Ribolla-Montemassi

Geologia e giacimentologia


In fig. 1 è mostrata la rappresentazione schematica del banco lignitifero e della stratigrafia del bacino di Ribolla-Montemassi.

La sinclinale in cui è inserita la formazione lignitifera si sviluppa in direzione OSO-ENE, con asse in direzione NO-SE e immersione verso SE. Verso il limite NO del bacino, nelle zone di Casteani e Collacchia, il banco lignitifero è molto vicino alla superficie, localmente in affioramento. A SE, invece, il banco si approfondisce sempre più fino a raggiungere, in zona Camorra, una profondità di circa 300 metri dal piano campagna. In tale ultima zona la piega sinclinale si restringe, i fianchi divengono più ripidi e la struttura assume quella morfologia che in miniera veniva chiamata fondo di battello.

Il banco principale di lignite (banco maestro) ha uno spessore medio di 5-6 metri, variabile localmente da meno di 1 metro fino a 20 metri nelle zone assiali di piccole pieghe.

Il banco di lignite è intensamente piegato e fagliato, localmente discontinuo, la qual cosa, unita al notevole approfondimento verso sud, alle caratteristiche spingenti delle argille di tetto e di letto, alla presenza di sacche di grisou e alla tendenza ad incendiarsi del minerale a causa della presenza di pirite al suo interno e nelle rocce incassanti, ha reso difficile e pericolosa l’attività estrattiva.

Il minerale coltivato era rappresentato da lignite picea, compatta, a frattura concoide, caratterizzata da un elevato potere calorifero (ca. 6000 Kcal/Kg) e veniva prodotto in tre pezzature a diametro via via crescente chiamate rispettivamente granitello, noce e vagliato extra.

Fig. 1 - Stratigrafia del bacino lignitifero di Ribolla-Montemassi (Arisi Rota, 1971)

Cenni storici


Già negli anni ’30÷’40 del XIX secolo, 80 anni prima dell’attività di ricerca e produzione incentivata dal CGCN, il Granduca Leopoldo II di Lorena promosse una campagna di ricerche di combustibili fossili che permise di individuare i principali giacimenti lignitiferi toscani.

In questo ambito, particolarmente importante per le sorti future dell’industria minero-metallurgica locale fu la scoperta, all’interno del più ampio bacino lignitifero maremmano, del giacimento di Ribolla-Montemassi, coltivato a partire dal 1843 da una società italo-francese lungo il fosso Raspollino.

Pur essendo inserita in un contesto minerario di antichissima origine, Ribolla non aveva, contrariamente ad altri centri abitati della zona delle Colline Metallifere grossetane (Gavorrano e Massa Marittima), una lunga storia: si trattava, infatti, di un villaggio minerario sorto dal nulla nella seconda metà del XIX secolo, intorno agli impianti esterni delle miniere situate vicino al torrente Ribolla.

Fino alla metà del XX secolo la sua esistenza si è identificata totalmente con l’attività estrattiva; solo dopo la dismissione degli impianti da parte della Montecatini, sul finire degli anni ‘50, ha proseguito la propria esistenza indipendentemente dalla miniera.

Dopo la scoperta, databile come detto nella prima metà del XIX secolo, lo sviluppo della miniera nei primi decenni dell’unità italiana fu lento, frenato sia da fattori esterni (la scarsa disponibilità finanziaria delle società minerarie, l’oscillazione dei prezzi di mercato del combustibile), che da fattori intrinsechi alle caratteristiche del giacimento, la cui conformazione irregolare, causata dalla fratturazione e dislocazione delle faglie, rendeva le gallerie costantemente soggette ad allagamenti ed esalazioni di “grisou”, gas costituito da una miscela altamente esplosiva di metano e aria.

A tutto ciò vanno aggiunte le condizioni insalubri della zona (la bassa Val Bruna e la piana del torrente Ribolla), impraticabile per tutti i mesi estivi a causa della malaria.

Solo dopo il 1910, con l’avvento e il consolidamento in Maremma della presenza della Montecatini, l’attività produttiva di Ribolla subì un’accelerazione (fig.2).

Grazie alla pirite delle miniere maremmane da cui estrarre lo zolfo necessario a produrre quell’acido solforico così importante per la moderna industria, la Montecatini divenne, infatti, un vero e proprio colosso industriale senza rivali nei settori minerario e chimico italiani, consolidato nei decenni successivi anche attraverso l’appoggio politico ed economico da parte del regime fascista.

La produzione si mantenne tra le 60,000 e le 100,000 tonnellate annue per tutto il periodo dal primo dopoguerra (1919) alla grande crisi del 1929, per scendere a un minimo di 30,000 tonnellate circa nel 1932, in corrispondenza anche ad un minimo del numero di occupati, ridotto in quegli anni (1930÷1933) a 150÷170 unità da un massimo di oltre 2,300 nel 1918.

Oltre alla diminuzione dei prezzi del carbon fossile che penalizzava soprattutto le ligniti, meno efficienti e concorrenziali, su questo forte ridimensionamento del settore lignitifero maremmano giocava un ruolo anche l’abolizione dei dazi comunali, tanto desiderata per molteplici motivi, che però ebbe una ripercussione particolarmente negativa per il settore delle ligniti, poiché, eliminato per il carbone il dazio di entrata nelle grandi città, la lignite si trovò in condizioni di concorrenza ancora più sfavorevoli.

La produzione riprese ad aumentare in prossimità della 2a guerra mondiale, tornando sopra le 100,000 tonnellate annue nel 1938 e continuando la salita fino al massimo di ca. 270,000 tonnellate nel 1942, sostanzialmente mantenute nel 1943 (210,000 ca.) pur nelle peggiorate condizioni al contorno dovute alle vicende belliche, cui si deve il crollo nell’anno successivo (meno di 50,000).

Negli anni dell’immediato dopoguerra la produzione riprese con forza a sostegno della rinascita industriale del paese fino al nuovo massimo relativo del 1947 con più di 240,000 tonnellate, cui corrispose il massimo numero di occupati (più di 3,700).

La ripresa durerà però poco e già nel mese di ottobre 1947, improvvisamente, ripartì la crisi del mercato dei combustibili nazionali che provocò un’immediata contrazione del ritmo produttivo, la riduzione del numero di occupati e le conseguenti proteste sindacali.

La crisi continuò irreversibile negli anni successivi, colpendo l’occupazione ancor più che la produzione, tanto che gli occupati scesero a 1,380 unità nel 1953 (-63% rispetto al 1947).

L’anno successivo fu quello della grande tragedia, che costò la vita a 43 minatori, da cui la miniera non si riprese più andando definitivamente verso la chiusura dell’attività, avvenuta nel 1959 e certificata con DM 29/11/1961 (GU 204/1962) di accettazione della rinuncia della Montecatini alla concessione.

Nel corso dell’attività estrattiva furono estratte complessivamente circa 5.5 Mton di lignite picea, ma nel corso dei circa 70 anni di attività la produttività per occupato, salvo casi particolari, rimase sostanzialmente ancorata nell’intervallo tra 60 e 100 tonnellate annue, come si osserva in fig. 2.

Fig. 2 Evoluzione temporale della produzione e degli occupati nelle miniere di Ribolla e Casteani (Fonte: www.ribollastory.net)

Le lotte sindacali

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«… No, ben certo, non era allegro vivere. Si faticava come bruti in un lavoro al quale un tempo condannavano i galeotti; vi si lasciava spesso la ghirba prima della nostra ora; e tutto questo per non rimediare neanche un po’ di lesso a cena. Certo, come i polli il becchime, lo stretto necessario per far tacere la fame si aveva; si mangiava, ma appena quel tanto che permetteva di stare in vita e di seguitare a patire; o carichi di debiti perseguitati dai creditori quasi che il pane si rubasse. Quando arrivava la domenica, si era così stracchi che si passava il tempo a dormire. I soli piaceri che restavano, quello di sborniarsi e d’ingravidare la moglie… Ah no; in quelle condizioni vivere non era punto allegro… Il più brutto, vedete, è quando ci si persuade che le cose non possono cambiare... Finché uno è giovane si fa delle illusioni, spera che un po’ di bene verrà... Ma la vita grama dura, vi si resta dentro imprigionati e si capisce che non se ne uscirà più... Io non voglio male a nessuno, ma vengono dei momenti che da questa ingiustizia mi sento rivoltare...» (Emile Zola: Germinal ,1885)

Come nella Francia della seconda metà del XIX secolo descritta da Zola in Germinal, nessuna legge e nessun sindacato proteggeva agli inizi i minatori della Maremma.

A Ribolla i turni erano di dieci ore ciascuno; alle ore di lavoro si sommavano quelle per raggiungere la miniera e per tornare a casa, a piedi naturalmente.

L’assistenza sanitaria era quasi inesistente, gli infortunati, gli invalidi per lavoro venivano ripagati con poche lire, la malattia significava perdita di quasi tutto il salario.

Nei casi di infortunio mortale veniva fatta una colletta tra i minatori per la famiglia che rimaneva senza sostentamento.

È naturale che queste condizioni portassero ad agitazioni e scioperi; i primi in Maremma scoppiarono nell’ultimo decennio del XIX secolo, prima ancora che nascessero le organizzazioni sindacali dei minatori.

A Ribolla i primi scioperi si ebbero nel giugno-luglio 1900, a causa di uno scoppio di grisou che causò la morte di un minatore e il ferimento di un altro.

I lavoratori attribuirono l’incidente al fatto che, stante l’articolazione del lavoro in due turni da 10 ore, la miniera rimaneva senza ventilazione e abbandonata per quattro ore, favorendo la formazione di sacche di grisou.

Chiesero, quindi, una differente articolazione del lavoro giornaliero in tre turni da otto ore, come del resto avveniva già nelle altre miniere della zona.

Dopo 45 giorni di lotta, il 16 luglio lo sciopero terminò con la sconfitta dei minatori, che si piegarono davanti alla minaccia della Proprietà, la Società delle Ferriere Italiane, di chiudere la miniera.

Le prime Leghe di resistenza dei minatori maremmani sorsero nel 1901, ma solo 10 anni dopo, nel febbraio del 1911, si costituì a Grosseto la Confederazione provinciale del Lavoro.

Nel frattempo, e in attesa di leggi adeguate alla disciplina del lavoro in miniera, a Ribolla le condizioni degli operai diventavano sempre più precarie, fra il timore del licenziamento e lo sforzo quotidiano di sopravvivere ai pericoli causati dai ricorrenti fuochi e dalle tante frane che affliggevano la miniera.

Il 1° ottobre 1914 la consegna dei fogli paga a Ribolla suscitò una indignazione generale: il 6 iniziò lo sciopero dei minatori che chiedevano la variazione delle tariffe di cottimo in misura tale da garantire ai minatori un guadagno minimo di 4 lire al giorno.

La Proprietà si oppose dichiarando che l’attività estrattiva era già troppo costosa e non remunerativa, cosa del resto riconosciuta dagli stessi minatori, che, però, ne attribuivano la colpa alla dirigenza, incapace di mettere a punto un sistema di coltivazione efficiente e adatto alle difficili condizioni geologico-geotecniche della miniera, visto che i maggiori costi erano destinati alle attività di mantenimento (armature, ripiena, …) piuttosto che a quelle di produzione.

Alla fine della vertenza, dopo 32 giorni di sciopero, pur respingendo le richieste salariali la dirigenza accettò di modificare il sistema di coltivazione.

La 1a guerra mondiale segnò un periodo di stasi delle lotte sindacali, soprattutto a causa della militarizzazione del personale delle miniere, ma il dopoguerra portò un periodo di grande agitazione e confusione in tutto il paese.

Disoccupazione, rincari e difficoltà di approvvigionamento dei beni di prima necessità erano condizioni intollerabili, tanto più in territori periferici e scarsamente popolati come la Maremma.

In questo quadro, il 6 aprile 1919 a Follonica si riunì un convegno di minatori grossetani, senesi e dello spoletino, in cui fu auspicata la creazione di un organismo nazionale dei minatori e vennero formulate molte richieste agli industriali: riconoscimento della Federazione, commissioni paritetiche per dirimere i conflitti di lavoro, una Cassa per le malattie professionali, farmaci e infermerie in ogni miniera, indennità di chilometraggio o il trasporto gratuito degli operai, 7 ore di lavoro per gli interni e 8 per gli esterni.

Le richieste economiche furono in gran parte accolte, ma fu negato il riconoscimento della Federazione, cosa che provocò uno sciopero ad oltranza che durò, in certe miniere, fino a 135 giorni.

Questa volta, però, la vertenza terminò con una vittoria: tutte le richieste furono accolte eccetto il trasporto gratuito. Non solo. Alle lotte dei minatori cominciarono ad associarsi, seppure con loro organizzazioni sindacali separate, anche tecnici e impiegati amministrativi delle miniere.

Ma su tutto ciò, dopo il cosiddetto “biennio rosso” (1919-1920), si abbatté la reazione dello squadrismo fascista che pose fine alle lotte sindacali.

A parte un’opposizione, tra il 1930 e il 1932, sostenuta anche dai sindacati corporativi fascisti contro l’introduzione del sistema a cottimo Bedaux (vedi a fianco), fino al 1943 regnò una pace sindacale imposta, rotta dopo la caduta di Mussolini il 25 luglio.

Durante il ventennio fascista i minatori avevano subìto in silenzio, sicuramente qualcuno di loro, soprattutto tra i più giovani, era sinceramente fascista, ma la gran parte si riconosceva ancora nelle ideologie antifasciste, socialista e comunista “in primis”.

Furono proprio i minatori, infatti, a fornire il maggiore contributo alla lotta partigiana durante l’occupazione nazista del grossetano pagandone un prezzo elevatissimo .

Con la Liberazione tornò la libertà sindacale e le relative Organizzazioni rinacquero sostanzialmente nelle antiche forme.

I lavoratori si misero all’opera per riattivare le miniere: i salari furono rivalutati, vennero aggiunte le indennità di chilometraggio, di sottosuolo, di temperatura, di stillicidio, di mensa, di fornitura di indumenti per i lavoratori disagiati.

Un clima di comprensione e di collaborazione contrassegnava i rapporti fra dirigenti e operai: molti degli stessi dirigenti, del resto, per convinzione o per opportunismo si erano iscritti a partiti di sinistra.


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[1] Gran parte delle informazioni contenute in questo paragrafo sono ricavate dal libro di Luciano Bianciardi e Carlo Cassola “I minatori della Maremma”, pubblicato la prima volta da Laterza nel 1956, ripubblicato nel 2004 da ExCogita Editore.

Analogo clima caratterizzava la vita della Federazione Minatori, in cui era preponderante la componente comunista che nelle elezioni del 2 marzo 1947 ottenne il 76.43% dei voti.

Nell’immediato dopoguerra, la grande domanda di combustibile per sostenere la ricostruzione aveva spinto a potenziare al massimo la miniera, ma l’arrivo sui mercati di grandi quantitativi di carbone estero, specialmente americano, cambiò radicalmente la situazione.

La lignite di Ribolla non era in grado di sostenere la concorrenza dei carboni stranieri, così alla fine del 1947 la Montecatini propose il licenziamento di 1,300 operai, che scesero a 600 dopo una serie di riunioni con gli organi sindacali.

C’era la necessità di trovare accorgimenti per eliminare sprechi di tempo e di materiale, ma allo stesso tempo venne riaffermata la fiducia nelle possibilità economiche della miniera, una volta ottimizzata la coltivazione e preparati allo sfruttamento i nuovi banchi di lignite già individuati.

Tuttavia, nonostante la buona volontà, nel triennio successivo la situazione continuò a peggiorare, con produzione e manodopera scese, rispettivamente, a 148,302 ton e 2,053 unità nel 1951.

In questo quadro, nel febbraio di quello stesso anno fu organizzata la maggiore agitazione del dopoguerra, cui aderirono tutte le miniere maremmane del gruppo Montecatini: la cosiddetta “lotta dei cinque mesi”.

La genesi di questa lotta è legata al meccanismo di retribuzione dei cottimi, che esistevano solo per alcune categorie di operai ed erano regolati da un accordo che fissava un minimo di produzione , detto “produzione ad economia” o “norma”, che doveva essere superato per poter avere l’incentivo.

Se la squadra di minatori, nel corso del turno, estraeva un quantitativo di minerale inferiore alla “norma” veniva multata; a lungo andare il rimanere al di sotto dell’economia poteva portare all’accusa di scarso rendimento ed essere motivo di licenziamento.

Il sistema del cottimo individuale era già stato più volte criticato dai sindacati e alla fine del 1950 la Federazione Minatori ne aveva chiesto l'abolizione.

Fu contro questo super-sfruttamento, quindi, che venne proclamata l’agitazione, chiedendo di sostituire al cottimo individuale un cottimo collettivo, basato sulla produzione totale della miniera in confronto a quella prevista dalla “norma”.

Oltre alle questioni squisitamente economiche, la vertenza si proponeva anche obiettivi di più ampio raggio: la denuncia del monopolio Montecatini e, in sostegno al Piano del Lavoro della CGIL, una riorganizzazione dell’attività estrattiva che prevedeva la meccanizzazione degli impianti interni ed esterni, l’eliminazione delle coltivazioni “a rapina”, l’esecuzione di campagne di ricerca, la costruzione di impianti di trattamento e utilizzazione a “bocca miniera”.

La lotta assunse la forma della “non collaborazione”: la produzione fu ridotta ai minimi di economia con le conseguenti decurtazioni sul salario.

Nonostante l’estendersi dell’agitazione ai minatori della Montecatini di Marche e Romagna, a luglio la vertenza si concluse in maniera insoddisfacente, poichè la Montecatini non accettò il cottimo collettivo, e i lavoratori tornarono alle miniere con malcontento.

UIL e CISL ne approfittarono per attaccare la CGIL e il suo ruolo guida nella vicenda.

Tuttavia, malgrado le critiche e un diffuso malcontento, la lotta dei cinque mesi contribuì a creare una coscienza sindacale e politica più matura, di cui si giovò la resistenza alla controffensiva padronale degli anni successivi, gestita, a Ribolla, dal nuovo direttore della miniera, l’ingegner Padroni (nomen omen!), un vero duro che appena arrivato ci tenne a precisare di essere venuto in Maremma «a mettere a posto gli operai».

Con queste premesse gli anni tra il 1952 e il 1954 furono particolarmente difficili per i minatori di Ribolla: 57 licenziamenti per rappresaglia, tra cui i rappresentanti sindacali interni, multe e sospensioni, trasferimenti tra cantieri e/o miniere, declassamenti, mancati riconoscimenti economici e di carriera, assunzioni per raccomandazione, comportamenti apertamente antisindacali.

In questo clima si arrivò al 4 maggio 1954, il giorno della grande tragedia.