Lotte sindacali

in Friuli

Raibl-Cave del Predil: l'occupazione dei pozzi contro la chiusura della miniera (1991)


[1]

A fine anni ’80 la situazione della miniera di Raibl era tale per cui «un proprietario conducente (la Regione Friuli Venezia Giulia) accettava di partecipare finanziariamente ai bilanci di una società concessionaria (SIM) riluttante, coprendone il disavanzo a patto che quest’ultima non abbandonasse la coltivazione ma proseguisse il suo impegno anche al minimo possibile».

Fu, pertanto, prorogata la concessione di sfruttamento fino al 1990, allo scopo di scongiurare licenziamenti immediati e pensare al futuro.

Mentre prendeva sempre più piede l’ipotesi della chiusura dell’attività produttiva, varie proposte per la salvezza della miniera vennero esplicitate dal 1986 in poi, senza che nessuna di queste apparisse veramente praticabile.

Si giunse così al 31 gennaio 1991, quando si ebbe notizia che la Regione avrebbe ulteriormente prorogato la concessione

solo per pochi mesi, fino alla fine di giugno, prospettando la riconversione del sito minerario[2] in collegamento con l’intervento diretto del Gruppo Cividale che, però, avrebbe comportato una drastica riduzione della manodopera.

La reazione dei lavoratori, di «rabbia, turbamento, confusione, disappunto», non tardò a farsi sentire. Quello che era sotto gli occhi di tutti era che la Regione aveva siglato la fine della miniera, di una storia di vita comunitaria e di lotte.

Il 5 febbraio 1991, nel corso di una assemblea a cui presenziavano i rappresentanti di Cisl e Cgil, i minatori decisero di occupare la miniera, per forzare la Regione a fare chiarezza sui suoi programmi e sul loro futuro e ad aprire un tavolo di consultazione che comprendesse pure minatori e sindacati.

Il giorno dopo, 54 minatori scesero in miniera alle 6 del mattino, occupando il 17° livello, a quasi cinquecento metri di profondità, in un ambiente che aveva il 98% di umidità, aria quasi irrespirabile e una temperatura spesso inferiore ai 7°C.

Ci fu una grossa solidarietà verso i minatori che, come tutti avevano compreso, combattevano l’ultima battaglia in difesa del loro lavoro, cui parteciparono anche le loro donne fornendo coperte, abiti, cibo, e organizzando un presidio esterno, anche lungo le piste di sci di Tarvisio, con cartelli esplicativi della lotta, mentre ogni notte venivano accesi lumicini sulle finestre di Raibl, come segno di speranza per il futuro.

«Le trattative sono fallite. Restiamo sotto. Facce scure alla miniera di Raibl, in Friuli. I minatori sepolti vivi da 16 giorni, che lottano contro la chiusura della miniera, hanno respinto, in un’assemblea durata tutta la mattina al pozzo Clara, la proposta del governo di prorogare di sei mesi, dal 30 giugno al 31 dicembre, la morte del giacimento», scrive Roberto Bianchin su Repubblica riportando anche i motivi del no: «Anche ammettendo che le promesse di una nuova fabbrica siano vere, abbiamo davanti a noi tre anni di disoccupazione dice Giovanni Tribuch del consiglio di miniera. I minatori si oppongono, soprattutto, alla cassa integrazione. Con 900mila lire al mese come facciamo a vivere, quando ne paghiamo 300 solo di riscaldamento? dice Lorenzo Zangrandi» (Ivi), mentre i sindacati chiedevano «di utilizzare i minatori – tra i quali ci sono una trentina di sloveni – per i lavori necessari alla messa in sicurezza della miniera, al ripristino ambientale del monte Re, e alla creazione di alcuni percorsi turistico-didattici».

Tuttavia, nonostante l'opposizione dei minatori, le trattative tra Regione, SIM e Gruppo Cividale proseguirono, il 22 febbraio fu raggiunto un accordo e i minatori cedettero[3] ponendo fine all'occupazione dopo 17 giorni: «Si aprono cigolando le vecchie porte di ferro e il paese si butta dentro la miniera. I sepolti vivi, la lampadina illuminata sul casco, salgono dal ventre della terra».

L’accordo ottenuto ─ che prevedeva il recupero ambientale di Cave del Predil, la realizzazione di un museo che avrebbe sfruttato parte delle gallerie della miniera e la realizzazione di un’industria metallurgica gestita dal Gruppo Cividale, che avrebbe garantito l’impiego di buona parte del personale utilizzato in miniera ─ venne visto dai più come una sconfitta sindacale: di fatto, a trent’anni dalla vicenda, quelle promesse sono rimaste solo sulla carta, con l’eccezione del museo e parco geominerario.

Oggi Cave del Predil è un paese quasi dimenticato, con circa 400 abitanti, la maggior parte anziani; degli antichi splendori minerari è rimasta solo la leggenda oltre al senso di abbandono che aleggia sul paese. E più di 100 km di gallerie, articolate su 30 livelli su un’altezza di circa 1000 metri, di cui 520 sotto la quota dell’abitato.

Nella miniera il respiro più tenace è quello delle pompe che continuano a estrarre l’acqua dalle parti più profonde e qualche addetto continua ancora oggi a seguirne i rumori, attento a che non cambino mai.

_____________________________

[1] Le informazioni di questa pagina sono tratte in gran parte da Laura Matilde Puppini, mentre le parti in corsivo, salvo diversa indicazione, sono tratte da Paola Tessitori: Rabil-Raibl Cave del Predil. Una miniera, un paese, una sfida – Ed. Kappa Vu (1996)

[2] Si trattava del Piano Saro, dal nome del proponente Ferruccio Saro

[3] Nei 17 giorni di occupazioni già 27 minatori avevano dovuto abbandonare i sotterranei per ragioni di salute, soprattutto a causa di forti aumenti di pressione.