Le miniere di ferro elbane

Geologia e giacimentologia


Le principali miniere di ferro dell’Elba sono situate nella parte orientale dell’isola: da Nord (Rio Marina) a Sud (Capoliveri), rispettivamente con prevalenza di ematite e magnetite.

ln particolare, i principali corpi mineralizzati di Rio Albano e Rio Marina, sono controllati da sistemi di faglie normali, prevalentemente con direzione circa N-S e immersione a E (fig. 1).

La mineralizzazione principale a ematite è spesso accompagnata da variabili quantità di pirite e/o limonite, in cui l’ematite tende a occupare le porzioni più superficiali delle mineralizzazioni, mentre la pirite predomina in quelle più profonde, tanto da determinare l’interruzione della coltivazione una volta raggiunti tenori troppo elevati di zolfo nel grezzo estratto; la limonite, invece, deriva in larga parte dall’alterazione meteorica degli altri minerali ferrosi, in particolare della pirite, ed è particolarmente abbondante nei cantieri di Rio Albano e nella porzione occidentale della miniera di Rio Marina.

Da un punto di vista delle strutture e tessiture dei minerali, l’ematite a Rio Marina si presenta in masse compatte, in forma ocracea e terrosa, ma anche in bellissimi cristalli.

Le analisi radiometriche effettuate su campioni di ematite a Rio Marina e Terranera hanno permesso di datare la mineralizzazione al Miocene superiore (ca. 5.4 Ma), collegandola all’intrusione del Monzogranito di Porto Azzurro e alla conseguente sostituzione metasomatica.

Il giacimento del Ginevro, situato nella costa orientale del Promontorio del Monte Calamita, è costituito da due lenti subparallele con direzione circa N-S e immersione ad O, associate a un particolare tipo di skarn che sfuma verso l’esterno in un guscio di cornubianiti calciche, che rappresentano l’unica testimonianza di un protolito carbonatico all’interno del Complesso di Monte Calamita.

 Diversa è la situazione giaciturale del giacimento di Punta Calamita (fig. 2), situato nella parte meridionale del promontorio, dove le mineralizzazioni a magnetite prevalente sono localizzate entro le formazioni cristalline essenzialmente carbonatiche triassico-giurassiche (“formazione di Tocchi" p.p. e “marmi delle Calanchiole"), talora brecciate, presenti a tetto del Complesso di Monte Calamita.

Queste formazioni sono state interessati da intensi processi metasomatici che hanno portato alla formazione di due principali tipi di skarn, l’uno a granato (andradite) prevalente, l’altro a ilvaite-hedenbergite. La magnetite si trova in ammassi e lenti di forma e dimensione variabili all’interno dei due tipi di skarn.

Specialmente nei cantieri settentrionali sono stati parzialmente coltivati anche corpi a solfuri (pirrotina, pirite, calcopirite, sfalerite, arsenopirite) al contatto tra le mineralizzazioni a magnetite e gli skarn.

Sono caratteristici di questa area mineraria anche minerali di alterazione (quali azzurrite, malachite, crisocolla) e rame nativo.

Per quanto riguarda la genesi dei giacimenti, le due linee di pensiero che storicamente si sono confrontate, “plutonista-epigenetica” e “singenetica-metamorfica”, sono state già brevemente descritte alla pagina Minerali Metalliferi.

Rimangono aperte alcune questioni, relative ai giacimenti associati ai corpi di skarn, che pongono seri interrogativi sulla correlazione genetica e spaziale tra le mineralizzazioni elbane e skarn.

In particolare:

Fig. 1 - Sezioni geologiche delle miniera di Rio Marina e Rio (F. Gillieron, 1959)

Fig. 2 - Sezione della miniera Calamita (F. Gillieron, 1959)

Cenni storici fino agli inizi del XX secolo


Sebbene le miniere di ferro elbane siano state conosciute e sfruttate sin dall’antichità [1] in quanto affioranti e coltivabili “a cielo aperto”, le prime notizie documentate che le riguardano sono i privilegi concessi nel 1066 sulle miniere di ferro e argento da Papa Alessandro I a Bernardo, vescovo di Populonia, e un diploma dell’imperatore Enrico VI, che nel 1193 cedette l’Elba, compresi i diritti sulle miniere, alla Repubblica di Pisa.

Indebolita dalla sconfitta nella battaglia della Meloria (1284), nel 1290 Pisa perdette il controllo dell’Elba a favore di Genova, ma lo riottenne nel 1309 dietro pagamento di 56,000 fiorini d’oro.

Nel 1399 gli Appiani, che governavano Pisa dal 1392, decisero di vendere la città e i suoi possedimenti ai Visconti di Milano, riservandosi Piombino, Suvereto, Scarlino e l’Elba con Pianosa e Montecristo, che andranno a costituire il nuovo Principato di Piombino, e mantenendo i diritti sulle miniere. 

Jacopo III Appiani, il più illuminato dei Signori di Piombino (1458-1474), incrementò fortemente l’esportazione di minerale, inviato per la maggior parte a Genova, ma fu Cosimo I de’ Medici a ottenere, nel 1543, da Jacopo V Appiani (1511-1545) il monopolio del minerale di ferro dell’Elba per 15 anni rinnovabili.

Di quegli anni (prima metà del XVI secolo) è pure la compilazione della copia, conservata nel Comune di Rio Elba, degli “Statuta Rivi” (Statuti di Rio), il codice di leggi e norme che regolava civilmente e penalmente la vita dei cavatori, raccogliendo ordinamenti e tradizioni risalenti fino al periodo pisano, e rappresentando, assieme ai codici di Massa Marittima e Iglesias, una preziosa e rara documentazione dell’antica legislazione mineraria in Italia. 

Estintasi nel 1603 la Signoria degli Appiani, ad essa succedettero, dopo alterne e complesse vicende, dapprima quella dei Ludovisi, principi di Venosa, poi quella dei Boncompagni-Ludovisi, che divennero Signori di Piombino nel 1734 e, pur facendo lucrosi guadagni con la vendita del minerale (ca. 6,500 tonn/anno), non si impegnarono mai nella trasformazione del prodotto, preferendo una vita lussuosa a Roma senza mai recarsi a Piombino o a Rio.

Nel 1802 i Boncompagni-Ludovisi furono spodestati dai francesi, che annessero l’isola d’Elba e affidarono la gestione delle miniere al governo centrale che, a sua volta, le dette in concessione per 25 anni alla società Boury & Chevalier, per un canone annuo di 500,000 franchi o l’equivalente in ferro.

Fallita la società concessionaria, nel 1809 la miniera fu affidata ad Andrè Pons  de l’Herault; intanto, il blocco continentale decretato da Napoleone contro l’Inghilterra nel 1806 aveva favorito gli stabilimenti siderurgici locali, soprattutto quello di Follonica, che assorbirono gran parte della produzione elbana.

Dopo la sconfitta di Napoleone a Waterloo nel 1815, il Trattato di Vienna incorporò il principato di Piombino nel Granducato di Toscana, previo il pagamento ai Boncompagni-Ludovisi di un’indennità equivalente alla mancata rendita delle miniere dell’Elba dal 1799.

Indennità che fornì al Granduca Ferdinando III un’ottima motivazione  per sospendere nei territori dell’ex principato l’applicazione del motuproprio emanato da Pietro Leopoldo nel 1788, con il quale si era stabilito il regime fondiario per le proprietà minerarie (vedi Legislazione mineraria pre-unitaria). 

Per le miniere elbane, ormai entrate a far parte del demanio dello stato toscano, si preferì puntare su un sistema, quello della regalia [2], confermato dal Rescritto sovrano del 1856, che estese il motuproprio 1788 anche alle miniere dell’Elba e Piombino, mantenendo, però, l’eccezione per le miniere di ferro.

In questo quadro, si affermò il criterio di affidare la gestione delle miniere ad amministrazioni miste, che riunivano sotto di sé imprenditori privati e controllori governativi, quest’ultimi con diritto di veto su qualsiasi decisione sia di carattere tecnico che amministrativo.

Nel 1860, al momento del passaggio dal Granducato di Toscana al nuovo Stato italiano, il giacimento elbano era per l’appunto gestito da un’amministrazione mista, l’Amministrazione Cointeressata delle Reali Miniere del Ferro dell’Isola d’Elba e delle Fonderie di Follonica, costituitasi con durata trentennale il 19 luglio 1851 e in cui il privato di turno era il banchiere livornese Pietro Bastogi.

All’epoca, l’escavazione delle miniere elbane si era concentrata nei cinque cantieri di Rio, Vigneria, Rio Albano, Terranera e Calamita, che dal 1860 alla fine del secolo arrivarono a fornire oltre l’80% del minerale di ferro estratto in Italia, minerale, peraltro, particolarmente ricco, con tenore medio di contenuto ferroso superiore al 60%.

Con l’avvento del nuovo Stato le cose cambiarono solo superficialmente, senza mutamenti significativi negli orientamenti gestionali, sebbene il ruolo del Commissario governativo venne ridimensionato, almeno nella qualifica ufficiale, a quello di “consultore tecnico”.

Di fatto, le miniere elbane per tutto il XIX secolo restarono ai margini del progresso tecnico-industriale che caratterizzò il resto dell’industria estrattiva.

In assenza di un reale miglioramento tecnologico, il notevole incremento nella quantità di minerale scavato, costantemente sopra le 150,000 tonnellate dal 1871, venne reso possibile quasi esclusivamente dal ricorso a forti aumenti della manodopera [3], di cui potevano far parte, fino a un massimo di un terzo del totale degli occupati, anche un certo numero di condannati al bagno penale della Linguella a Portoferraio.

Sebbene all’inizio degli anni ‘70  si fosse provveduto all’installazione di due pontili in ferro sia a Rio che a Vigneria, le carenze più evidenti riguardavano il trasporto e l’imbarco del minerale, che per la maggior parte avveniva con il sistema del trasbordo da barche che prendevano il carico ai pontili e lo portavano ai bastimenti: un sistema lento e soggetto alle inclemenze del mare, che impedivano le operazioni di imbarco per quattro/cinque mesi l’anno.

Tuttavia, nonostante i ritardi indicati, per l’economia dell’Elba le miniere, stante un’occupazione mantenuta artificiosamente elevata, rappresentavano ancora una sicura fonte di reddito e un potente fattore di stabilità sociale in una fase di crisi socio-economica dell’isola, che aveva colpito particolarmente le attività marinare e agricole, quest’ultime fortemente immiserite dalla diffusione della filossera nei vigneti.

A conferma di ciò, l’aumento consistente del fenomeno migratorio agli inizi degli anni ’80 del XIX secolo fu praticamente confinato alla popolazione dei comuni occidentali, più lontani dalle miniere e di conseguenza meno impegnati nell’attività estrattiva.

Con l’approssimarsi della scadenza della Cointeressata (30 giugno 1881), salì l’interesse del mondo imprenditoriale per le miniere elbane.

A tutti pareva chiaro che qualunque progetto di siderurgia a ciclo integrale competitivo su scala internazionale, messo in atto rinunciando in partenza all’utilizzazione del minerale di ferro dell’Elba, non avrebbe fatto molta strada.

Dei progetti presentati per lo sviluppo delle miniere elbane, tre meritavano particolare attenzione e tutti e tre prevedevano la realizzazione di uno stabilimento siderurgico di almeno 30,000 tonnellate annue.

Tutti questi progetti, tuttavia, rimasero sulla carta e nel 1881 alla Cointeressata subentrò, come affittuario per tre anni, la Banca Generale, uno dei più importanti istituti di credito, non nuovo a iniziative nel settore siderurgico, avendo partecipato fin dal 1872 alla Società per l’Industria del Ferro, trasformatasi nel 1880 in Ferriere Italiane.

Scaduto il periodo di affitto, l’asta pubblica per l’assegnazione della concessione delle miniere elbane va deserta e, dopo un ulteriore anno di proroga, nel 1885 alla vecchia affittuaria viene affiancata la Società Veneta per Imprese e Costruzioni Pubbliche, la stessa che aveva promosso la nascita delle acciaierie a Terni.

Tuttavia, la nuova configurazione della compagine affittuaria non produce la svolta sperata, soprattutto nel campo della riduzione dell’esportazione e del conseguente maggiore uso interno dei minerali elbani. Probabilmente, la mossa della Veneta e della sua collegata Terni mirava più a stabilire un controllo sulle materie prime in modo da bloccare l’ascesa di qualche pericoloso concorrente che a rilanciare l’attività mineraria a supporto della siderurgia nazionale.

Di conseguenza, nel 1888, il Ministro delle Finanze Agostino Migliani risponde negativamente alla richiesta dell’Amministratore Delegato della Veneta, Vincenzo Stefano Breda, volta a ottenere in forma esclusiva la disponibiltà del minerale elbano.

È necessario, quindi, ricorrere a una soluzione interlocutoria, che viene trovata a livello locale affidando, per il periodo 1888-1897, la gestione del giacimento a Giuseppe Tognetti, notabile elbano, senza che, peraltro, la situazione si modifichi di tanto, restando il ricorso all’esportazione un comodo approdo [4] in assenza di alternative sicure, che sarebbero state rappresentate dalla realizzazione di un progetto integrato di sfruttamento del minerale estratto in uno o più impianti siderurgici capaci di produrre una quantità di ghisa stimata in 30,000÷35,000 ton/annue.

In mancanza di ciò, l’attività produttiva delle miniere elbane non riesce, quindi, a decollare,  ma alla fine del XIX secolo gli effetti coordinati di una congiuntura economica internazionale particolarmente favorevole e di una decisa azione di risanamento, soprattutto in campo bancario e finanziario, nonché i sempre più solidi legami con la Germania guglielmina, contribuiscono a disegnare un orizzonte meno cupo.


____________________________________

[1] Gli scrittori antichi unanimamente consideravano l'Elba la terra del ferro.

[2] Per regalia s’intende il diritto del Sovrano di disporre delle risorse minerarie non ancora estratte.

[3] Passata dalle 633 unità del 1866 alle 1180 del 1895, con un massimo di 1546 nel 1873 (Fonte RSM)

[4] L’esportazione del minerale passa da un tasso medio del 40.4% nel periodo 1851÷1859, all’84.5% tra il 1859 e il 1881, fino al 98.4% tra il 1881 e il 1897, in gran parte verso la Gran Bretagna (49%) e gli Stati Uniti (37%).

La nascita dell'ILVA e la siderurgia italiana nel XX secolo

Alla fine del XIX secolo, gli effetti coordinati di una congiuntura economica internazionale particolarmente favorevole e di una decisa azione di risanamento, soprattutto in campo bancario e finanziario, nonché i sempre più solidi legami con la Germania guglielmina, contribuirono a disegnare un orizzonte meno cupo.

Così, dopo anni di discussioni intorno alla stesura di un capitolato di appalto che aprisse finalmente la strada all’utilizzazione del minerale di ferro in Italia, nel febbraio 1897 il Ministero delle Finanze, Direzione generale del Demanio, pubblicò un documento con la seguente intestazione: Capitolato per l’affitto delle Regie Miniere dell’isola d’Elba e delle Fonderie di Ferro in Follonica.


Sintetizzando, il nuovo Capitolato stabiliva che:


La relativa gara d’appalto si svolse a Livorno il 12 maggio 1897 e venne vinta da Ugo Ubaldo Tonietti (GU n. 154 del 5 luglio 1897, fig. 3), subentrato come concessionario già nel 1894 alla morte del padre Giuseppe.

Tonietti, che aveva al suo fianco Pilade Del Buono nella duplice veste di ex direttore del giacimento e di rappresentante politico degli interessi isolani, offrì come canone di affitto per il minerale destinato all’esportazione lire 7.25, una cifra molto elevata che poteva trovare giustificazione solo nella volontà di sviluppare un’attività di trasformazione, volta alla piena e fin troppo ritardata utilizzazione del minerale di ferro in Italia.

Due anni dopo, il 29 luglio 1899, venne costituita a Genova la società “Elba società anonima di Miniere e Alti Forni”, con durata fino a tutto il 1925 e la partecipazione della banca genovese Credito Italiano, il gruppo siderurgico ligure Raggio e alcuni industriali metallurgici franco-belgi capeggiati da Eugene Schneider, al tempo a capo del colosso siderurgico francese Creusot.

L’articolo d’apertura dell’atto costitutivo stabiliva che la società aveva per scopo «l’industria metallurgica e specialmente l’affitto delle miniere dell’isola d’Elba e l’impianto di altiforni nell’isola stessa o altrove» e i sottoscrittori si impegnavano, con atto firmato il 17 luglio, a non partecipare per almeno 10 anni ad altre imprese italiane per la lavorazione del ferro. 

Il capitale sociale, fissato in 15 milioni ed estensibile a 25, era suddiviso in 60,000 azioni possedute da 26 sottoscrittori, tra cui i maggiori erano: Credito Italiano (31.1%), Ditta Carlo Raggio (11.0%), Caisse Commerciale (Bruxelles, 6.7%), Credit General Liëgeois (6.6%), Ditta F. G. Pavoncelli (Napoli, 5.3%), Società Prodotti Chimici ed Elettrochimici (Bruxelles, 5.0%), Ditta I. e V. Florio (Palermo, 4.7%), Eugene Schneider (3.3%), Ditta Schneider et C. (Le Creusot, 3.3%), Crédit Anversois (Anversa, 3.3%).

Il 5 novembre 1899 la nuova società, alla cui presidenza fu chiamato il Presidente dello stesso Credito Italiano, Giuseppe Filippo Durazzo Pallavicini, definì con il Tonietti il passaggio del contratto di appalto delle miniere per la somma ufficiale, ma probabilmente molto sottodimensionata, di 550,000 lire.

Meno di un anno dopo, il 20 ottobre 1900, si svolse a Lucerna la riunione che decise la costruzione dello stabilimento siderurgico di Portoferraio, che entrò in funzione nel 1902 garantendo la svolta necessaria per la gestione diretta del minerale estratto, la cui esportazione si contrasse drasticamente, da oltre l’80% del 1900 a meno del 30% del 1911.

Nel maggio 1907 tra il Regio Demanio e la società Elba vennero concordate alcune modifiche al capitolato del 1897, tra cui l’aumento del limite massimo di escavazione a 450,000 tonnellate annue e il divieto di vendita del minerale all’estero.

Il forte aumento delle quantità estratte (tab. 1), abbondantemente sopra i limiti massimi imposti, passate dalle circa 230,000 tonnellate del 1902 alle quasi 445,000 ton del 1907 (+93.47%) fino alle oltre 530,000 ton del 1910 (un ulteriore + 19.10%), fu dovuto quasi esclusivamente all’accresciuta produttività della manodopera, rimasta sostanzialmente invariata nel primo decennio del secolo intorno alle 1,450 unità (tab. 1), in assenza di importanti progressi tecnologici, stante che l’energia elettrica in miniera venne introdotta solo nel 1912 e che sino al 1909 la ferrovia a scartamento ridotto della miniera più importante, quella di Rio, utilizzò la trazione a cavalli.

Solo dal 1908 si cominciò a introdurre alcuni miglioramenti tecnico-organizzativi consistenti in: quattro pontili metallici, con capacità di carico 200 ton/ora, per il caricamento delle navi (2 alla miniera Calamita, 1 a Rio, 1 a Rio Albano), due funicolari e due piani inclinati a doppio binario nelle miniere di Rio e Rio Albano.

Tornando all’impianto siderurgico di Portoferraio, la scelta che portò a individuare tale ubicazione vide confrontarsi due gruppi sostenitori di opzioni alternative:

L’opzione elbana, risultata vincente, si rivelò alla lunga un errore, come sottolineò Oscar Sinigaglia nel secondo dopoguerra, al momento della formulazione del piano per la rinascita della siderurgia italiana a ciclo integrale che prese il suo nome: «Si commise allora il primo errore tecnico, che doveva poi pesare per decine e decine di anni sulla siderurgia italiana. Si decise, cioè, di costruire gli altiforni a Portoferraio, senza rendersi conto che non vi era spazio sufficiente e quindi possibilità di crearvi uno stabilimento siderurgico completo e moderno che arrivasse sino ai laminati, e che un’isola non era un posto adatto come grande centro di produzione».


___________________

[5] Già del 1866 la società Terni aveva un impianto  che però non era a ciclo completo e si approvvigionava di ghisa dall’estero: da qui l’interesse ad avere nelle vicinanze uno stabilimento per la fornitura di ghisa.

Fig. 3 - Avviso di approvazione del contratto di affitto delle miniere elbane

Tab. 1 - Produzione e occupazione delle miniere di ferro elbane  1900÷1910 (fonte Lungonelli, 1997)

Fig. 4 - Impianto di Portoferraio: altoforno e recuperatori Cowper in allestimento (Lungonelli, 1997)

Fig. 5 - Art. 17 della Legge 351 che assegna agli impianti di Napoli il minerale eccedente dell’Elba

La costruzione del nuovo complesso, ubicato nell’area delle ex saline di S. Rocco, comprendeva:


La mancanza di un impianto per la produzione dell’acciaio, causata dal limitato spazio disponibile nell’area elbana, si rivelò presto troppo limitante per lo sviluppo complessivo del progetto elbano, tanto che già nel 1906 si dette avvio a una serie di ampliamenti comprendenti la costruzione di un terzo altoforno e l’impianto di un’acciaieria dotata di due convertitori Bessemer.

Nonostante il nuovo potenziamento, che consentì dal 1909 una produzione di ghisa mediamente superiore alle 150,000 tonnellate (tab. 1) e di acciaio per quasi 70,000 tonnellate nel 1910, l’impianto non era ancora a ciclo integrale poiché, per la cronica mancanza di spazio, non si poté costruire il laminatoio. I lingotti d’acciaio dovevano, pertanto, essere raffreddati, imbarcati sulle navi e trasportati a Savona dove, finalmente, la lavorazione sarebbe stata completata, con gli evidenti aggravi sui costi di produzione dell’acciaio.

Nel frattempo, la costituzione della Società Elba e la costruzione dell’impianto siderurgico di Portoferraio avevano fatto da catalizzatore di un processo di riorganizzazione del sistema siderurgico italiano, che, molto schematicamente, può essere così descritto: 


Il 1905 è, dunque, l’anno nel quale inizia a profilarsi la concreta prospettiva di un’intesa tra i gruppi siderurgici rivali, per il controllo di un mercato nazionale in cui la domanda alimentata dalle amministrazioni statali continuava a prevalere largamente su quella degli operatori privati.

Nonostante i vantaggi impliciti in una condizione oligopolistica, la costituzione di un vero e proprio cartello, cui nel volgere di pochi anni sarebbe entrata a far parte anche l’impresa piombinese dei Bondi, non avrebbe però evitato la successiva crisi, per l’assenza di politiche di razionalizzazione produttiva che avrebbero richiesto il rafforzamento degli impianti a ciclo integrale (Piombino, Bagnoli) a scapito di quelli per varie ragioni incompleti (Portoferraio, Follonica), i quali, invece, continuarono a sopravvivere grazie al sistema di garanzie previste dall’accordo.

La crisi comincia a manifestarsi presto, già a partire dal 1906, trovando solo nel giugno 1911 - dopo anni di proposte, controproposte, accordi saltati, pressioni politiche - una provvisoria soluzione con l’intervento della Banca d’Italia che promuove un accordo consortile tra le sei grandi aziende siderurgiche affidando all’ILVA, in quanto già partecipata da cinque delle sei aziende, la gestione degli stabilimenti delle altre società. 

Dall’accordo, oltre ad alcuni impianti minori appartenenti alle Ferriere Italiane, vennero però escluse le miniere di ferro dell’isola d’Elba, che avevano ormai perso quella posizione di centralità nella questione siderurgica nazionale detenuta sino a qualche anno prima.

Per la Società Elba ebbe così inizio un lento ma inarrestabile declino, che non casualmente coincise con le vertenze sindacali dell’estate e autunno 1911; anche per l’impianto di Portoferraio, passato in esercizio al Consorzio ILVA, iniziava un percorso produttivo, complementare rispetto al più generale assetto del nuovo gruppo, che si sarebbe concluso solo trent’anni più tardi.

Lo scoppio della 1a guerra mondiale provocò, naturalmente, un aumento della produzione e sia le miniere che lo stabilimento di Portoferraio vennero dichiarati “impianti ausiliari” allo sforzo bellico nazionale (Decreto n. 1 del 4 settembre 1915).

Soprattutto nelle miniere l’incremento produttivo fu particolarmente consistente; il quantitativo complessivamente scavato negli anni di guerra superò infatti i 2.7 milioni di tonnellate, con il massimo storico nel 1916 con 826,801 tonnellate (+55.22% rispetto al 1910), mentre i livelli occupazionali si mantennero sui livelli del periodo prebellico (ca. 1,700 occupati).

A Portoferraio, invece, l’andamento produttivo fu decisamente più modesto e in nessuno degli anni di guerra si raggiunsero i livelli toccati nel 1912 con la fabbricazione della ghisa al coke (167,765 tonnellate); inoltre, nel corso del 1917 si decise di sospendere in via definitiva l’attività dell’impianto Bessemer entrato in funzione nel 1909.

Terminato il conflitto, la situazione di crisi si ripresentò e il sistema siderurgico tornò ad essere preda delle convulsioni prebelliche, alla ricerca di un assetto produttivo e organizzativo efficiente.

In questo frangente il protagonista fu Max Bondi, leader dell’azienda piombinese, che nell’ottobre 1917, con un’abile manovra di borsa e l’appoggio di Arturo Luzzatto, Amministratore delegato di Ferriere Italiane,  riuscì a portare l’ILVA sotto il controllo della Piombino

L’11 luglio 1918 nacque l’ILVA Alti Forni e Acciaierie d’Italia, volta a incorporare le imprese partecipanti al vecchio consorzio.

La società Elba, tuttavia, continuò a rimanere autonoma, mentre per lo stabilimento di Portoferraio si decise la prosecuzione della formula di impianto “in esercizio”, abbinato al nuovo organismo societario così come era avvenuto nel periodo del Consorzio ILVA.

Sorta e sviluppatasi più per soddisfare gli interessi e le ambizioni politiche del Bondi, la nuova società entrò, però, rapidamente in crisi proprio quando si profilava una fase di profonda modificazione del mercato interno, in cui diminuiva la domanda delle amministrazioni statali (in particolare quella delle ferrovie) e dei cantieri navali, mentre aumentava la richiesta di profilati per l’edilizia, di laminati di largo uso commerciale, di acciai di qualità e speciali nonché di pezzi per la meccanica leggera e la produzione di beni strumentali.

Tutto ciò spostò il baricentro del sistema siderurgico italiano dalle vecchie aziende alle acciaierie dell’Italia padana (Falck) e alle grandi imprese meccaniche come Fiat e Breda, divenute autoproduttrici di acciaio.

Naturalmente, questo nuovo quadro pesò in particolare su Portoferraio, che non era più solo un impianto incompleto e poco efficiente, ma era anche inserito in un sistema aziendale non più egemone.

Per le miniere, alla situazione di crisi si sommò la preoccupazione legata alla scadenza nel 1922 del contratto di appalto con il Ministero delle Finanze, scadenza che fu però prorogata di due anni.

Il nuovo appalto fu vinto dalla Società Concessionaria delle Miniere dell’Elba, costituita a Livorno il 18 giugno 1924, ma trasferita a Torino nel novembre dello stesso anno, avente un capitale di 10.4 milioni di lire, paritariamente suddiviso tra le società Elba e ILVA.

La nuova società ridusse drasticamente il numero degli occupati, che dalla fine degli anni ‘20 e per tutti gli anni ‘30 si mantenne intorno alle 700 unità.

Nel 1931 la società Concessionaria cessò di esistere e fino al 1939 le miniere passarono in gestione all’ILVA, nel quadro delle concentrazioni societarie che portarono anche all’assorbimento della società Elba.

Nel 1937, con la nascita della Finsider, prese avvio il processo di specializzazione delle aziende siderurgiche confluite nell’IRI, che si era costituita nel 1933.

Due anni più tardi vennero create due società distinte per il settore estrattivo: la mineraria siderurgica Ferromin e le ricerche minerali Rimifer, alle quali vennero ceduti, rispettivamente, l’esercizio delle miniere e i permessi di ricerca.

Con lo scoppio della 2a guerra mondiale le attività estrattive, dapprima rilanciate grazie alle richieste del mercato indotte dalla guerra stessa (ca. 500,000 tonnellate estratte nel 1941), furono successivamente ridotte anche a causa dei numerosi bombardamenti cui fu sottoposta l’isola. Uno soprattutto, quello del 19 marzo 1944, provocò gravissimi danni allo stabilimento di Portoferraio, che occupava circa 1,500 addetti, per cui l’ILVA decise di procedere alla sua definitiva chiusura, con gravi problemi sull’occupazione dell’isola, che già doveva sopportare i disoccupati reduci della guerra e i marittimi che avevano perso il lavoro per la distruzione della flotta di trasporto.

Indipendentemente dalla contingenza cui era dovuta, la chiusura dell’impianto di Portoferraio ben si inquadrava all’interno del piano di riorganizzazione e rilancio della siderurgia italiana promosso da Finsider nel 1948, di cui Oscar Sinigaglia, come presidente, fu il principale ispiratore.

Tale piano prevedeva «il superamento di tutte quelle resistenze che nei decenni precedenti avevano ostacolato l’attuazione di una grande siderurgia a ciclo integrale per la produzione di acciaio a basso costo. Esso muoveva dalla consapevolezza che si potesse ribaltare il tradizionale svantaggio italiano dovuto alla mancanza di materie prime, a condizione che la produzione venisse concentrata in un limitatissimo numero di impianti, tecnicamente validi e localizzati sul mare. La sua attuazione prevedeva inoltre la specializzazione dei tre grandi complessi a ciclo integrale, concentrando i prodotti cosiddetti ‘lunghi’ (profilati, rotaie, tondo, vergella) nei due stabilimenti ILVA di Piombino e Bagnoli, mentre alla Cornigliano (Genova) veniva riservata la produzione dei laminati ‘piatti’ (lamiere, coils, banda stagnata). Era soprattutto l’impianto genovese a dover recepire quanto di meglio era emerso nel settore in campo internazionale tra le due guerre, in particolare i nuovi metodi di produzione sperimentati negli Stati Uniti mediante l’impiego di grandi treni continui per l’ottenimento di laminati in nastro (coils), destinati all’industria manifatturiera e a quella automobilistica. La Fiat e il progetto vallettiano di sviluppo della motorizzazione privata erano infatti i soggetti che avrebbero garantito l’attuazione del piano attraverso un imponente contratto di fornitura» (Ranieri, 1985).

Tornando alle miniere, che occupavano un migliaio di addetti, anche per esse furono tempi di crisi a causa della diminuita produzione, scesa a 38,000 tonnellate nel 1946.

In queste condizioni la Ferromin rifiutò inizialmente di investire ma, all’inizio del 1950, a Vigneria furono avviati i lavori per il trattamento della pirite nella laveria detta “La Bisarca”, costruendo una teleferica per  portare  il minerale direttamente dal cantiere  di estrazione al sito di trattamento.

La scadenza delle concessioni  assegnate alla Ferromin, inizialmente prevista nel 1960, fu prorogata al 1970, continuando, peraltro, i segnali di crisi produttiva, acuiti dal contrasto che andava crescendo tra l’attività estrattiva e lo sviluppo di una vocazione turistica dell’isola.

Dal gennaio 1971 una convenzione decennale attribuì le concessioni alla società Italsider, del gruppo Finsider, fino al dicembre 1980.

Con il perdurare della crisi del settore, non più competitivo nel mercato internazionale sia come qualità  che costi, si giunse così alla dismissione delle miniere.

Dal 1981 la Società Nuova Italsider, oggi ILVA, ha continuato fino al 1992 l’escavazione di serpentino e silicato di magnesio, nel cantiere di Santa Filomena, a Rio.

Nella stessa area, con decreto dell’ingegnere capo del distretto minerario di Firenze, è stata rilasciata a EURIT s.r.l. per 10 anni a partire dall’8 maggio 1995 la concessione a coltivare olivina, magnesite, sali magnesiaci, talco, miche e associati denominata "Grottarione".

Complessivamente le miniere elbane hanno prodotto una quantità di minerali di ferro pari a circa 50 milioni tonnellate, articolate nei vari periodi storici come mostrato in tab. 2.


_____________________________________

[6] Ilva è il nome romano dell’Elba, a causa della popolazione composta in maggioranza da liguri, chiamati ilvates.

Tab. 2 - Produzione complessiva delle miniere di ferro elbane dal 1200 al 1981 (Massetani, 2012)