Le miniere di cinabro dell'Amiata

Cenni storici dalla preistoria al XIX secolo


Alcuni oggetti (frecce con punte di silice, mazze e cunei di pietra, corna di cervo usate come picconi e zappette, mazze di legno), rinvenuti nelle prime lavorazioni delle miniere del Siele, Solforate, Morone, Cornacchino e Cortevecchia, testimoniano dello sfruttamento degli affioramenti di cinabro già nel III millennio a.C..

Il ritrovamento di una moneta con l'effige di Filippo il Macedone, nella miniera del Cornacchino, convaliderebbe l'ipotesi che i lavori di estrazione del cinabro nelle miniere del Monte Amiata continuarono anche nel V° secolo a.C., in epoca etrusca.

Gli Etruschi impiegavano il cinabro, estratto in gallerie inclinate che seguivano l’immersione degli affioramenti, principalmente come colorante per gli affreschi. Conoscevano, tuttavia, anche la maniera di produrre il mercurio: nel XIX secolo un vasetto pieno di questo metallo fu, infatti, rinvenuto in una tomba di Cortona.

L’attività estrattiva cessò, invece, nel periodo romano, quando la popolazione amiatina era composta sostanzialmente di pastori, porcari, boscaioli e cacciatori, senza che, nelle leggende e tradizioni riferite a quel tempo, vi sia traccia di un riferimento al cinabro e alle relative miniere.

Il primo documento scritto che parla chiaramente di miniere nell’area è l’atto di divisione fra gli Aldobrandeschi di Savona e quelli di Santa Fiora sottoscritto nella chiesa di S. Andrea in Orvieto nell’anno 1217, in cui si stabiliva che "le cave di argento vivo" di Selvena restavano indivise e di proprietà comune.

Il mercurio, intanto, era passato dallo stato di "venenum rerum omnium", secondo Plinio, all’uso anche in applicazioni terapeutiche, in particolare di medicamenti usati dagli Arabi per la cura di malattie della pelle, oltre ad essere considerato dagli alchimisti, la sostanza base, insieme allo zolfo, di tutti i minerali.

L’importanza del mercurio crebbe in maniera esponenziale nel 1557, quando Bartolomeo Medina scoprì, a Pachuca nel Messico, il processo del “patio” per il ricupero dell’oro e dell’argento dai loro minerali a mezzo dell’amalgamazione, perfezionando il metodo descritto nel volume “De la Pirotechnia” (1540) dal senese Vannoccio Biringuccio, che a cavallo tra XV e XVI secolo aveva diretto le attività di coltivazione della miniera d’argento del Monte Avanza in Friuli.

Tutta la produzione europea di allora, Almadén in Spagna e Idria in Slovenia, oltre a quella peruviana di Huancavelica, fu assorbita dall’America per il trattamento dei minerali di oro e argento, ivi estratti.

Di coltivazione di mercurio sul Monte Amiata, tuttavia, non si parlava ancora, tranne un accenno di fra Leandro Alberti nella sua “Descrizione dell’Italia”, stampata a Venezia nel 1581, e una lettera, conservata nell'archivio dei conti Cesarini-Sforza di Santa Fiora, che narra di un incidente avvenuto sulla strada da Selvena a Talamone, quando un mulo carico di quattro fiaschi di mercurio s’imbizzarrì, i fiaschi si ruppero e il mercurio andò perduto.

Ancora nel 1811, nel periodo in cui la Toscana fece parte dell’impero napoleonico, l’ingegner Coquerel, incaricato di censire le risorse minerarie per il Dipartimento dell’Ombrone (le attuali province di Siena e Grosseto), riferiva al prefetto di non avere incontrato nulla di interessante eccettuata «la miniera di zolfo di Bagni S. Filippo e quella di antimonio di Pereta».

Solo nel 1847, l’ingegnere tedesco Teodoro Haupt, nominato nel 1840 Regio Consultore Minerario del Governo Granducale di Toscana, dopo una diligente ricognizione scrisse il trattato “Delle miniere e della loro industria in Toscana” (fig. 1), in cui segnalava una formazione contenente «principalmente il cinabro e raramente mercurio nativo... presso Selvena, Castellazara e Pian Castagnaio, nel terreno terziario, nella stessa guisa ch’esiste presso San Domingo in Haiti e nei contorni di Lisbona di qua e di là dal Tago» e concludeva , con riferimento all’insieme del patrimonio minerario, «che la Toscana offre materiale adattato ad alimentare l'industria mineraria probabilmente per molti secoli; che quell' industria può divenirvi molto più importante di quello che è stata finora; che la Toscana e paragonabile ai più rinomati paesi minerari europei, e meritevole d'esser chiamata propriamente paese delle miniere; e che perciò tale industria dev'esser considerata in Toscana come una industria naturale, capace di guadagnarvi una ragguardevole importanza economico-nazionale», dando il via alla moderna attività estrattiva anche sul monte Amiata, che si articolò in un grande numero di concessioni (46 siti); tuttavia, solo in due casi si può parlare di grandi giacimenti con produzione industrialmente significativa: Abbadia San Salvatore e il gruppo del Siele (Abetina, Carpine-Solforate, Monte Civitella), che complessivamente coprirono l’80% (49 e 31% rispettivamente) della produzione cinabrifera amiatina.

Il metodo di amalgamazione detta del “patio”

«L’arte di estrarre l’argento dalle sue miniere col mezzo del mercurio, fu inventata nel Messico nell’anno 1557 da uno spagnolo chiamato Bartolomeo di Medina. Questo ingegnoso processo, col mezzo del quale si è potuto ottenere pressoché tutto l’argento sino al dì d’oggi in circolo, è stato per lungo tempo molto imperfettamente conosciuto, per la qual cosa tal processo non riceveva affatto la sanzione dei metallurgisti delle più celebri scuole. Però dopo il viaggio di Humboldt, s’incominciarono a rettificare le idee vaghe e poco vantaggiose che si erano formate sull’amalgamazione americana; poiché questo celebre viaggiatore prendendo in considerazione le difficoltà locali che presentano le miniere d’America e la massa immensa del minerale a trattarsi, poté conoscere che realmente abbisognava un metodo tanto semplice ed economico, perché il minatore possa esercitare la sua industria con successo. Tutti i minerali argentiferi ridotti allo stato di sottile polverizzamento, coll’addizione del sale, del magistrale (solfato di rame), del mercurio e qualche volta della calce, possono somministrare quasi tutto l’argento che contengono. L’amalgamazione dei minerali d’argento, quando è ben diretta, presenta sempre risultamenti vantaggiosi, se gli inconvenienti che s’incontrano nel travaglio della operazione sono separati appena riconosciuti; ciò dipende dall’abitudine, e quasi potrebbe dirsi da una specie d’istinto che gli operai acquistano con una lunga pratica. Infatti la teoria di questa operazione è oscurissima, poiché s’ignora ancora quale influenza esercitano i diversi materiali impiegati nell’amalgamazione. I minerali che si destinano all’amalgamazione detta del “patio” sono per l’ordinario grossolanamente triturati a secco, e non si fa loro subire alcun lavamento. Il minerale ridotto in polvere è macinato da un arrastro fino da ridurlo in polvere sottilissima. L’arrastro è una specie di mulino che ha due macine circolari, incrociate ad angolo retto, e rotanti coll’albero del mulino. Allorché il minerale ha acquistato la consistenza di un fango liquidissimo, stato nel quale è prossimo a ricevere successivamente il sale, il magistrale ed il mercurio, è trasportato nel patio, o cortile d’amalgamazione, selciato in pietra ed inclinato leggermente onde permettere lo scolo delle acque. Nel caso in cui i fanghi metallici devono essere pestati ed impastati dai cavalli, i fanghi stessi si dispongono in storte che contengono da 8oo fino a 1200 quintali di minerale. Dopo questa disposizione vi si aggiunge il sale, la cui quantità varia dall’ 1 fino al 5 per 100 di minerale, e si fanno agire i cavalli nella massa affine di ben mescolarla. La scelta di un buon magistrale è uno de punti più importanti nell’arte dell’amalgamazione. Si prepara ordinariamente questa sostanza sottoponendo la pirite di rame (solfuro) al forte calore di un forno a riverbero. Quando la pirite è bene infiammata, si aprono gli sfogatori del forno e si lascia raffreddare sino all’indomani. L’analisi del magistrale di buona qualità ha somministrato 0.10 di solfato di rame. Generalmente parlando basta mezza libbra di magistrale per ogni quintale (100 libbre) di minerale. La quantità di mercurio sufficiente per una torta è determinata dall’argento ch’essa contiene. L’uso ordinario si è quello di prendere dieci volte tanto mercurio quanto è l’argento da estrarsi. Questo mercurio si divide in tre porzioni, le quali s’incorporano nella torta in tre epoche diverse dell’operazione. Dopo la prima incorporazione del mercurio, la quale succede all’addizione del magistrale, si fanno trottare i cavalli nel minerale per sei ore, affine di dividere più che è possibile il mercurio ed il magistrale nella massa da amalgamarsi. Trascorso questo tempo, l’amalgamatore (azogero) esamina il minerale lavandone una piccola quantità: con questa prova l’operaio crede di poter giudicare se egli ha mescolato nella miniera troppo o poco magistrale. Il mercurio di questa prima incorporazione è cambiato, nello spazio di 10, 15, 20 giorni o più in limadura; il qual termine è destinato a contrassegnare un amalgama quasi solido, brillante e talmente diviso che si potrebbe prendere per limatura di argento. Quando si è formato quest’amalgama s’incorpora colla medesima la seconda porzione di mercurio, e se la stagione è favorevole, qualche volta bastano solamente all’impasto tre o quattro triturazioni, onde addivenire un amalgama pressoché solido, condizione necessarissima acciò l’operaio possa procedere ad una nuova incorporazione. Gli amalgamatori stimano che si possano riconoscere per diversi segni esteriori, le epoche nelle quali l’argento della torta resta unito al mercurio. Allorché si giudica essere terminata l’amalgamazione, si aggiunge una nuova dose di mercurio e si fanno agire i cavalli per dieci ore; quindi si trasporta il minerale amalgamato nei luoghi destinati al lavamento. Dopo ciò si sottopone alla distillazione e l’argento che se ne raccoglie è quasi puro.

Il processo immaginato da Medina porta il nome di 'Amalgamacion per patio y crudo'. Verso il 1561 Fernandez di Velasco l’introdusse al Perù...

I fenomeni chimici che succedono nell’amalgamazione americana, possono ricevere la seguente spiegazione: quando si aggiunge il magistrale ai fanghi metallici contenenti già il sale marino, si forma istantaneamente un bicloruro di rame. Questo bicloruro reagendo da un lato sul mercurio e dall’altro sul solfuro d’argento, dà origine al cloruro d’argento e di mercurio convertendosi per sé in protocloruro di rame, il quale si scioglie nella dissoluzione salina di cui è imbevuto il minerale, penetra la massa da amalgamarsi e reagisce energicamente sul solfuro di argento da una parte e il solfuro di rame dall’altra. Il cloruro d’argento si scioglie egualmente nella dissoluzione di sale marino e in questo stato è facilmente ridotto mercé l’azione del mercurio».


[Memoria dell’amalgamazione del Sig. Boussingault, tratta dalla Gazzetta eclettica di chimica farmaceutica-medica tecnologica e di rispettiva letteratura, Verona 1835, pagg. 87-89]

Fig. 1 - Frontespizio del trattato minerario di Haupt

La miniera di Abbadia San Salvatore

Posta al limite NO dell’abitato, la miniera di Abbadia San Salvatore ha rappresentato il vertice della produzione di mercurio nel comparto amiatino, di cui con più di 1.6 milioni di bombole [1] ha rappresentato circa il 50% della produzione totale.

Le formazioni interessate dalla mineralizzazione a cinabro sono allineate in direzione SE-NO con pendenza di circa 30°, avendo al tetto rocce vulcaniche.

I giacimenti di cinabro sono localizzati prevalentemente nel sopranummulitico (argille e calcareniti) e in misura minore nel bancone o nummulitico (calcareniti) e nel sottonummulitico (calcareniti e calcari), spingendosi a contatto con le quarzo-latiti allorché mancano le argille verdi di tetto (tav. 1).

La diffusione del cinabro è molto variabile, dipendendo dalla fratturazione dei terreni impregnati, dalla maggiore o minore componente argillosa, da fenomeni di accumulo per l'esistenza di formazioni impermeabili.

Di conseguenza, è altrettanto variabile la morfologia delle masse mineralizzate disseminate nell’orizzonte utile, masse che a volte sono completamente rimaneggiate a formare brecce intercalate da quarzo latite.

È presente pirite in basse concentrazioni, mentre il mercurio nativo è rarissimo e solo ai livelli alti.


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[1] Una bombola di 2.7 litri convenzionali contiene 34.5 kg di mercurio

Tav. 1 - Sezione geologica della miniera di Abbadia S. Salvatore (Fabbrini, 2014)

Per quanto riguarda la storia della miniera, questa iniziò nel 1871 quando, dopo prime ricerche infruttuose, il dr. Filippo Schwarzenberg di Friburgo, imprenditore minerario che dietro suggerimento di Haupt aveva eseguito con successo delle ricerche minerarie nella zona di Massa Marittima, fu sollecitato dallo stesso Haupt e da Enrico Jasinski, ingegnere minerario di origine polacca che si era accasato a Piancastagnaio, ad acquistare nella zona di Abbadia numerosi diritti di sottosuolo.

Due anni dopo, lo Schwarzenberg diede inizio ai lavori di ricerca nella vulcanite dell’Orologio, cominciando a scavare il pozzo Sbrilli e una galleria che dalla zona Sasseta, dove esistevano degli affioramenti di cinabro, era diretta verso il pozzo stesso.

Abbondanti venute d'acqua e il rapido esaurimento della zona mineralizzata fecero, però, interrompere le ricerche, che ripresero a una quota più elevata (942 m) solo nel 1887, due anni dopo la morte dello Schwarzenberg, con lo scavo di una galleria alla confluenza del fosso dell’Elmeta con quello dell’Acqua Gialla, che incontrò dell’argilla nera cinabrifera.

Tutte le ricerche effettuate in quel periodo, sia con esito positivo che negativo, valsero a dimostrare che se c’era un giacimento non si trovava nelle vulcaniti quarzo-latitiche del monte Amiata, ma nei terreni sottostanti ad esse.

Nel 1892 l’abbandono delle ricerche Schwarzenberg sembrò segnare la fine per il mercurio di Abbadia, ma nel 1897 le notizie della possibile presenza del cinabro in zona interessarono l’impresa tedesca Kassel-Mayer che operava in Toscana insieme a Vittorio Emanuele Rimbotti, un imprenditore che aveva già operato senza successo sul Monte Amiata nel 1881.

Si decise di costituire la “Società Anonima delle Miniere di Mercurio del Monte Amiata” con un capitale di 5 milioni di lire interamente versato; Rimbotti ebbe la nomina di consigliere delegato e C. Buisson quella di direttore amministrativo, mentre come direttore tecnico fu nominato l’ingegnere Federico Ammann, cui si dovrà la scoperta e la valorizzazione del giacimento di Abbadia san Salvatore.

Dopo le prime ricerche con esito negativo, Enrico Serdini, personaggio singolare e convinto "cercatore di mercurio" in Amiata, individuò un affioramento al Piano del Saragio, da cui incominciò la coltivazione a cielo aperto della miniera di Abbadia.

Furono impiantati un forno a tino per il materiale grosso e 3 forni Cermak-Spirek per il materiale minuto, che a fine 1898 garantirono la produzione e spedizione delle prime 100 bombole di mercurio.

Liberatosi per incompatibilità del Rimbotti dietro versamento di 750,000 lire, l’Ammann si dedicò interamente alla miniera e rapidamente individuò il vero giacimento all’interno dei calcari.

Nel 1904 terminarono le coltivazioni a cielo aperto e nel 1907 entrò in funzione la centrale idroelettrica delle Piagge che assicurò l’energia alla miniera; intanto dal 1906 la Banca Commerciale era entrata a far parte della Monte Amiata e nello stesso anno fu acquistata la miniera di Cortevecchia.

L’ingegner Ammann morì prematuramente nel 1908, ma, anche se i suoi successori non ne furono all’altezza, la miniera ormai ben avviata continuò a crescere.

Con lo scoppio della 1a guerra mondiale i tedeschi abbandonarono la proprietà della miniera, che nel 1916 passò alla Monte Amiata S.A.p.Az. controllata dalla Banca Commerciale.

Nel 1917 gli eredi Schwarzenberg vendettero alla Monte Amiata tutti i loro diritti di sottosuolo e le miniere attive del Cornacchino e del Morone; inoltre, nel 1922 fu acquisita la miniera di Bagni San Filippo, in cui i lavori erano fermi dal 1919.

Le agitazioni operaie del dopoguerra, iniziate con il lunghissimo sciopero durato dal 28 giugno al 9 novembre 1919, segnarono una stasi nello sviluppo della miniera.

Tuttavia, i lavori infrastrutturali e il potenziamento tecnico della miniera, che era ormai tra le più grandi d’Europa, proseguirono nel tempo fino alla grande crisi del 1929, che colpì duramente anche la miniera di Abbadia, in cui i lavori furono sospesi dalla seconda metà del 1932 a tutto il 1934.

Nel 1935 la maggioranza azionaria passò all’IRI e il capitale societario venne portato a 32,400,000 lire.

La politica autarchica del governo fascista, da un lato, le vicende coloniali (Etiopia) e belliche (Spagna), dall’altro, portarono a un rapido aumento della produzione che nel 1937 raggiunse un massimo di 36,471 bombole, pari a 1,260 ton.

L'anno dopo iniziò la realizzazione dell'imponente Pozzo Garibaldi (fig. 2), poi denominato Pozzo Impero, profondo fino a 400 m (livello -200) e servito da un argano motore con la potenza di 245 CV per la movimentazione dei minatori e dei vagoni del minerale.

La crescita della produzione proseguì in tutto il comparto amiatino fino al 1941, per poi calare fino al crollo produttivo successivo all’armistizio del 1943.

Durante la ritirata tedesca del 1944 la miniera subì seri danni: quasi tutti gli impianti esterni, compresi i forni, vennero distrutti, rimase intatta la centrale idroelettrica e molto materiale che era stato occultato.

Nell’immediato dopoguerra, tuttavia, la miniera si riprese rapidamente, fino a ritornare nel 1947 ai valori anteguerra, con più di 30,000 bombole e l’impiego di 950 unità.

La ripresa, tuttavia, fu di breve durata e la situazione cambiò nei due anni successivi, quando il numero delle bombole prodotte scese a 23,000 e l’organico dei lavoratori fu ridotto prima a 635 unità e successivamente a circa 580, nonostante le lotte operaie che caratterizzarono quel periodo, non solo sul Monte Amiata.

I guasti della guerra, il problema della disoccupazione dilagante, la profonda contrapposizione politica scaturita dagli esiti delle elezioni del 18 aprile 1948, la notizia dell’attentato a Palmiro Togliatti furono tutti elementi che contribuirono a incendiare gli animi in un momento assai difficile sul piano economico e sociale per le zone amiatine.

Ad Abbadia, il 15 luglio 1948, operai comunisti occuparono la centralina telefonica e aggredirono esponenti della Dc e del Msi, devastando le sedi dei due partiti e quella delle Acli; i minatori decretarono lo sciopero e insieme con gli altri dimostranti bloccarono le principali vie d’ingresso al paese.

Negli scontri con la polizia che seguirono vi furono un agente morto e alcuni feriti per lo scoppio di una bomba a mano, mentre la sera fu ucciso a coltellate dalla folla dei dimostranti il maresciallo dei carabinieri.

Il 16 luglio il Ministro dell’Interno dichiarò lo stato d’emergenza e il paese fu assediato dalle forze dell’ordine, coadiuvate dai militari del 78° reggimento “Lupi di Toscana” che eseguirono rastrellamenti e retate: 264 arresti con 337 rinvii a giudizio.

Le società minerarie fecero la loro parte licenziando in massa oltre un migliaio di operai fra i più politicizzati, più di 300 solo ad Abbadia S. Salvatore.

La situazione si invertì agli inizi degli anni ‘50, in particolare con lo scoppio della guerra di Corea (1952), quando vi fu un nuovo rilancio della domanda di mercurio che stimolò un aumento di produzione, ristabilita a circa 30,000 bombole, e relativa crescita dell’occupazione che tra il 1952 e il 1953 passò da 680 a 850 unità.

Un’ulteriore crescita della produttività si ebbe a partire dal 1956 con l’installazione, al posto degli ormai venerandi forni Cermak-Spirek, di due forni rotativi Gould (fig. 8) che accrebbero la capacità dell’impianto a 900 tonnellate di grezzo al giorno.

Anche in questo caso la ripresa fu di breve durata e la produzione di bombole di mercurio per l’intero comprensorio amiatino scese, nel biennio 1957÷1959, da 63,237 a 45,833 con una perdita del 27.52%, mentre la quantità di minerale grezzo estratto si ridusse del 32.3%, da 365,058 a 247,059 tonnellate (vedi tab.1 e fig. 3).

Nel maggio del 1959 gli operai occuparono la miniera per 24 giorni in seguito a una lunghissima protesta durata per tutti i cinque mesi precedenti; i sindacati e le Società trovarono un accordo sui cottimi, ma 228 dipendenti dovettero dare le dimissioni in cambio di un’indennità, mentre cento operai vennero licenziati.

Negli anni ‘60 la produzione si mantenne costantemente sopra le 50,000 bombole/anno, facendo dell’Italia la maggiore produttrice al mondo prima di Spagna e URSS, mentre l’occupazione andò, invece, riducendosi sull’intero territorio amiatino, passando dalle 2,063 unità del 1957 alle 1,470 del 1964, con un calo del 28.74%.

Naturalmente tale riduzione provocò forti proteste sindacali, che si spinsero fino all’occupazione delle miniere.

Ma il destino del mercurio era ormai segnato: da un lato le ricerche di inizio anni ’70, che confermarono la tossicità del mercurio, causarono un forte calo delle applicazioni industriali con conseguente crollo del valore di mercato della bombola, passato dai 490 $ di gennaio 1970 ai 218 $ di dicembre 1971, dall’altro la crisi petrolifera con il conseguente aumento dei costi di produzione.

Le miniere amiatine non ressero alla crisi, ormai di carattere strutturale più che congiunturale, anche se molte furono le resistenze di carattere politico-sindacale, motivate dal fatto che l’attività mineraria rappresentava, allora, la principale, se non l’unica, attività economica della zona.

Poiché in quegli stessi anni la crisi attanagliava altri distretti minerari, nel 1973 il governo presentò il Piano minerario nazionale in cui si prevedeva che l’Ente pubblico di Gestione delle Aziende Minerarie (EGAM) avrebbe potuto assorbire le concessioni minerarie per rilanciarle.

A questo scopo all’interno di EGAM fu costituita la Società Mercurifera Monte Amiata che acquisì con DM 20/09/1974 (GU 335/1974) la nuova concessione denominata “Monte Civitella”, che accorpava le precedenti concessioni del gruppo Siele “Abetina” e “Carpine-Solforate”, e con DM 29/10/1974 (GU 67/1975) le concessioni “Abbadia San Salvatore”, “Selvena”, “Monte Labbro II” e “Bagni di San Filippo”.

Il tentativo di rilancio fallì e tutte le miniere amiatine, nel frattempo passate alla SAMIM del gruppo ENI con DM 22/10/1980 (GU 1/1981), cessarono la loro attività tra 1976 (Gruppo Siele) e il 1982 (Abbadia San Salvatore).

Nello specifico, la miniera di Abbadia, passata direttamente all’ENI con DM 04/05/1998 (GU 189/1998), è tuttora vigente con concessione passata al Comune con DD della Regione Toscana n. 3440 del 31 luglio 2008, pur se l’ENI ha mantenuto l’impegno allo svolgimento delle opere di bonifica e recupero ambientale.

L’attuale concessione, limitata a 65 ettari, è destinata, dopo bonifica e recupero, a far parte del Parco e Museo minerario dell’Amiata.

Fig. 2 - Pozzo Garibaldi ad Abbadia San Salvatore

Tab. 1 - Produzione di mercurio e degli occupati nel distretto amiatino

Fig. 3 – Evoluzione temporale della produzione di mercurio e degli occupati in Amiata

Le miniere del Siele

Situato geograficamente nella porzione più meridionale della Riserva Naturale del Pigelleto, compresa tra l'edificio vulcanico del Monte Amiata e i rilievi montuosi del Gruppo del Monte Civitella, in un'area distante molti chilometri da tutti i maggiori centri abitati circostanti, quali Selvena, Castell’Azzara, Piancastagnaio e Santa Fiora, lo stabilimento del Siele (fig. 4) è stato il primo insediamento minerario per la coltivazione del mercurio in età moderna [2].

A differenza dell’area del Monte Amiata propriamente detta, nella zona del Siele affiorano le argille verdi (fig. 5), per cui nella serie stratigrafica del giacimento manca la copertura quarzo-latitica presente nel giacimento di Abbadia San Salvatore (tav. 1).

Si narra che, nel 1841, il pastore Domenico Conti, detto Mecone, portando al pascolo le proprie pecore in località Diaccialetto, fosse colpito da alcune pezzi di cinabro nel letto del Siele e decidesse di venderle come colorante al farmacista di Pitigliano, appartenente alla locale comunità ebraica.

Questi lo fece visionare a Cesare Sadun, importante commerciante ebraico, cognato dei fratelli Angelo e Salomone Modigliani di Livorno, già da tempo impegnati nel commercio del mercurio estratto dalla miniera spagnola di Almaden.

I Modigliani e il Sadun, certi di trarre profitto dall’estrazione del cinabro, acquistarono dalla famiglia Conti i diritti di sottosuolo per il terreno del ritrovamento e costituirono, il 5 dicembre 1846 a Livorno con un capitale di 80,000 lire, la “Società Industriale Stabilimento Mineralogico Modigliani”, dando inizio ad un’intensa attività di ricerca su una vasta area, comprendente le comunità di Abbadia S. Salvatore, Piancastagnaio e la Contea di Santa Fiora di cui facevano parte i territori di Castell’Azzara e Selvena.

I primi lavori incominciarono nel 1847 sotto la direzione del tecnico inglese Mecker, che già alla fine dello stesso anno fu sostituito dall’ingegnere francese Alfredo Caillaux che rimase alla guida della miniera, denominata allora “Diaccialetto”, fino al 1854, senza, peraltro, riuscire a coltivare il giacimento in profondità, ma rimanendo invischiato all’interno dei lavori estrattivi già effettuati in tempi antichi.

All’epoca la produzione di mercurio, ottenuta con forni a storte e di tipo Caillaux (vedi metallurgia), inventato dallo stesso direttore, si attestava a 19-20 bombole al mese con l’impiego di 17 minatori, 10 manovali, 1 armatore, 1 fabbro, 1 falegname, un numero variabile da 5 a 10 fra donne e ragazzi e 1 caporale addetto alla sorveglianza.

L’abbandono di Caillaux segnò un brusco rallentamento dell’attività produttiva che portò, dopo una serie di vicissitudini economiche e industriali, alla chiusura della miniera e al ritiro, nel 1860, dei fratelli Modigliani dalla società, in cui rimase come socio il solo Sadun che fu costretto, comunque, a mettere all’asta la miniera, acquistata nel 1864 per 40,000 lire da Emmanuele Rosselli, altro imprenditore livornese di religione ebraica.

Prima di ripartire con la coltivazione vera e propria sotto la direzione di un altro francese, l’ingegner Petiton, il Rosselli impiegò un quinquennio di ricerche, che portarono alla scoperta del vero giacimento non ancora coltivato, con un tenore di mercurio molto elevato, pari a quasi il 38%.

Con queste premesse, lo sviluppo della miniera fu rapidissimo e già nel 1878 il Conte di Madrid ne trattò l’acquisto per un gruppo francese che offrì 10 milioni di lire, senza concludere l’affare perché i Rosselli furono irremovibili sulla cifra di 14 milioni.

La coltivazione veniva fatta in maniera selettiva scartando le zone con minerale povero; un’ulteriore suddivisione veniva fatta sul minerale grezzo estratto, che era classificato in ricco, medio e povero, in proporzioni del 10, 45 e 45% rispettivamente.

Le prime due categorie passavano direttamente ai forni, la terza al lavaggio e arricchimento, che avveniva in cassoni di legno, lunghi 2.50 m e larghi 0.40, in cui si si separava il “fino per le storte”, alla testa del cassone, dal povero, alla fine del cassone. Quest’ultimo veniva ancora setacciato ottenendo i “granelli”, trattati in un forno continuo di tipo Hahner, “fanghi ricchi” e “minuto” che, passato alle tavole a spazzole, dava una “seconda ricca” e lo “sterile”.

Nel 1889 al Petiton successe l’ingegner Enrico Nathan, figlio di Sara Levi Nathan, imparentata con i Rosselli e di essi socia, il quale sarà successivamente Sindaco di Roma dal 1907 al 1913.

L’anno successivo segnò l’inizio della collaborazione dell’ingegner Vincenzo Spirek con la miniera, dapprima come responsabile del settore metallurgico e in seguito, dal 1897 al 1907 anno della sua morte, come direttore dell’intera miniera.

Lo Spirek promosse l’introduzione in miniera dei nuovi forni Cermak-Spirek (fig. 7) con la capacità di trattare 10-12 tonnellate di minerale al giorno con tenori di mercurio diversi, fino allo 0.1%; questo tipo di forno, derivato dall’americano Hüttner-Scott, rappresentò un notevole progresso rispetto ai precedenti e dominò incontrastato nell’Amiatino fino al 1956.

Nonostante le indubbie capacità organizzative e tecniche dello Spirek, gli anni della sua direzione furono oggettivamente difficili, sia a causa della diminuzione del tenore medio di mercurio nel minerale estratto che delle frequenti infiltrazioni di acqua in miniera che, oltre a rendere più difficoltosi i lavori di estrazione, aumentavano l’umidità del minerale peggiorando il rendimento dei processi di trattamento.

Di conseguenza, quando nel 1907 subentrò l’ingegner Alessandro Magnani, il giacimento del Siele era considerato in via di esaurimento, avendo l’argilla ricca in cinabro ceduto il posto a un’arenaria a basso tenore (0,3% Hg), accompagnata da forti emanazioni di idrogeno solforato e anidride carbonica.

Il minerale estratto proveniva, quindi, dai livelli superiori dove si era tornati a coltivare i minerali poveri abbandonati un tempo e a ripassare le vecchie ripiene, mentre le ricerche si erano spostate a Est, nella zona del Carpine.

Fino al 1914 continuarono delle modeste coltivazioni, poi la miniera venne messa in manutenzione e nel 1922 abbandonata e lasciata allagare.

Nel frattempo le ricerche nella zona di Carpine avevano individuato un nuovo giacimento separato da quello del Siele, di limitata estensione ma con tenori più elevati (1% Hg) di quelli ormai riscontrabili nel giacimento originario.

Tuttavia, dopo pochi anni di coltivazione, nel 1931, in seguito alla crisi mondiale del ‘29 che coinvolse anche le quotazioni di mercato del mercurio, la miniera del Carpine fu messa in manutenzione e ci rimase fino al 1949 quando i concessionari decisero di abbandonarla lasciandola allagare.

Intanto, ancora ai tempi dell’ingegner Spirek, nel 1898, vennero impostate delle ricerche nella zona delle Solforate a partire dalle gallerie esistenti nella miniera del Siele (Modigliani, Clelia), incontrando ricche mineralizzazioni argillose nei galestri.

L’argilla molto scura, plastica, veniva chiamata “biocca” e appariva identica a quella del giacimento del Siele.

Nel 1908, in vicinanza di Santa Fiora, entrò in funzione con una potenza di 300 KW la centrale idroelettrica del Caro che fornì alla miniera l’energia di cui aveva estremo bisogno, soprattutto per i ventilatori indispensabili per superare le difficoltà dovute alle emanazioni gassose veramente eccezionali, come ricorda lo stesso nome della zona.

Nel 1914 il collegamento tra la miniera del Siele e le Solforate fu realizzato mediante un locomotore a trolley che trasportava il minerale attraverso la galleria Emilia (fig. 6): tale locomotore era così efficiente che rimase in servizio fino al 1963.

Durante la 1a guerra mondiale la produzione subì un aumento, ma le agitazioni operaie e lo sciopero del 1919 causarono un rallentamento della produzione.

Nel 1923 le attività estrattive raggiunsero le mineralizzazioni nell’arenaria dando inizio a importanti lavori di ricerca e di preparazione sviluppati fino al 1933, quando la miniera con DM 24 maggio (GU 153/1933) fu unificata alla Carpine nella nuova concessione denominata “Carpine-Solforate”, sempre affidata alla Società “Stabilimento minerario del Siele”.

La produzione riprese a pieno ritmo solo nel 1936, ma nel 1938, a seguito delle leggi razziali fasciste che priveranno gli ebrei di ogni diritto di cittadinanza ivi compreso quello del possesso di beni e proprietà, le famiglie Rosselli–Nathan, che per oltre 70 anni avevano mantenuto il pieno controllo del Siele, furono costrette a disfarsi della miniera, che passò nel 1939 sotto il totale controllo del gerarca fascista conte Giovanni Arménise, già azionista di riferimento della Banca Nazionale dell’Agricoltura.

Favorita anche dalla politica autarchica del governo fascista, la produzione riprese a salire, raggiungendo l’apice nel 1940 con 41,500 bombole, approfittando di tutto il minerale messo in vista nei lavori di preparazione e ricerca condotti dall’Ingegner Magnani nel decennio precedente, minerale rimasto ancora intatto, con un tenore medio del 3 % di mercurio.

In parallelo con le vicende della miniera di Abbadia San Salvatore, la produzione diminuì rapidamente nel periodo bellico e in seguito alle vicende politico-sindacali del dopoguerra, che si aggiunsero all’esaurimento delle zone più ricche del giacimento.

Nel 1954 la miniera si trovò in una situazione difficile: il tenore era sceso all’1%, esisteva pochissimo minerale in vista e le ricerche erano state tutte negative.

Una nuova impostazione dei lavori, la ripresa di vecchie coltivazioni e l’esito positivo delle ricerche in profondità fecero risalire la produzione e ricostituirono le riserve di minerale in vista.

Nel 1963 i vetusti forni Cermak-Spirek furono sostituiti da forni Pacific (fig. 9) a suole multiple e notevoli lavori di ammodernamento vennero realizzati all’interno della miniera.

Nel 1967 con DM 19 agosto (GU 22/1968) la Società “Stabilimento minerario del Siele” acquisì la concessione “Abetina”, confinante a N e già assegnata in perpetuo con DM 8 febbraio 1929 (GU 70/1929) alla “Società mineraria Argus” della Ditta milanese Feltrinelli, che nel 1919 ne aveva già acquistato i diritti dall’allora proprietario fondiario Cav. Francesco Pellegrini, costituendo la “Anonima Mercurifera Italiana”, che nel 1927 assunse la nuova denominazione.

La sorte delle miniere del Siele era comunque segnata e con DM 21 dicembre 1973 (GU 28/1974) fu pronunciata la decadenza delle concessioni “Carpine Solforate” e “Abetina”, che con decreto immediatamente successivo (DM 30 gennaio 1974 in GU 78/1974) vennero, di fatto, ripristinate all’interno della nuova concessione, denominata “Monte Civitella”, assegnata alla Solmine.

Seguirono altri passaggi burocratici di trasferimento della concessione , fino alla definitiva rinuncia dell’ultimo concessionario, la SAMIM SpA, accettata con DM 1° febbraio 1982 (GU 105/1982), ma già nel 1976 si erano di fatto chiuse tutte le miniere di mercurio dell’Amiata, con l’eccezione di Abbadia San Salvatore e del Morone.


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[2] A causa della distanza dai centri abitati, intorno alla miniera del Siele si costituì un vero e proprio villaggio minerario con il palazzo della direzione, i manufatti e gli impianti industriali funzionali alla estrazione, lavorazione e distillazione del cinabro, le abitazioni dei tecnici e dei dirigenti, una piccola scuola primaria, la cappella, lo spaccio, un’infermeria, le docce e gli altri edifici utili all’attività mineraria e alla vita delle famiglie dei tecnici che lo hanno abitato (fig. 4).

Fig. 4 - Immagine da satellite del villaggio minerario del Siele (Fonte GoogleEarth)

Fig. 5 - Estratto dalla Carta geologica d’Italia 1:100,000, Foglio 129

Fig. 6 - Galleria Emilia, ripristinata nel 2010 per il tratto Siele – Pozzo Raffaello

Metallurgia del mercurio


Processo di estrazione per distillazione

Il minerale viene trattato nel forno, riscaldato dall’esterno, con la calce necessaria a fissare lo zolfo secondo la reazione: 4HgS + 4CaO → 4Hg + 3CaS + CaSO4


Processo di estrazione per arrostimento

Il minerale, caricato insieme al combustibile, è a diretto contatto con la fiamma e subisce la reazione: HgS + O2 Hg + SO2


Forno a storte

A distillazione, funzionamento discontinuo, con notevoli perdite di mercurio nell’atmosfera, ma soprattutto nei “rosticci” (i residui della torrefazione del cinabro). Funzionava con minerale arricchito.

Capacità: 0.5-0.6 tonn/giorno



Forno Caillaux

Ad arrostimento con contatto diretto della fiamma e funzionamento continuo. Il calore liberava i vapori di mercurio che poi venivano condensati in apposite camere. Nelle vasche sottostanti le camere di condensazione si raccoglieva il 30-40% del mercurio. Il resto, mescolato a polvere, fuliggine e ceneri, veniva trattato in forni a storte.


Forno Hahner

Ad arrostimento, funzionamento continuo, con la raccolta del mercurio alla base delle camere di condensazione. Funzionava con minerale povero, a pezzatura grossa.

Capacità: 2.5 tonn/giorno


Forno Cermak-Spirek [*]

Ad arrostimento, funzionamento continuo, collegato a una serie di condensatori in terracotta. Trattava minerale di dimensioni ridotte (fino a 35 mm), riscaldato a legna e poi a gasolio, con capacità variabile da 12 a 40 tonn/giorno, in funzione delle dimensioni del forno.

Rendimento fino al 95%.


Forno a torre Spirek [*]

Ad arrostimento, funzionamento continuo, si differenziava dal precedente per il trattamento di minerale di grossa pezzatura (> 35 mm).

Riscaldamento a legna poi a gasolio, con capacità di trattamento di 10 tonn/giorno.

Rendimento pari all’85%.


Forno rotante Gould (fig. 8)

Cilindrici (Ø=2.6 m, L=27 m) ad arrostimento con rotazione (1 giro/min), temperatura media costante di 750°C ottenuta con bruciatori a gasolio nella parte bassa del forno, in prossimità dello scarico delle scorie. Trattava minerale di pezzatura compresa tra 10 e 35 mm, con capacità elevata, pari a 150 tonn/giorno. Rendimento superiore al 96%.


Forno a piani multipli Herreshoff o Pacific (fig. 9)

Ad arrostimento, alimentato con minerale di piccola pezzatura (< 10 mm), riscaldato a gasolio con capacità di trattamento elevata, variabile tra 50 e 200 tonn/giorno.

Rendimento superiore al 97%.

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[*] Questi due tipi di forni rimasero entrambi in funzione per circa 60 anni, fino alla fine degli anni ‘50 quando vennero sostituiti dai Forni Gould e Pacific

Fig. 7 - Forno Cermak-Spirek ad Abbadia San Salvatore e schema di funzionamento

Fig. 8- Forno Gould ad Abbadia San Salvatore

Fig. 9 - Forni Pacific alla Miniera del Siele