stazione inferiore, le due linee utilizzavano la forza motrice fornita dall’Anza, mediante una ruota idraulica che azionava una grande puleggia, grazie alla quale si trasmetteva il moto alla fune senza fine.

Nonostante questi interventi, la produzione, che nel periodo 1867÷1870 si aggira intoro ai 200 kg, subisce successivamente un calo, in parte dovuto alla minore qualità del minerale grezzo estratto.

Di conseguenza, nel 1874 la Società Pestarena affida la gestione alla londinese John Taylor & Sons, società di consulenza ingegneristica con interessi minerari in tutto il mondo.

Nel piano di sviluppo adottato dalla società gerente si dà particolare enfasi al trattamento del minerale, sia quello povero perfezionando il processo di amalgamazione, sia quello ricco di oro libero mediante il ricorso a un sistema di macinazione più economico e veloce.

Con queste nuove misure la produzione torna a crescere, aggirandosi sui 200 kg nel periodo 1880÷1886 e arrivando al picco di 232 kg nel 1887.

Tuttavia, le roboanti affermazioni del direttore e procuratore Harper Powell in occasione dell’Esposizione universale di Torino del 1884, secondo cui il complesso Pestarena e Val Toppa, con oltre 12 km di gallerie, 70.000 m3 di minerale estratto e una manodopera di 500 unità, costituiva uno dei principali comprensori auriferi europei, sono presto smentite dai fatti.

Dopo il 1887, infatti, l’attività in Val Toppa viene gradatamente ridotta, la miniera Cani a Ceppo Morelli è affittata alla Ditta milanese Vogel per la coltivazione di pirite al fine di ottenere acido solforico, con l’oro come prodotto secondario, e praticamente tutta l’attività estrattiva dell’oro viene concentrata nel distretto di Pestarena.

Conseguentemente, la produzione scende dai 204 kg del 1889 ai 172 del 1892, riprendendosi l’anno successivo (225 kg), soprattutto grazie a nuovi miglioramenti nei metodi di trattamento del minerale, con particolare riguardo al processo di cianurazione per l’estrazione dell’oro, messo a punto nel 1887 dagli scozzesi John Stewart McArthur, Robert e William Forest e perfezionato nel 1891 dall’americano Gilbert S. Peyton.

Ma è solo un “fuoco di paglia”: la miniera della Val Toppa produce sempre meno con una manodopera ridotta ormai a 13 unità, Pestarena resiste con circa 60 minatori, ma è chiaro che il destino della Società è segnato.

Nel 1898 a Londra viene costituita la nuova compagnia “The Pestarena Gold Mining Company Limited” con il solo compito di coltivare, in affitto, le miniere possedute dalla vecchia società.

Tre anni dopo la nuova società è messa in liquidazione e il 18 novembre 1902 cede le sue proprietà minerarie all’intermediario Giacomo Tabachi di Ceppo Morelli, il quale a sua volta il 5 ottobre 1906 le trasferirà ai fratelli Ceretti di Villadossola, imprenditori siderurgici, già proprietari della miniera di ferro di Ogaggia e della fonderia di Villadossola, che avevano ricavato una certa fortuna grazie alla costruzione della linea ferroviaria del Sempione.

Fig. 12 - Il complesso minerario della “Pestarena United Gold Mining Company Ltd”

Fig. 13 - - a) Schema di ferrovia sospesa; b) secchi originali

«Il sogno legato all’oro della Queen of the Alps era ormai svanito. Il personale inglese e le maestranze, comunque, già da qualche anno avevano iniziato a cercare altre opportunità di lavoro: alcuni degli ingegneri rientrarono in Inghilterra, altri si orientarono invece verso le aree minerarie situate nelle colonie britanniche o gestite da società anglosassoni, spesso invitando a seguirli gli uomini che avevano avuto alle loro dipendenze e apprezzato per tanti anni: fu così che dalla miniere d’oro della valle Anzasca presero l’avvio le note correnti migratorie di lavoratori minerari verso l’Inghilterra, l’India e il Canada.» [11]


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[10] Per maggiori approfondimenti vedi: Riccardo Cerri “Gold Save the Queen. Le miniere aurifere del Monte Rosa e il capitale britannico (1863-1902), in Speciale Monte Rosa, le Rive n. 1-2 (gennaio-aprile 2019) 

[11] Ibidem

Bibliografia