La tragedia del Beth

Concessionate nel 1863 con denominazione Vallon Cros, dalle miniere del Beth si estraeva la calcopirite, ricavando soprattutto zolfo (42% del peso del minerale) e rame (7-8 %), tramite quattro gallerie poste molto in quota, ad altezze comprese tra 2300 e 2850 metri.

A quelle quote le condizioni ambientali rendevano difficile la vita dei minatori e il trasporto del minerale a valle, che poteva essere effettuato solo per pochi mesi l’anno, dapprima su slittini (lese) sospinti da ragazzi o da donne, poi da carrette su ruote trainate da muli.

Solo nel 1898 fu approvato un ingegnoso progetto di teleferica per il trasporto a valle del minerale che, dopo essere stato lavorato nella fonderia della Tuccia situata 900 m più in basso della miniera, veniva inviato in gran parte a Marsiglia.

Le condizioni di vita dei minatori (fig. 1), alla fine del XIX secolo, erano molto dure, con turni di lavoro di 12-13 ore giornaliere, dopo le quali gli uomini si ritiravano nelle baracche di legno, a oltre 2700 metri di quota, da cui scendevano a valle solo nel fine settimana.

Gli operai permanevano in quota anche d’inverno, avversati dal freddo e dal continuo pericolo di valanghe, presagio della tragedia del 1904.

Probabilmente l’epopea dei minatori della Val Troncea sarebbe caduta nell’oblio se il 19 aprile del 1904 non si fosse verificata un’immane tragedia in cui persero la vita 81 minatori. Molti erano al di sotto dei 30 anni, pochi quelli che superavano la trentina, solo tre erano sopra i 50.

Arrivavano da Pragelato e dalla val Chisone, ma anche dalla val Germanasca e dalla val Pellice, diversi erano quelli di Abbadia, Pinerolo, San Secondo, San Pietro val Lemina, della Francia, uno era di Perugia, altri di Belluno.

Fig. 1 - Minatori del Beth

Un mondo di giovani che lavorava nelle gallerie, aperte a più di 2,800 metri di quota sullo spartiacque fra la val Troncea e il vallone di Massello.

Ancora oggi al Beth si possono vedere i resti di quella che era l’attività estrattiva (fig. 2): l’imbocco delle gallerie, quel che resta delle baracche dei minatori, alcuni resti del sistema di trasporto. Molto però non si vede più, trascinato via dalla valanga del 1904, ma l’attività delle miniere del Beth rimane in qualche modo emblematica della storia industriale della valle, che dalle miniere trasse guadagno e lavoro, anche per chi non vi era occupato direttamente. Insomma “le ricchezze”, che un’antica leggenda narrava si nascondessero nel Beth, si erano materializzate, ma a che prezzo!

Nel caso del Beth, la valanga che travolse gli 81 minatori quel 19 aprile mentre cercavano di scendere a valle sotto la nevicata, preoccupati dell’incombere della massa nevosa e ormai a corto di viveri, pose fine all’attività con una delle tragedie più grandi del ’900 in Italia.

Leggere la storia che ha preceduto la tragedia, e soprattutto quella degli ultimi giorni, la dice lunga sulla condizione in cui si lavorava, dei rapporti dei lavoratori con la dirigenza.

La partenza dei minatori descritta nelle testimonianze dei sopravvissuti ci parla di persone che sapevano a cosa andassero incontro e proprio per questo prendevano le precauzioni del caso (dividersi in squadre, distanziarsi nella speranza che nel bisogno ci fosse qualcuno ad aiutare, voglia di partire e in silenzio), anche se c’era chi voleva ripararsi nelle gallerie e aspettare.

Nonostante tutto dal Ghinivert e dalla Punta del Beth si staccarono due enormi masse di neve che travolsero tutti, le squadre appena partite e quelle ancora sulla porta e dentro le baracche.

Poi le cronache del tempo ci parlano degli aiuti che arrivarono, degli scampati, del cordoglio e, quindi, delle esequie ufficiali; anche di collette e di aiuti alle famiglie dei morti da parte della popolazione, di raccolte fatte dai giornali e dagli enti pubblici, dello stanziamento di fondi da parte del governo.

Alla fine si arrivò a raccogliere, pare, la cifra di 70,000 lire.

Si distinse la Società mineraria che dichiarò subito di voler stanziare 10,000 lire, ma a settembre del 1904 non aveva ancora liquidato le giornate di lavoro degli operai ai famigliari.

Gli ultimi corpi furono recuperati nel giugno del 1904 quando la neve lasciò definitivamente spazio ai prati. L’attività delle miniere del Beth continuò ma nel 1910 le miniere chiusero definitivamente i battenti.

Echi della tragica vicenda sono rimasti nei leggendari racconti del vallone del Beth, tramandati a noi da generazioni scomparse, altre volte da documenti storici e foto di repertorio, altre volte, ancora, sotto forma romanzata in canzoni, ballate o racconti, come testimonia la scheda sotto riportata, con uno stralcio tratto dal romanzo “L’anno che uccisero Rosetta” dello scrittore torinese Alessandro Perissinotto (vedi riquadro sotto), anche Professore di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Università di Torino.

Fig. 2 - Miniere del Beth oggi:

a) imbocco galleria S. Barbara a 2,768 m ;

b) imbocco galleria Bernard a 2630 m, con tracce di dilavamento della calcopirite;

c) resti della stazione d’angolo della teleferica a 2435 m


(foto tratte da http://galettoart.weebly.com/blog/la-leggenda-del-tunnel-nel-cuore-della-montagna)

Da “L’anno che uccisero Rosetta” di Alessandro Perissinotto – Sellerio (1997)

...Tira vento, ma non è vento di Francia. Non è la solita aria, quella che passa il colle. Questo è il vento dei minatori, dicono che venga dall’Africa. Forse c’è sempre stato, ma qui in paese lo si ricorda solo dalla strage del Beth. Per quello che si chiama vento dei minatori. La sente la campana? Sta suonando nella cappelletta del Beth, quella su nel vallone. Suonerà per due giorni, senza fermarsi, Mai. Tutti gli anni è così. Da quando è successa quella faccenda della miniera, o meglio, da qualche anno dopo.

Su al Beth c’era una cava di calce. Non era una gran cosa, ma dava da lavorare a più di venti persone, senza contare quelle impegnate giù in fornace …

Le cave del Beth … non le hanno mai più riaperte dopo quello che e successo…

Si era in questa stagione, ma in quell’anno non aveva ancora messo giù un dito di neve e così avevano deciso di tenere aperte le miniere ancora per qualche giorno. Ai minatori un po’ dispiaceva, ma tutto sommato qualche soldo in più gli faceva anche comodo. Era tutta povera gente che veniva da fuori, erano quasi tutti sardi. Tutti quanti avevano già scritto a casa che sarebbero arrivati dopo pochi giorni e invece…

Quell’anno, comunque, non aveva ancora messo giù un dito di neve e loro erano ancora tutti alle baracche. Poi un giorno, anzi una notte, proprio come se fosse ieri notte, una nevicata dell’altro mondo. In una nottata ne è venuto un metro qui in paese, figuriamoci in alto. Una cosa mai vista.

I minatori sono rimasti bloccati su, ma il peggio è venuto il giorno dopo. La mattina alle cinque il cielo era di nuovo sereno, ma un’ora dopo stavano già arrivando certi nuvoloni neri che te li raccomando! Solo che non c’era aria da neve. Sa quella bell’aria da neve che senti sulla faccia che ti punge. Quell’odore che tiri su col naso e dici «tra un po’ nevica» e allora corri a metter dentro tutte le bestie e a portar su il vino dalla cantina. Tutto all’incontrario! L’aria non era per niente fredda e c’era un’umidità da mese di settembre. E infatti non erano neanche le nove che ha attaccato a piovere dappertutto, anche sulle cime. È stato il finimondo, sembrava un temporale, di quelli d’estate… Pioveva grosso un dito. Quelli su alle baracche avrebbero dovuto venir giù subito e invece hanno aspettato, forse perché non volevano camminare in mezzo a tutta quella neve, o forse perché non volevano bagnarsi. Fatto sta che sono rimasti dentro le baracche e quelle sono state la loro tomba. Tutto in un momento c’è stato un rumore che così forte non l'avevamo mai sentito. Quelli che eravamo fuori abbiamo guardato in alto e abbiamo visto il ghiacciaio che andava in pezzi: c’erano dei seracchi grossi come delle case che venivano giù uno dietro l’altro e scendevano nel vallone del Beth tirandosi dietro tutta la neve che era appena caduta. Le baracche si sono mosse anche loro: sembrava che galleggiassero sulla neve perché si spostavano ancora intere, poi, quando tutta quella roba, ghiaccio, acqua, neve, è arrivata a quel salto di roccia dove il vallone del Beth si butta su quello del Bramafam, beh, allora lì le baracche si sono sbriciolate e non le abbiamo più viste. Ha piovuto per una settimana di fila e il Bramafam ha allagato tutti i campi bassi…Chi aveva la casa sulla strada della bialera si è trovato con un metro di fango nella stalla. Quando poi l’acqua si è ritirata abbiamo visto una scena che a pensarci mi viene la pelle d’oca ancora adesso. È stato giù, ai prati di Carlo, il panettiere, lì il Bramafam comincia a scorrere un po’ in piano, prima è quasi tutto a cascate. Ecco, dicevo, nei prati di Carlo si erano fermati tutti gli alberi che erano stati tirati giù dalle valanghe e dal fiume; erano lì, senza foglie, da lontano sembravano degli scheletri neri, ma poi, quando ci siamo avvicinati è stata una cosa! … Imprigionati dai rami degli alberi c’erano i minatori morti. Non tutti, qualcuno non si è mai più trovato, ma c’erano diciassette morti…

L’estate dopo abbiamo costruito la cappella alla cava, per ricordare quelli che ci hanno lasciato la pelle, e ci abbiamo messo una bella campana. Tutti gli anni, all’anniversario, si andava su a dire la messa per quelle povere anime, pensi che don Crivello ha voluto dirla lui, fino all’ultimo, … Don Celestino invece l’ha celebrata un anno solo, il primo…

Fatto sta che da quando don Celestino ha smesso di fare la messa per i minatori, tutti gli anni a quest’epoca si alza questo vento strano che fa suonare la campana del Beth …