Le famiglie dello zolfo irpino

La scoperta e le prime fasi dell’attività

Sulla scoperta dello zolfo di Tufo e Altavilla Irpina circolano due versioni, che convergono entrambe nel dare una grande importanza alla figura di Francesco Di Marzo (fig. 1).

Secondo il giornale “L’Eco dell’Irpinia” del 19 maggio 1870, la scoperta è da ricollegarsi all’incarico governativo affidato a Francesco Zampari (fig. 2), ingegnere minerario del Reale Corpo delle Miniere e primo progettista dell’Acquedotto pugliese, di fare ricerche nella provincia irpina e segnalare tutto ciò che avesse richiamato la sua attenzione.

Trovata una pietra solfifera nel territorio del Comune di Tufo, lo Zampari ingaggiò il signor Francesco Di Marzo per effettuare le ricerche che portarono alla scoperta del giacimento solfifero.

Secondo la tradizione popolare, invece, la scoperta avvenne in modo casuale in un freddo giorno invernale del 1866, quando lo stesso Francesco Di Marzo, facendo una passeggiata a cavallo verso Benevento, mentre si inoltrava in località “Bosco della Palata” lungo la riva destra del fiume Sabato, incontrò una ragazza che, mentre controllava le pecore al pascolo, si era accesa un fuoco per scaldarsi.

La pietra sul quale era stata posta la legna per il fuoco bruciava anch’essa, sprigionando un odore intenso e acre, tipico dei vapori di zolfo: si trattava di una pietra solfifera affiorante.

Sia vera una o l’altra versione della prima scoperta del giacimento solfifero di Tufo, entrambe convergono nel fare di Francesco Di Marzo una figura centrale della vicenda all’origine dell’estrazione dello zolfo irpino, nel territorio dei comuni di Tufo e Altavilla Irpina.

Discendenti da Scipione Di Marzo, che a metà del XVII secolo aveva lasciato il paese natale di San Paolo Belsito per fuggire alla peste che imperversava in Europa, i Di Marzo avevano conquistato una posizione di prestigio nella società locale grazie, in particolare, all’attività agricola e di produzione vinicola, a partire da un vitigno di origine vesuviana che il capostipite aveva portato con sé: il Greco di Nola. Tale vitigno si adattò perfettamente al terreno locale, ricco di sostanze minerali e di zolfo, dando luogo a quello che, oggi, è uno dei più importanti vitigni italiani “da bianco”, il Greco di Tufo.

Con spirito imprenditoriale, compresero subito le implicazioni industriali della scoperta dello zolfo e ne trassero le conseguenze.

Per prima cosa occorreva approfondire le ricerche per definire con sufficiente approssimazione la qualità e quantità del giacimento. Gli scavi effettuati nell’intorno dell’affioramento ne confermarono la continuità in profondità e l’aumento di dimensioni man mano che si approfondiva lo scavo.

Stabilita la valenza industriale della scoperta, occorreva mettere le mani sui fondi interessati dal giacimento, ed è in questo contesto che nasce la rivalità con un’altra importante famiglia locale, i Capone del confinante comune di Altavilla Irpina.

Il capofamiglia Ferdinando, uomo di notevole ingegno e iniziativa, incuriosito dall’attività dei Di Marzo volta all’acquisto di vari terreni dell’area, riuscì a venire a conoscenza delle vere ragioni che li animavano e, a sua volta, si attivò per acquisire i terreni interessati dalla presenza dello zolfo.

Con metodi diversi [1], più diretti e venali quelli dei Di Marzo, più gentili e inventivi quelli dei Capone, entrambe le famiglie riuscirono ad appropriarsi dei terreni: ai Di Marzo l’area centrale dove lo zolfo affiorava, ai Capone i terreni circostanti dove il giacimento si trovava a profondità maggiori.

Nonostante la mancata acquisizione della zona di affioramento, alla lunga i Capone non furono penalizzati, dato che il giacimento si immergeva verso i loro terreni.

Mentre i Di Marzo costituirono un’apposita società, di cui la famiglia divenne ben presto la sola incontrastata proprietaria mantenendone salda la gestione fino alla rinuncia finale del 1984, Ferdinando Capone, con alcuni soci, il barone Giovanni Sellitti e i Fratelli D’Agostino, potenziò l’estrazione e il commercio dello zolfo sia grezzo che macinato, costituendo ad Altavilla Irpina il 2 settembre 1868 la Società Capone-Sellitti-D’Agostino.

Pochi mesi dopo, il 29 marzo 1869, il piemontese Conte Cavalli aprì un’altra miniera in zona, poi ceduta a quel Francesco Zampari, già citato come probabile origine delle ricerche di zolfo nell’area irpina.

Tra le due società di Altavilla sorse un forte concorrenza che Federico Capone (fig. 3), il ventottenne figlio di Ferdinando nel frattempo deceduto, riuscì comunque a comporre, riuscendo a fondere nel 1877 le due società in un solo organismo, la Miniera Sociale Costa della Palata.

A fine anni ’70 del XIX secolo, l’attività zolfifera irpina si consolidò, quindi, secondo un’articolazione aggregatasi intorno a due centri di gravità principali: la Miniera Bosco della Palata della Famiglia Di Marzo a Tufo e la Miniera Sociale ad Altavilla Irpina, con vari soci tra cui, però, spiccava la figura e la personalità di Federico Capone.

Pur con i cambiamenti avvenuti successivamente, soprattutto nella miniera di Altavilla Irpina, questa articolazione si manterrà fino alla fine delle attività minerarie, per entrambe avvenuta nella prima metà degli anni ’80 del XX secolo.

Rispetto al caso siciliano descritto nel successivo capitolo, in cui l’estrema parcellizzazione delle concessioni e una forte separazione tra proprietario del fondo ed esercente minerario (gabellante) costituirono un freno allo sviluppo tecnologico di quelle miniere, l’esistenza di due sole società, in entrambe le quali la proprietà terriera e l’imprenditoria mineraria venivano a coincidere, insieme ai più elevati tenori del giacimento irpino rispetto a quelli siciliani e alle condizioni generalmente più favorevoli [2], consentì alle miniere di Tufo e Altavilla Irpina di raggiungere rapidamente un’elevata produttività.

Fig. 1 - Busto e targa che ricordano lo scopritore all'ingresso della Miniera Di Marzo

Fig. 2 - Ing. Francesco Zampari

Fig. 3 - Ritratto Federico Capone (1849-1918) in olio su tela di Giambattista De Curtis

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[1] La proprietà del fondo con l’affioramento di zolfo era di un tal Michele Donnarumma. Per convincerlo alla cessione Federico Capone scelse la strada di un rapporto amichevole e conviviale, mentre i Di Marzo, preoccupati da tali manovre, scelsero una strada più “spiccia”: lo fecero rapire, trasportare a Napoli e porre davanti a un bel mucchio di monete d’oro sonante. Va da sé che Donnarumma firmò, con la croce, il contratto di acquisto già preparato.

[2] Era migliore l’organizzazione produttiva di tipo verticale, dall’estrazione alla raffinazione, migliori le condizioni di sicurezza, vista l’assenza di grisou presente invece nei giacimenti siciliani.

La famiglia Di Marzo

Come già ricordato, la famiglia Di Marzo era di origine vesuviana, il cui capostipite Scipione si era trasferito a Tufo nel 1648 per fuggire alla peste che infuriava in Europa.

Proprietari terrieri, imprenditori agricoli e viticoltori, acquisirono subito un ruolo di primo piano nella società irpina.

All’epoca della scoperta dello zolfo, capofamiglia era Vito Antonio, padre di Francesco, il quale comprese subito, confortato dal parere di un ingegnere e un geologo, le potenzialità dello sfruttamento minerario dello zolfo, incoraggiando i figli ad attivarsi.

Purtroppo, Francesco primogenito di Vito Antonio e, secondo la “vulgata”, scopritore del giacimento, mori presto, nel 1869 a 44 anni per una polmonite, sostituito dal ventinovenne Gaetano, il minore dei figli di Vito Antonio.

Come ricorda, in un’intervista del 2000, il nipote omonimo: «Si può dire che il vero fondatore della miniera fu Gaetano Di Marzo, mio nonno, che ha seguito l’attività della miniera fino al 1903, quando morì. Era un uomo che aveva un grande spirito d’iniziativa, fu lui che costruì tutto quello che ancora oggi si vede…

L’idea geniale dei Di Marzo fu quella di macinare sul posto il minerale così come si estraeva. Si era nel 1868, i mulini erano mossi dall’energia idraulica. Si cominciò subito la lavorazione dello zolfo che doveva essere ridotto in polvere molto sottile, perché serviva per combattere l'oidio della vite.

All'inizio ciò avvenne con sistemi molto primitivi e poiché la famiglia Di Marzo possedeva un mulino per il grano, con le vecchie macine di pietra mosse dall'acqua, si pensò di usarlo per macinare lo zolfo. Si utilizzò quindi il mulino che si chiamava Lo Raio, dove si cominciò a macinare il minerale.

Il prodotto ebbe molto successo perché la lavorazione dello zolfo in Sicilia era diversa, richiedeva grossi quantitativi di materiale ed era molto più costosa, da 8 q si ricavava 1 q di zolfo puro. I proprietari delle miniere non curavano la commercializzazione, ma cedevano il minerale alle raffinerie che si trovavano in vicinanza dei porti. A Tufo invece la miniera divenne subito autosufficiente perché a quell'epoca il brigantaggio funestava le strade e i trasporti via terra erano molto pericolosi e, quindi, lo zolfo o si trasportava via mare, come in Sicilia, oppure bisognava lavorarlo sul posto.

Il primo sbocco commerciale per lo zolfo di Tufo fu la provincia di Avellino, poi si aprì l’ampio mercato pugliese e, in seguito, altri sbocchi furono il Veneto e i Colli Romani» [3].

C’era, quindi, un grave problema che, similmente alle condizioni siciliane, frenava lo sviluppo dell’attività produttiva: quello di una ridotta viabilità nell’area che limitava fortemente i trasporti del minerale estratto e dei relativi prodotti raffinati.

In una relazione al governo del 21 marzo 1871, la Camera di Commercio di Principato Ultra [4] metteva in risalto la necessità di attivarsi in modo da far sì che la linea che da Napoli raggiungeva il capoluogo irpino, passando per l’agro nocerino-sarnese, non restasse un’opera monca ma attraversasse “tutta la vallata del Sabato insino a Benevento: ché solo allora, da un capo all’altro, essa acquisterebbe la importanza di una grande arteria incontrando ben ventiquattro stabilimenti industriali, ciascuno dei quali dispone in media di una forza idraulica di cento cavalli, e toccherebbe le miniere zolfifere, da pochi anni aperte, le quali presentemente, malgrado l’assoluta mancanza di strade rotabili, producono annualmente dalle quindici alle ventimila tonnellate di materiale esportabile”.

Al centro della relazione della Camera di Commercio c’era infatti la Valle del Sabato, al cui interno erano localizzate le miniere di zolfo, in «un’area selvaggia priva di strade di accesso, dove i primi macchinari occorrenti alla nascente industria mineraria erano stati trasportati su zattere lungo il fiume…» [5].

Bisognò, comunque, attendere il 1881 perché per la costruzione della linea ferroviaria Benevento-Avellino, fortemente voluta sia da Federico Capone che dai Di Marzo, venisse assegnato l’appalto con termine ultimo di completamento al 1887.

A difendere e sollecitare il completamento della linea, svolse un ruolo importante in Parlamento un altro componente della famiglia Di Marzo, il deputato Donato (fig. 4) che in un intervento alla Camera protestava per la mancanza dei collegamenti nell’area affermando: «Questa plaga, o signori misura una superficie di circa venticinquemila chilometri quadrati, cioè superiore di presso a poco tremila chilometri all’intera Lombardia, e di quattromila chilometri minore soltanto della superficie del Belgio. Quale differenza fra queste regioni e la nostra! Lì una fitta rete di ferrovie e nella nostra nemmeno un chilometro!».

Poiché la realizzazione procedeva lentamente per cause burocratiche relative ai costi per chilometro, in un successivo intervento del 10 febbraio 1883 lo stesso Di Marzo incalzava così il governo: «… Non discorrerò della importanza del tronco Avellino-Benevento, perché essa è stata riconosciuta dalla legge medesima che l’ha segnata tra quello di seconda categoria. Le provincie di Benevento e di Avellino, a norma delle disposizioni dell'articolo 15 della legge del 1879, hanno aumentato il concorso richiesto dalla legge di un decimo.

Il Ministero ordinò subito gli studi, ed i lavori sono in corso per il primo tronco; benché debolmente.

Per il secondo tronco è stato già compilato il progetto definitivo d'appalto che è stato debitamente approvato dalle superiori autorità tecniche. E quando tutto faceva sperare che dovesse essere appaltato, l'onorevole ministro ha sospeso l'appalto, perché ha considerato che questa ferrovia verrebbe a costare, nel suo complesso, una somma quasi doppia di quella presunta nelle tabelle annesse alla legge del 1879; ed ha ordinato una ispezione locale.

In verità io mi maravigliai nel vedere che per questa linea si presumeva, colla detta legge, un costo di 200 mila lire al chilometro; mentre essa trovasi quasi nelle stesse condizioni di difficoltà tecniche e topografiche, della ferrovia Avellino-Sanseverino; la quale costò circa 700 mila lire al chilometro.

Ma, pure ammettendo ch'essa trovasi in condizioni meno difficili della linea Avellino-Sanseverino, trovasi però in condizioni presso a poco uguali al primo tronco di questa linea, cioè da Avellino a Serino, il cui costo ascese a circa lire 400,000 per chilometro. La ferrovia Avellino-Benevento percorrendo la stessa valle del Sabato, n'è in condizioni identiche, sì per le difficoltà topografiche, sì per l'ubertosità delle campagne che sono coltivate a noccioleti, a vigne e ad orti. Non so spiegarmi adunque le ragioni per le quali questa linea dovesse costare la metà del tronco suaccennato Avellino-Serino.

Del resto, l'onorevole ministro, sempre scrupoloso nel considerare gl'interessi dello Stato, ha creduto di mandare un ispettore sopra luogo, per vedere se si potesse economizzare sul costo di questa ferrovia. Io quindi lo prego, se questo esperimento egli vuol fare, che lo faccia al più presto possibile, affinché la ferrovia possa essere costruita nel termine designato dalla legge, cioè per il 1887; altrimenti il provvedimento ritarderebbe la desiderata costruzione.

Debbo però far notare che questa ferrovia ha grandissima importanza sia dal lato commerciale ed economico che militare, facendo parte integrante della grande traversale che da Termoli per Campobasso-Avellino va Salerno, ed unisce l'Adriatico al Tirreno, attraversando le ricche regioni del Sannio. Questa ferrovia fa anche parte integrante della voluta, o della sognata linea dorsale, dico sognata, perché pare che questa linea debba rimanere ancora una semplice aspirazione. Più tardi ne discorrerò di proposito.

Quindi la prima raccomandazione che fo all'onorevole ministro è appunto di sollecitare il compimento dei mezzi istruttori ordinati, perché si possa nel più breve tempo possibile appaltare il 2° tronco, Prata-Altavilla; tanto più che il tronco in costruzione, anche finito, non giova per nulla agl'interessi della provincia, perché su tale tronco non vi sono stazioni.»

Sempre più preoccupato per la lentezza dell’avanzamento dei lavori, il Di Marzo interveniva nuovamente in aula il 22 giugno 1885: «Mi limito a fare all'onorevole signor ministro una breve raccomandazione, di voler, cioè, disporre che sia affrettata la costruzione della linea Avellino-Benevento. Questa ferrovia, per le disposizioni della legge 5 luglio 1882, dovrebbe essere aperta all'esercizio nell'anno 1887. Ma le disposizioni di questa legge non trovarono la esatta applicazione nei contratti di appalto, coi quali si è stabilito un periodo di tempo per compiere i lavori, specialmente con l'ultimo, per cui l'intera linea dovrà collaudarsi al 1891, cioè 4 anni dopo del tempo fissato dall'allegato B della precitata legge del 1882. Questo ritardo non può dipendere da difficoltà di costruzione, perché la linea non ne presenta alcuna. Però, non sapendo trovare altra causa, così credo che dipenda dall'insufficienza dei fondi disponibili; imperocché la connata linea, secondo il presuntivo della legge del 1879 (stabilito sopra dati meramente ipotetici) doveva costare lire 6 milioni, cioè circa lire 200 mila a chilometro, mentre poi nel fatto, giusta il prezzo d'asta, viene a costare 10 milioni di lire. Ora, se questo è stato l'ostacolo per cui si è dovuto prolungare il termine della costruzione, il rimedio o, meglio, il mezzo per rimuoverlo, lo dà la legge sulle convenzioni; la quale mette a disposizione del Ministero in quest'anno una somma, per le costruzioni di 31 milioni e 417 mila lire maggiore di quella che avrebbesi dovuta stanziare per la legge del 1879. Avvalendosi di questo maggiore stanziamento potrebbe il Ministero affrettare la costruzione della linea Avellino-Benevento in guisa che sia aperta all'esercizio nel termine fissato dalla legge 1882, cioè per il 1887.

Veda la Camera che io non domando che cosa rigorosamente giusta.

L’importanza di questa linea non bisogna misurarla, considerando separatamente questa linea in costruzione, ma come complementare e parte della intera e grande linea trasversale Termoli-Campobasso-Benevento-Avellino-Salerno o Torre Annunziata. Tutti i tratti di questa grande linea sono in esercizio, meno quello d'Avellino a Benevento, che rimane ancora in sospeso, con danno grave delle popolazioni e del traffico in generale.

Il tratto Avellino-Benevento l'è poi brevissimo, misurando appena 29 chilometri, dei quali di già ne sono costrutti 9; sicché non restano a costruirsi che appena 20, divisi in due tratti ambedue appaltati. È ben strano però che questi pochi chilometri si debbano costruire in periodi di tempo così lunghi! Per esempio, il tratto Prata-Altavilla di 7 chilometri dovrà essere costruito in 72 mesi, cioè cento metri al mese: nemmanco se si trattasse di perforare una galleria nel più duro quarzo.

Conchiudo, che tenuta presente l'importanza commerciale e militare della linea, il suo breve percorso e che essa stabilirà la più corta e diretta comunicazione fra importantissime città e mercati delle provincie meridionali, voglia l'egregio ministro disporre, servendosi delle maggiori somme disponibili per l'esercizio finanziario 1885/86 che la linea appaltata Avellino-Benevento sia costrutta ed aperta all'esercizio per l'anno 1887, giusta le disposizioni e gli allegati delia legge del 5 luglio 1882. Spero che l'onorevole ministro ini dia una risposta da rassicurarne le popolazioni della mia provincia, cioè che la costruzione delia ferrovia Avellino-Benevento si farà in un periodo di tempo ragionevole.» [6]

La linea (fig. 5) venne completata in due tempi successivi: il primo tratto Avellino-Prata di 9 km fu inaugurato il 2 settembre 1886, il secondo tratto Prata-Benevento di 20 km, che attraversa l’area mineraria, il 9 marzo 1891.

La ferrovia sostituì il precedente sistema di trasporto fluviale su chiatte che, oltre ad essere lento, soffriva del problema dell’umidità, nociva per gli zolfi ventilati: Inoltre, venne largamente usata dagli operai per raggiungere le miniere.

Nel frattempo, le due famiglie avevano consolidato le rispettive miniere, la cui contiguità, alimentando una sorta di sfida, costituiva uno stimolo a migliorare la produzione in quantità e qualità.

A inizio del XX secolo, i Di Marzo costruirono un edificio minerario che doveva evidenziare in primis la maestosità della miniera Di Marzo ai viaggiatori.

La facciata principale (fig. 6) era rivolta non all’ingresso delle miniere, ma al piazzale della stazione ferroviaria, distante solo pochi metri dall’insediamento minerario. Il portale di ingresso e l’arco in bugnato in pietra lavica, incorniciavano il gigantesco busto in bronzo di Francesco Di Marzo, sotto il quale una lapide commemorativa in marmo recitava “Francesco Di Marzo scoprì le miniere di zolfo nell’anno 1866” (fig. 1).

Il minerale fu riproposto in facciata sulla parte superiore dell’ingresso principale, in corrispondenza dell’architrave in pietra, sotto forma di pepite di zolfo.

Fig. 4 - Donato di Marzo (1840-1911)

Fig. 5 - Tracciato della ferrovia Avellino-Benevento

Fig. 6 - Facciata della Miniera Di Marzo vista dalla ferrovia

Fig. 7 - Michele Capozzi "Re Don Michele" (1836-1917)

A tale proposito è significativa la testimonianza del Prof. Federico Biondi, viaggiatore sulla linea Avellino-Benevento: «In prossimità della stazione di Tufo, quelli che ancora si servono del treno che viaggia sulla linea tra Avellino e Benevento, con un tracciato che, per volontà dello stesso Di Marzo, venne a costeggiare la zona mineraria, possono oggi osservare, forse anche un po’ incuriositi, una modesta ma armonica costruzione di stile ottocentesco, esempio di buona architettura industriale, con le belle merlature del cornicione, al di sopra del quale un arco in bugnato protegge dalle intemperie un piccolo busto di pietra. Eppure, sono soltanto pochi quelli che sanno anche di dovervi riconoscere l’effigie del primo scopritore di questa ricchezza della terra irpina a lungo rimasta nascosta. Gli eressero questo omaggio gli eredi e le maestranze sulla sommità dell’edificio che fino a qualche decennio fa ancora ospitava gli uffici della Direzione della miniera, dove però oggi non si va più a cavare lo zolfo, un po’ perché la vena si è andata esaurendo, ma anche perché la chimica ha fatto tanti progressi e quell’elemento un tempo così prezioso è stato messo ora un po’ da canto».

Morto Gaetano, la miniera, che allora era ancora concessa per Diritto di Proprietà secondo la legge mineraria borbonica, continuò a essere gestita direttamente da componenti della famiglia Di Marzo sino al DM di concessione perpetua del 26 ottobre 1932 alla Società Anonima Miniere Di Marzo-Tufo rappresentata dall’on. Vito Di Marzo

Nato ad Avellino il 19 dicembre 1872, Vito ebbe un ruolo importante durante il periodo fascista e si interessò direttamente della miniera, insieme al cugino Marino, fino al 1943.

Fu Presidente dell'Unione Industriale fascista di Avellino e Vicepresidente del Consiglio di Reggenza della Banca d'Italia.

Oltre che per la sua appartenenza al regime fascista (fu deputato tra il 1929 e il 1943), il suo potere derivava dall’aver sposato, nel 1896, Adelia Capozzi figlia di Michele, potente uomo politico di Salza Irpina che godeva del significativo appellativo di “Re Don Michele” (fig. 7).

L’ultimo Di Marzo a occuparsi direttamente della miniera fu l’ing. Gaetano, nipote del primo Gaetano e figlio di Marino.

Nato a Napoli il 20 settembre 1918, ingegnere minerario si è occupato direttamente della miniera dall’immediato dopoguerra fino a diventare Amministratore Delegato della Società concessionaria nel 1968 fino alla richiesta di rinuncia del 1863, confermata co DM 27 aprile 1988.

Oggi i Di Marzo sono tornati all’origine, al ruolo di imprenditori vitivinicoli negli stessi luoghi dell’attività mineraria e producono un ottimo vino, il Greco di Tufo, erede di quel vitigno giunto in Irpinia portato da Scipione Di Marzo

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[3] Cecilia Valentino: Intervista a Gaetano Di Marzo in Le miniere di Tufo - La città sotterranea, De Angelis Editore (2001).

[4] Il Principato Ultra era una divisione amministrativa del regno delle Due Sicilie, praticamente corrispondente alle attuali province di Avellino e Benevento.

[5] Gaetano Troisi: L’oro di Tufo, Arturo Bascetta Edizioni (2003).

[6] Nella stessa seduta il Ministro dei Lavori Pubblici on. Genaia rispose brevemente riconoscendo la necessità di accelerare i lavori per rispettare i tempi e giustificando il ritardo «… perché mentre. il primo tronco fu appaltato fino dal 1881, l'ultimo non fu potuto appaltare che nel marzo di quest'anno.»

Federico Capone: imprenditore, politico e scienziato

Contemporaneamente ad Altavilla Irpina andava sempre più emergendo la multiforme figura di Federico Capone (fig. 3).

Nato ad Altavilla il 16 febbraio 1849, fin da giovanissimo fu animato da grande fervore politico entrando nella Colonna insurrezionale irpina e partecipando appena diciottenne alla spedizione garibaldina per la liberazione di Roma, sconfitta il 3 novembre 1867 a Mentana dalle truppe pontificie e francesi.

Eletto deputato per due legislature (1883 e 1886), aderì al gruppo garibaldino di estrema sinistra, allora capeggiato da Francesco Crispi (fig. 8).

Nel ricordo di Antonio Mellusi (1847-1925 ) [7], del suo essere deputato viene celebrata l’onestà e la ricerca di verità: «…Egli, schivo da ogni simulazione, alieno dal non professare apertamente la verità, mal si prestava a tutti quegli usitati maneggi che distinguono la corrispondenza dei Deputati coi loro autoritari elettori…» [8].

E la sua generosità d’animo attraverso alcuni episodi: «Il primo di essi si connette alla catastrofe di Casamicciola, compianta dall'universale, allorché i ridenti “casali” dell'antica città d'Ischia furono sconvolti dall'ultimo terremoto [9] … In quelle ore desolate, quando abbondavano le descrizioni ed erano disordinati i soccorsi, Federico Capone, dall'impulso rapido verso ogni opera pietosa, partì, seguito da un manipolo di operai, sopra un legno diretto a Casamicciola: e lì, con la veemenza del suo desiderio, con la chiarezza de' suoi ordini, dispose i seguaci a dare difficili e perigliosi aiuti ai sepolti vivi ...».

Amante delle donne, ebbe numerose relazioni da cui nacquero ben diciassette figli, legittimi e naturali ma tutti ufficialmente riconosciuti.

Tra i suoi amori va, pure, annoverato quello per il volo, di cui fu pioniere. «A esso rivolse una parte cospicua della sua multiforme attività e della sua intelligenza a volte divinatrice e, per la sua soluzione, non esitò a sottoporsi a duri sacrifici, a profondere una parte rilevante del suo patrimonio e, nei primi tempi, a porre a repentaglio anche la vita.

Si occupò del problema appassionatamente con fede e con amore, quasi senza interruzione, dal 1875 fino a qualche anno prima della morte…

Per quanto avesse mostrato fin da fanciullo una spiccata inclinazione per le matematiche, obbedendo al desiderio dei suoi che per le tradizioni familiari desideravano farne un giureconsulto studiò da avvocato.

Pur non avendo perciò solide basi di studi matematici con l'osservazione intelligente del fenomeno del volo, con esperienze pratiche, guidato dal buon senso, dal raro intuito e dall'acuta intelligenza riuscì a fissare principii che più tardi la scienza sanzionò con le sue leggi rigorose…» [10].

Nel 1905 fece costruire un apparecchio per il volo (fig. 9) ad “ali battenti” secondo il brevetto depositato nel 1903.

Nella nota esplicativa del brevetto si afferma: «… A parità di lavoro meccanico un volatile compie molto maggior percorso di qualsiasi altro animale.

Nei volatili sono più lenti gli atti respiratori ed è minore il bisogno di ossigeno; quindi, la forza da essi applicata alla locomozione è, in proporzione minore di quella, al medesimo effetto impiegata dagli altri animali.

In conseguenza, più che nella, leggerezza del motore, la questione del volo si basa sul funzionamento degli organi motori opportunamente manovrati…

L’ areostato offre straordinaria resistenza, all’aria nel suo avanzamento. L’elica presenta anch’essa una grande superficie resistente alla traslazione e col suo funzionamento vorticoso riduce grandemente il suo effetto utile.

Una macchina da volare deve invece avere una superficie di sostegno proporzionata al suo peso, in maniera da potere slittare sull’aria, ed i piani dei suoi organi motori debbono, durante il loro funzionamento, mantenersi costantemente paralleli a detta superficie, e perciò alla sua. traiettoria.

A tale condizione rispondono perfettamente le ali.

La loro battuta sull’aria, infatti, combinata con una opportuna inclinazione della superficie del corpo, ha per effetto l’avanzamento di questo, secondo una traiettoria ascendente.

Nell’intervallo tra una battuta e l’altra, invece, la gravità, combinata con opposta inclinazione, ha per effetto l’avanzamento secondo una traiettoria discendente.

Ѐ in ciò che consiste il volo, il quale è il risultato di due forze combinate: la gravità e la forza motrice, applicate ad un piano di sostegno nell’aria…» [11].

Per quanto riguarda l’attività mineraria, dopo la riunificazione del 1878 a formare la “Società delle Miniere Solfuree di Altavilla Irpina” per la gestione diretta della Miniera Sociale, in seguito alla morte e alienazione di alcuni dei titolari il Capone dà inizio a una complicata “girandola” di variazioni societarie:

Fig. 8 - Francesco Crispi (1818-1901)

Fig. 9 - Proiezione del modello di apparecchio ad “ali battenti” tutto disteso

L’unificazione richiede l’estinzione dei debiti maturati nella gestione Ciufici, ammontanti a 830,000 lire che vengono reperite grazie all’intervento del Sig. Pasquale De Martini, a cui viene concessa «speciale ipoteca sui beni di proprietà dei costituiti con tutti i dritti di ogni specie loro appartenenti comunque ed a qualunque titolo, una a tutti gl’immobili per destinazione, tutto quanto insomma è destinato ed adibito ad uso delle Miniere, Molini ed altro, secondo la descrizione che segue…».

Tuttavia, tale unificazione avverrà solo pochi mesi prima della scadenza della locazione affidata alla Generale Immobiliare, il 1° giugno 1918, quando, nello studio del Rag. Pasquale de Martini davanti al notaio Donato Cirelli, le due predette società si fondono nella “Società Anonima Industrie Meridionali” (S.A.I.M. Miniere di zolfo irpine).

Due settimane dopo, il 14 giugno, Federico Capone muore a Torre del Greco.

Infine, nel 1919 nella Società confluisce anche il “Molino Pannone” che contribuisce all'inizio di un periodo positivo, con una produzione di zolfo pari a circa il 3% del mercato globale.

Pur se l’attività estrattiva si è chiusa ufficialmente nel 1987, con il DM 7 dicembre di accettazione della rinuncia presentata già nel 1983, la S.A.I.M. è tuttora in attività, anche se i prodotti solfiferi che commercializza non sono realizzati con lo zolfo minerale, ma con quello estratto nella raffinazione dei prodotti petroliferi. 

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[7] Figura poliedrica di poeta, avvocato, novellatore, storico e parlamentare sannita.

[8] Antonio Mellusi: Federico Capone, Deputato della Provincia di Avellino – Benevento (1924)

[9] Terremoto di magnitudo 5.8 del 28 luglio 1883

[10] Corrispondenza epistolare tra il Generale di Artiglieria Bosforo Capone e il Generale della Regia Aeronautica Militare Cesare Bernardino Giordani, Roma, 1923

[11] Relazione che accompagna il brevetto relativo al prototipo di aereo ideato da Federico Capone.