La Montecatini di Donegani

La miniera di Caporciano e la nascita della Montecatini

Coltivata già ai tempi degli Etruschi che, grazie alla loro forza commerciale, ne esportavano il minerale di rame estratto in tutta la Penisola e in Grecia, passata ai Romani dopo la loro conquista dell’Etruria, la miniera di Caporciano (fig. 1) cessa la sua attività dopo la caduta dell’Impero Romano nel 476 d.C.

Le prime notizie sicure riguardo a una successiva ripresa dell’attività estrattiva risalgono all’età comunale di Volterra, durante la quale si segnala il rilascio della prima concessione, assegnata nel 1466 per 24 anni al romano Mariano di Matteo, a fronte di un pagamento pari all’8% degli utili a partire dal quarto anno di attività.

Nel 1472, in seguito alla conquista di Volterra da parte della Signoria di Firenze, la miniera passa sotto il controllo del potere fiorentino senza che, peraltro, vengano modificate le condizioni di concessione.

Nonostante da alcuni documenti si abbia notizia di un’elevata produttività negli ultimi decenni del XV secolo, nel 1547 la miniera risulta abbandonata e sarà Cosimo I de’ Medici a cercare di rilanciarne l’attività, chiamando dall’Ungheria una squadra di specialisti, diretti da Giovanni Ziegler.

Dapprima il tentativo fallisce, ma sarà Francesco I, succeduto al padre Cosimo, a riuscire nell’impresa con l’aiuto del poliedrico Bernardo Buontalenti, amico e ingegnere di corte.

Tuttavia, a causa della pestilenza, l’attività cesserà nuovamente nel 1630, per riprendere nel 1636 solo per un breve periodo, funestato dal crollo di una galleria che causerà la morte di molti minatori e una nuova chiusura dell’attività.

I vari tentativi di riattivazione della miniera, succedutisi a cavallo della metà del XVIII secolo, non otterranno i risultati sperati.

Bisognerà attendere il 1827 per assistere, finalmente, al decollo industriale della miniera, per merito di una società formata da Giacomo Leblanc, Sebastiano Kleber e, soprattutto, da Luigi Porte, alla cui iniziativa si deve l’assunzione di due tecnici minerari tedeschi, Augusto Schneider e Sigismondo Hiller, che già operavano presso la miniera di carbone di Caniparoli a Sarzana.

La morte di Kleber e il ritiro di Le Blanc segnano la fine della società e nel 1837 la gestione della miniera passa a una nuova società formata dai fratelli Hall e da Francis Joseph Sloane, con la conferma di Augusto Schneider come direttore e una manodopera di circa 140 unità.

La gestione Hall-Sloane della miniera dura 36 anni, per poi passare in successione al conte russo Demetrio Boutourline, associato a uno dei fratelli Hall, nel 1873, al Commendatore Giobatta Serpieri nel 1883 e, infine, alla Società Anonima delle Miniere di Montecatini [1], costituitasi a Firenze presso il notaio Baldazzi il 26 marzo nel 1888, con Presidente lo stesso Serpieri e un capitale iniziale di 2 milioni di lire.

È il periodo d’oro della miniera che arriva ad occupare fino a 200 lavoratori e che, con una rete di gallerie di 35 km e una profondità raggiunta di 315 m, viene considerata una delle più grandi miniere di rame europee.

La Società Montecatini, però, non si accontenta e già dal 1889 acquisisce un’altra miniera di rame, quella di Boccheggiano nel comune di Montieri.

Il futuro delle due miniere appare roseo ─ il rame si vende bene (sopra le 150 lire/quintale), la produzione aumenta rapidamente da 139 a 202 tonnellate mensili, i lavori di ricerca proseguono speditamente e con successo, il minerale a giorno pronto per l’estrazione è decisamente superiore a quello dell’esercizio precedente ─ tuttavia, già nell’Assemblea Generale del 28 ottobre 1893, il Consiglio di Amministrazione annuncia un risultato di esercizio molto deludente, a causa sia del ribasso del prezzo del rame, sia dei danni che la società è costretta a pagare per l’impatto delle attività di trattamento del minerale a Boccheggiano, molto più gravi di quelli previsti.

Alcuni mesi dopo, durante l'Assemblea straordinaria del 15 aprile 1894, gli amministratori dichiarano che i problemi di gestione «hanno immobilizzato le nostre risorse ed esaurito i fondi disponibili, non lasciandoci né il capitale circolante necessario, né quello occorrente per le anticipazioni indispensabili all’esecuzione dei lavori da intraprendere», rassegnano le dimissioni e invitano l’Assemblea a costituire un nuovo Consiglio.

Anche il nuovo Consiglio, con Presidente Vittorio Fé, nella seduta del 21 giugno 1896 deve, però, prendere atto che «i risultati dell'esercizio della Miniera di Montecatini sono stati negli ultimi anni assolutamente sfavorevoli, e quelli dell’esercizio in corso non sono stati migliori, per modo che il vostro Consiglio ha dovuto convincersi essere assolutamente necessario chiudere quella miniera, e ha già preso le opportune disposizioni perché i loro lavori siano sospesi col 31 del prossimo luglio».

Se le cose a Montecatini vanno male, a Boccheggiano non procedono molto meglio. Solo un provvidenziale rialzo del prezzo del rame consiglia un tentativo di rilancio della produzione, così tra il 1898 e il 1899 si apre uno spiraglio di ottimismo, alimentato anche dall’acquisizione di altre due minere cuprifere massetane, Fenice Massetana e Capanne Vecchie.

La situazione, però, rimaneva precaria sia per la scarsità di minerale da estrarre sia per i processi di trattamento, obsoleti e inquinanti.

Fig. 1 - Miniera di Caporciano oggi sede del Museo delle miniere di Montecatini Val di Cecina

È a questo punto che, nella riunione del 30 ottobre 1899, l’assemblea societaria nomina tre nuovi amministratori: Cipriano Tutti e i fratelli livornesi Donegani, Giovanni Battista e Giulio.

I fratelli Donegani sono due dei sei figli del comasco Luigi, trasferitosi a Livorno intorno al 1846 per aprire un negozio di “chincaglierie e bigiotterie”, poi diventato un banco al porto da cui passavano gran parte dei traffici e delle attività portuali, dal trasporto dei legnami, a commissioni varie, al disarmo delle vecchie navi.

Giovanni Battista, il primogenito, ha spirito imprenditoriale e contribuisce all’espansione dell’attività paterna, mentre Giulio, il più piccolo dei maschi, è persona colta, amante dell’arte e del “buon vivere”. Costituiscono, quindi, una coppia intraprendente ed eclettica.

Nell’Assemblea straordinaria del 31 ottobre 1900, il CDA della Società Montecatini, alla cui Presidenza è stato eletto Giacomo Castelbolognesi in sostituzione del deceduto Vittorio Fé, segnala un risultati buoni rispetto alle previsioni, in gran parte dovuti all’aumento del prezzo del rame.

In questo contesto, tuttavia, la miniera di Camporciano risulta la “maglia nera”, con una produzione ormai largamente inferiore a quella della miniera di Boccheggiano.

Tra il 1903 e il 1905 la produzione di Camporciano continua a declinare, mentre la Società Montecatini si espande altrove, in particolare acquisendo altre due miniere del Massetano, Carpignone e Serrabottini, intensificando le ricerche a Castel di Pietra e ampliando i cantieri estrattivi a Boccheggiano.

Nonostante un ultimo tentativo di rivitalizzazione affidato a una cooperativa dei minatori, la miniera di Camporciano viene chiusa il 12 ottobre 1907.

Anche a Boccheggiano le cose non vanno benissimo, ma lì oltre al minerale di rame è presente molta pirite, minerale di cui è ricco tutto il Massetano.

La pirite è uno strano minerale metallifero, un bisolfuro di ferro (FeS2) utilizzato soprattutto per la produzione di acido solforico (H2SO3) [2], con ferro come prodotto secondario ma di difficile utilizzo data la presenza di impurità di zolfo.

A sua volta l’acido solforico è alla base di molti trattamenti chimici, per cui il controllo delle minere di pirite significa anche poter influire sullo sviluppo dell’agricoltura e della nascente industria chimica. E di pirite nell’area d’influenza della Montecatini ce n’è, come detto, in abbondanza.

Così gli amministratori della Società «fatti certi dell’importanza della pirite... , approfittando di occasione favorevole, [considerano conveniente] interessarsi in altre non meno importanti miniere di piriti, taluna delle quali contigua alla nostra; ed in tal modo, avendo un vastissimo campo di azione, poter regolare il mercato di un minerale la cui vendita, in gran parte assicurata per lungo periodo, è in ogni modo in continuo aumento in relazione ai bisogni e progressi dell’agricoltura».


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[1] Nel seguito Società Montecatini.

[2] FeS2 + 2O2 --> Fe + 2SO2

           2SO2  + 2H2O --> 2H2SO3

La Montecatini di Guido Donegani

Il decennio di crescita e consolidamento (1910÷1920)

Prima la pirite, poi il rame, questo è, quindi, l’indirizzo societario nel 1910, anno in cui muore Giovanni Battista Donegani, sostituito come consigliere dal figlio Guido (fig. 2).

Nato a Livorno il 26 marzo 1877, Guido Donegani, quarto dei cinque figli da Giovanni Battista e Albina Corridi, di ricca famiglia locale, viene educato ai dettami del costume borghese severo della Livorno dell’epoca e iscritto al convitto dei Padri Scolopi di Firenze intorno ai dieci anni. Serio, riservato e impegnato negli studi, mostra già da piccolo i caratteri dell’uomo che sarà.

Terminate le scuole medie, torna a Livorno e si iscrive all’Università di Pisa dove frequenta il biennio. Poiché, però, a Pisa non c’è il Politecnico per diventare ingegnere, che considera la sua vera vocazione, finito il biennio si trasferisce a Torino, dove si laurea in Ingegneria Industriale nel 1901.

Nel frattempo ha sposato una bellissima ragazza torinese, Anna Coppa, che presto si ammalerà di una grave malattia mentale e ne morirà. Affranto dal dolore, cercherà di superarlo dedicandosi al lavoro e all’attività politica, che considera complementare al lavoro di ingegnere.

Così, nel 1902 viene eletto consigliere provinciale di Livorno nelle liste liberali e in seguito, come assessore ai Lavori pubblici, si segnala per la costruzione dell'acquedotto di Filettole, con cui risolverà l’annoso problema dell'acqua potabile della città toscana.

Già impiegato nella Montecatini dal 1903 come capo-servizio nella miniera di Caporciano, quando assume la carica di consigliere Guido Donegani mostra subito le sue doti e la sua intraprendenza nell’acquisizione della maggioranza azionaria dell’Unione italiana miniere pirite.

Sin dal 1908, i due consiglieri Donegani, Giovanni Battista e Giulio, avevano proposto senza successo la fusione fra la Montecatini e l'Unione italiana miniere pirite, il maggiore produttore italiano di pirite, a sua volta controllata dall'Unione Italiana Concimi, la più grande azienda chimica del paese.

Due anni più tardi, sotto la gestitone di Guido Donegani, già nominato Amministratore Delegato in sostituzione del dimissionario Paolo Marengo, l’operazione riesce [3], sfruttando le difficoltà in cui si trovava l’Unione Italiana Concimi e garantendo alla Montecatini il controllo della quasi totalità delle azioni societarie e, di conseguenza, del mercato delle piriti, in forte ascesa in quegli anni.

In seguito a tale acquisizione, la sede legale e amministrativa della Società Montecatini viene trasferita a Milano, dove ha sede la stessa Unione italiana miniere pirite e dove operano i centri di maggior consumo delle piriti.

Contemporaneamente, a conferma dell’importanza della nuova politica societaria, viene nominato Direttore generale dei servizi tecnici l’ing. Elvino Mezzena, consulente delle importanti società straniere Société des Phosphates Tunisiens e Société des mines de ƒer de Nebeur, che sarà anche consigliere di amministrazione dell’ILVA dal 1921 e Vicepresidente della stessa dal 1923 al 1929.

Già dalle prime mosse è chiaro che la gestione Donegani persegue un obiettivo: riordinare e potenziare la Montecatini come impresa mineraria e ampliarne il raggio di azione, non più solo semplice fornitrice di materie prime ma anche futura protagonista dell’industria chimica.

È un obbiettivo logico, da parte di chi ha ormai il monopolio nazionale delle pirite, cioè di una delle materie prime alla base di molti processi chimici.

Il 3 aprile 1913 il capitale sociale è aumentato da 12.5 a 15 milioni di lire e viene annunciata la partecipazione della Montecatini alla Società per lo Sviluppo dei Superfosfati e dei Prodotti chimici in Italia: è il primo passo ufficiale verso l’ingresso nel campo della produzione industriale chimica.

Gli impatti dello scoppio della 1a Guerra Mondiale sull’attività societaria sono sia positivi che negativi: se da un lato diventa quasi impossibile commerciare le piriti verso l’estero, dall’altro la richiesta di rame e acido solforico per esigente belliche migliora le condizioni di mercato.

Inoltre, la sempre maggiore richiesta di combustibili suggerisce l’associazione alla Société Générale des Lignites en Italie, costituita da italiani e francesi per lo sfruttamento delle miniere di lignite, di cui è particolarmente ricca l’Italia centrale.

Basti dire che nel periodo bellico sotto l’egida del Commissariato Generale per i Combustibili Nazionali, vengono rilasciate le concessioni di ben 40 siti, in Toscana (30) e Umbria (10), che, peraltro, nella grande maggioranza dei casi non saranno confermate nel periodo post-bellico.

Tra la fine del 1916 e l’aprile del 1917 gli azionisti convocati in due successive Assemblee straordinarie approvano nuovi aumenti di capitale, prima da 15 a 30 poi da 30 a 50 milioni [4].

Inoltre, sempre nell’assemblea dell’aprile 1917, viene approvato il cambio della denominazione in Montecatini, Società Genérale per l’Industria Mineraria.

In questo quadro, la Montecatini decide di entrare nel settore minerario dello zolfo che allora viveva una forte crisi, causata dall’impossibilità delle miniere in attività gestite artigianalmente a fronteggiare la concorrenza dello zolfo americano.

Vengono, così, acquisite le proprietà delle miniere continentali (romagnole e marchigiane) e di alcune delle principali miniere siciliane: Tallarita, Sommarino e Sofia, dalla Società Mineraria Siciliana; Grottacalda e Bosco dalla Società Solfifera Siciliana.

La Montecatini è ormai diventato «un potente organismo minerario [5], atto ad assicurare una più razionale ed intensa utilizzazione delle risorse del sottosuolo del nostro Paese, specialmente in rapporto ai prodotti minerari necessari all’agricoltura» [6].

In coerenza con quanto sopra affermato, il 27 maggio 1920 la denominazione societaria viene modificata in Montecatini, Società Genérale per l’Industria Mineraria e Agricola [7], contemporaneamente all’assorbimento di alcune importanti Società operanti nel settore dei concimi: la romana Società Colla e Concimi di Roma e la milanese Unione Italiana fra i Consumatori e Fabbricanti di Concimi e Prodotti Chimici.

L'Operazione Concimi, che costituisce una tappa fondamentale della gestione Donegani della Montecatini, viene immediatamente seguita da provvedimenti di ordine tecnico e logistico come: il raddoppiamento delle fabbriche nell’Italia meridionale, la maggiore efficienza nella produzione dell'acido solforico, il perfezionamento della lavorazione dei fosfati.

Nella visione del Donegani l’arretratezza e la miseria italiana erano in gran parte dovute a una scarsa produzione agricola causata da un uso assai ridotto, soprattutto al Sud, dei concimi fosfatici. Di conseguenza, c’era un grande margine di sviluppo per una Società che non sapesse solo produrre ma anche stimolare il consumo (fig. 3), attraverso un aumento dell’offerta tale da «influire sui prezzi in modo favorevole ai consumatori, così da far coincidere, anziché separare, l’interesse vero e reale di questi, con l’interesse del nuovo Ente industriale» [8].



Fig. 2 - Guido Donegani (1877-1947)

Fig. 3 - Manifesto della Montecatini che invita all'uso dei propri prodotti per l'agricoltura

Un’operazione di così grande portata richiedeva un forte aumento di capitale, da 75 a 200 milioni, che viene approvato dagli azionisti in contemporanea con la già citata modifica della denominazione societaria, in cui viene aggiunto il riferimento all’industria agricola.

In dieci anni sotto la gestione di Guido Donegani, la Montecatini:

 

Da questa grande posizione di vantaggio, la Montecatini di Donegani si appresta a entrare in quello che sarà il Ventennio Fascista.


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[3] Attraverso una serie di complicati accordi con le banche italiane (Credito Italiano e Banca Commerciale) e con quattro istituti di credito parigini francesi.

[4] Al termine della guerra, nel novembre 1918 verrà votato un nuovo aumento di capitale da 50 a 75 milioni.

[5] La produzione di pirite è aumentata di circa sette volte in sette anni, passando dalle 58,000 tonnellate del 1910 alle oltre 400,000 del 1917.

[6] Da una relazione di Guido Donegani del marzo 1918.

[7] Cambierà ancora denominazione, assumendo quella definitiva di Società Genérale per l’Industria Mineraria e Chimica, nel 1938 quando, in regime autarchico, sarà di gran lunga la principale industria chimica del paese.

[8] Da un atto ufficiale Montecatini dell’epoca.

Il "ventennio fascista"

Politicamente Guido Donegani è un liberale di stampo ottocentesco, erede della Destra storica di Cavour e D’Azeglio, e nel partito liberale livornese si candida nel 1921 all’elezione alla Camera dei deputati nel Collegio di Pisa.

Viene eletto ed entra in Parlamento nel gruppo liberale di cui fanno parte Giolitti (fig. 4), Orlando, Cocco-Ortu e Amendola (fig. 5).

Occorre sottolineare che, pur appartenendo allo stesso gruppo, gli esponenti liberali succitati provenivano nella maggior parte dalle file della Sinistra storica [9] mentre Donegani in quel gruppo occupava una posizione più conservatrice, come sarà chiaro pochi anni dopo con la sua adesione al Partito Nazionale Fascista.

In Parlamento entra a far parte della Commissione per l’industria e commercio e commissario per la revisione delle tariffe doganali.

Si occupa anche di agricoltura, convinto com’è del legame inscindibile tra agricoltura e industria chimica.

In un suo intervento del 1922 in sede di bilancio dell’Agricoltura, ribadisce la necessità di sostenere il comparto agricolo in proporzione al suo peso nell’attività lavorativa degli italiani, il 54% dei quali è occupato in agricoltura a fronte del 27% dell’industria e dell’11% dei servizi terziari. In particolare, sostiene l’importanza di stimolare l’istruzione agricola per «dare all’agricoltore italiano la tecnica del suo mestiere».

Si può individuare in quest’affermazione un sottotesto per cui una maggiore istruzione avrebbe portato l’agricoltore a far uso di concimi chimici, chiudendo il cerchio di causa-effetto tra agricoltura e industria.

Per quanto riguarda quest’ultima, rilevata l’ondata protezionistica diffusasi in Europa al termine del conflitto, la sua posizione era chiara e in controtendenza: «L’Italia non può fare piena astrazione dalla realtà della situazione odierna, ma pochi paesi come il nostro hanno assoluta necessità della politica della porta aperta. Un Paese mancante di materie prime non può essere protezionista». Dichiarazione del tutto condivisibile, ma in contraddizione con quella che, poco più di un decennio dopo, sarà la politica autarchica del Regime Fascista.

Qui si vuole raccontare la storia di un grande imprenditore che ha svolto un ruolo importante per l’attività mineraria italiana, se è vero come è vero che la Montecatini è stata per quantità di miniere gestite e qualità produttiva la maggiore impresa italiana; però è bene sgomberare ogni equivoco circa la sua adesione al fascismo: fu un gesto moralmente inaccettabile e le sue successive giustificazioni, tanto prevedibili da essere banali, sono cosa che il grande industriale che era avrebbe fatto meglio a evitare, accettando in silenzio il giudizio fortemente negativo che lo bollò nel primo dopoguerra.

Scrive il Donegani, quando però il fascismo è già crollato e non può più nuocergli: «Col fascismo non fu mai possibile giungere a una reciproca comprensione: io ho sempre sentito che la dittatura ed il regime che intorno ad essa si era formato, inquinando la vita spirituale del Paese ed allontanandolo dalla comunanza internazionale, avrebbe in definitiva pregiudicato anche la vita dell’industria, per la quale non si dimostrava e non si poteva dimostrare alcuna vera comprensione... Se si esamina poi la cosa dal punto di vista psicologico, è facile rendersi conto dell’incompatibilità fra il mio temperamento e quello degli uomini del regime.... Come avrei potuto trovarmi a mio agio discutendo con gli uomini del governo e del partito fascista, la maggior parte dei quali brillava per incompetenza, e per giunta pretendeva di imporre la sua volontà demagogica con metodi autoritari e militareschi?»

Questa più che una giustificazione è sostanzialmente un’autoaccusa: non si sarebbe potuto descrivere meglio perché la sua adesione al fascismo fu un atto biasimevole dal punto di vista umano (incompatibilità fra il mio temperamento e quello degli uomini del regime), politico (col fascismo non fu mai possibile giungere a una reciproca comprensione) e perfino industriale (allontanandolo dalla comunanza internazionale, avrebbe in definitiva pregiudicato anche la vita dell’industria).

A spiegare, quindi, quella scelta rimane solo la paura, per sé e la sua industria.

Si può obiettare che si trattava di una paura più che giustificata.

 È vero, ma la sua non fu un’adesione passiva ma più che attiva, avendo egli accettato di essere eletto per una legislatura nelle file del Partito Nazionale Fascista, di partecipare alle due successive per nomina diretta da parte del Consiglio Nazionale Fascista, concludendo il cursus honorum fascista con la nomina a Senatore del Regno nel 1943.

Chi aveva armato, inoltre, quelle squadracce fasciste, violente e sanguinarie, se non quelli che, come Donegani, avevano scelto il proprio portafoglio subordinandogli la propria umanità e dignità?

Quanto alla paura speculare che avrebbe motivato quella scelta, quella per una rivoluzione bolscevica, l’affermazione è risibile.



Fig. 4 - Giovanni Giolitti (1842-1928)

Fig. 5 - Giovanni Amendola (1882-1926)

Lo dimostrano gli episodi del biennio 1920-1921 che contrappongono ai manipoli militarizzati a livello nazionale solo delle resistenze locali, di carattere spontaneistico attorno ai sindacati e alle leghe contadine. Dov’erano le forze organizzate nazionali che avrebbero dovuto compiere la tanto sbandierata, opportunamente per i latifondisti e gli industriali, rivoluzione bolscevica?

I concimi azotati (1921÷1933)

Tornando al Donegani industriale minerario e chimico, il 1921 è l’anno di una nuova svolta nel campo dei concimi azotati.

All’epoca l’azoto era derivato in gran pare dai nitrati di sodio provenienti dalle miniere del Cile, ma durante la guerra l’interruzione delle forniture cilene sviluppò l’ingegno di due chimici tedeschi, Haber e Bosch, che riuscirono ottenere l’ammoniaca (NH3) con un procedimento basato sull’azione del vapor d’acqua sul carbone rovente.

Contemporaneamente un giovane chimico italiano di origine svizzera, Giacomo Fauser (fig. 6), nato a Novara nel 1892 e figlio del proprietario di una locale fonderia, aveva realizzato una cella elettrolitica che, partendo dall’acqua, otteneva ossigeno come prodotto principale e idrogeno come prodotto secondario.

Che fare di questo idrogeno? Secondo Fauser si poteva usare per produrre ammoniaca.

La prima idea fu quello di ottenere la disponibilità per l’uso del brevetto Haber-Bosch, ma non riuscendo a ottenerla decise di provare a realizzare in proprio un sistema per la produzione di ammoniaca.

Le prime esperienze furono effettuate a Novara già dal 1918 presso l'officina paterna. Da una lunga serie di prove, volte a individuare il miglior catalizzatore e le condizioni operative più sicure ed economiche, nel 1920 risultò un processo che, brevettato in Italia e all'estero, si diffuse rapidamente in tutto il mondo industriale.

Il processo, sostanzialmente diverso dagli altri esistenti, permetteva di ricavare l'azoto dall'aria tramite combustione dell'ossigeno con l'idrogeno, con un impianto pilota da lui brevettato che aveva le notevoli caratteristiche di:

Tuttavia, poiché elemento fondamentale del processo era l’idrogeno ricavato per via elettrolitica, la “materia prima” richiesta era l’elettricità, in particolare all’epoca l’energia idroelettrica [10], a differenza del processo Haber-Bosch che richiedeva l’uso del carbone rovente trattato con gas d’acqua.

I risultati ottenuti dal Fauser vengono portati a conoscenza del Donegani dal senatore Ettore Conti, presidente sia delle Imprese Elettriche Conti (poi Edison) che della Banca Commerciale, cui il Fauser si era rivolto per ottenere finanziamenti.

Con il suo proverbiale “fiuto”, il Donegani capisce al volo le nuove prospettive che tale processo avrebbe aperto e il 31 maggio 1921 viene costituita la Società Elettrochimica Novarese, con un capitale di 3 milioni, di cui 2 milioni sottoscritti dalla Montecatini e l’altro milione, in parti uguali dal senatore Conti e da Fauser.

Gli anni dal 1921 al 1927 sono, quindi dedicati a trasferire i risultati del processo Fauser dalla piccola scala delle prove di laboratorio alla grande scala industriale.

Partendo da un impianto “rimediato”, in cui la colonna di sintesi è rappresentata dalla canna di un cannone 345, residuato bellico giacente presso le officine Ansaldo in attesa di essere fuso, già dal 1923 si riescono a produrre fino a 3 tonnellate/giorno di ammoniaca sintetica.

In quegli anni l’Italia è il “fanalino di coda” europeo nell’uso dell’azoto, con 0.55 kg/abitante a fronte degli 8.76 della Germania, i 7.25 dei paesi scandinavi, i 2.24 della Gran Bretagna e l’1.81 della Francia. Ridotta è la produzione nazionale, prevalentemente cianamide (CH2N2) e solfato di ammonio ([NH4]2SO4), mentre la gran parte dell’azoto si ottiene dal salnitro cileno.

Sempre nell’ottica che vede lo sviluppo del Paese strettamente connesso con lo sviluppo dell’agricoltura attraverso l’utilizzo dei concimi, in questo caso azotati, la strategia di Donegani consiste, quindi, nel sostenere la necessità di incrementare fortemente la produzione di azoto e l’uso dei concimi da esso derivati.

Il tutto si concretizza nell’installazione di numerosi impianti sparsi per la Penisola, più o meno direttamente dipendenti dalla Montecatini, con i quali si arriva a produrre nel 1925 26,000 tonnellate annue di ammoniaca sintetica, che diventano 54,300 nel 1930 e 90,500 nel 1933 (tab. 1), con vari processi (tab. 2), tra cui il prevalente è, comunque, quello Fauser.

Tuttavia, nonostante i risvolti propagandistici e i meriti autarchici vantati presso il regime fascista dalla Montecatini, che aveva dimostrato di poter produrre gli indispensabili concimi azotati solo da “acqua, aria, elettricità”, Donegani sa bene che la scelta del metodo elettrolitico è una soluzione di ripiego [11], a cui l’azienda milanese ha dovuto ricorrere per la mancanza di adeguate fonti di combustibile fossile sul territorio nazionale [12].

Si tratta di una scelta rischiosa, come risulta dai dati sui costi di produzione in tab. 3, che fa dipendere la possibilità di remunerazione dei grandi investimenti necessari per la costruzione degli impianti di sintesi quasi interamente dalla disponibilità futura di quantità crescenti di energia idroelettrica a basso prezzo.

Agli inizi degli anni ’30 del XX secolo, quindi, la Montecatini controlla almeno i 2/3 della produzione italiana di ammoniaca sintetica (tab. 1), oltre alla gestione e la vendita del solfato d’ammonio prodotto dalle altre aziende nazionali.

La posizione di egemonia sul mercato italiano dei fertilizzanti azotati della Montecatini è ulteriormente legittimata dall’attività innovativa introdotta nello sviluppo e nella commercializzazione di nuovi concimi azotati.

A parte il solfato di ammonio e la calciocianammide, di cui la Montecatini fornisce, rispettivamente, il 44.2 e il 28.0% della produzione nazionale, la stessa copre la totalità o quasi della produzione nazionale di nitrato di calcio (100%), nitrato di ammonio (74.9%), nitrato di sodio (100%) e fosfato di sodio (100%).

In un mercato come quello dei concimi azotati, soggetto alla concorrenza estera, è infatti necessario ampliare e migliorare la gamma delle produzioni per poter competere efficacemente. 

Non a caso lo sviluppo dei fertilizzanti azotati diventa una delle aree di ricerca più importanti per Fauser fin dalla metà degli anni Venti e tale rimarrà per lo meno fino al secondo dopoguerra.

Tuttavia, analizzando il panorama produttivo internazionale al 1933, si osserva che l’Italia copre solo il 2.7% della produzione (90.500 tonnellate) a fronte del 10.4% del totale degli impianti in attività (tab. 1), che, quindi, hanno una produzione media di circa quattro volte inferiore a quella degli impianti mondiali.

Il problema, però, non sta in un gap tecnologico [13] quanto nel perdurante ridotto consumo di fertilizzanti in Italia.

L’analisi comparativa dell’evoluzione storica nazionale di produzione e consumo di fertilizzanti azotati tra il 1926 e il 1933 mostra, infatti, una crescente forbice a favore della produzione, che aumenta più di tre volte mentre il consumo si ferma a una volta e mezzo (fig. 7).

Anzi, proprio dal 1933 la presenza del processo Fauser nel mercato internazionale va aumentando grazie alla sua adattabilità alle diverse condizioni produttive e ai diversi tipi di idrogeno disponibili, al basso costo degli impianti per tonnellata di capacità produttiva installata e alla politica della Montecatini in relazione alla concessione delle licenze, che che vengono cedute a un costo assai più basso di quello delle concorrenti  [14].

Non potendo competere con gli altri paesi nella produzione di ammoniaca sintetica per gli elevati costi dovuti alla mancanza delle materie prime necessarie (in particolare il coke), la Montecatini di Donegani decide, quindi, di esportare tecnologia e know-how per conquistare i mercati internazionali.

Questa politica permetteva, inoltre, di delocalizzare la produzione e sfruttare i conseguenti minori costi per espandersi nel mercato internazionale dei fertilizzanti azotati.


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[9] L’avvento a fino XIX secolo dei partiti popolari (socialisti e popolari) aveva riconfigurato le posizioni politiche tradizionali spostando gli esponenti della Sinistra storica su posizioni democratiche e liberali.



Fig. 6 - Giacomo Fauser (1892-1971)

Tab. 1 - Impianti italiani di ammoniaca sintetica 1923-1933 (Fonte: M. Perugini F. Amatori, 2009)

Tab. 2 - Principali processi di sintesi dell’ammoniaca (Fonte: M. Perugini F. Amatori, 2009)

Tab. 3 - Costi di produzione dell’ammoniaca (Fonte: M. Perugini F. Amatori, 2009)

Fig. 7 - Incremento produzione e consumo di fertilizzanti azotati (Fonte: M. Perugini F. Amatori, 2009)

[10] Questa dipendenza dall’energia elettrica costituì sempre un problema, sia per gli approvvigionamenti sia per i maggior costi di produzione: fino all 33% in più per l’ammoniaca prodotta con idrogeno da gas d’acqua e più 19% per quella prodotta con gas di coke. Tuttavia, in quegli anni l’Italia possedeva più energia idroelettrica che carbone, la qual cosa orientò le scelte in relazione a una produzione che si voleva nazionale.

[11] Pur se con un trend in aumento, nel 1934 l’idrogeno elettrolitico per la sintesi dell’ammoniaca copriva ancora solo il 16.4% del totale, a fronte di un uso del gas d’acqua del 57%, seppure in forte diminuzione, e del gas di coke del 25%, anch’esso in forte crescita.

[12] Nella Relazione di Bilancio del 1924 Donegani affermava: «Fissare l’azoto atmosferico per l’industria e l’agricoltura vuol dire impiegare della energia ottenuta colla elettricità o col carbone [essendo sprovvisti di quest’ultimo, NdR] si comprende…quale quantitativo enorme di energia elettrica occorre avere disponibile anche per una modesta produzione di azoto, ed a quali minime condizioni di prezzo si debba avere l’energia elettrica per poter fare una seria concorrenza ad una fabbrica installata allo sbocco di una miniera di carbone».

[13] La tecnologia italiana di produzione dell’ammoniaca sintetica è, infatti utilizzata in gran parte del mondo rappresentando il 28% del totale, ripartito tra processo Casale (17.4%) e Fauser (10.6%).

[14] Soprattutto le imprese tedesche, continuando nella politica di chiusura già sperimentata da Fauser nell’immediato dopoguerra, rilasciavano licenze a prezzi altissimi. 

La produzione dell'alluminio (1925÷1935)

Ma, mentre si accingeva a entrare nel mercato internazionale dei fertilizzanti azotati con la “chiave” delle partnership tecnologiche, Donegani doveva pure affrontare il problema, già citato (fig. 7), della super-produzione dei fertilizzanti azotati in campo nazionale.

Per chiarire meglio la situazione occorrerà però fare un passo indietro, all’immediato primo dopoguerra quando il 12 novembre 1920 viene firmato il Trattato di Rapallo (fig. 8) con cui l’Istria viene annessa all’Italia, portando in dote alcune tra le maggiori miniere di bauxite al mondo, site in territorio del comune di Albona (oggi Labin) e capaci di coprire fino al 10% della produzione mondiale.

Di conseguenza, l’Italia diventa uno dei maggiori produttori mondiali di bauxite, passando da una media annuale di 6,974 tonnellate degli anni ’10 alle 125,160 del decennio successivo, fino a un massimo di 571,324 tonnellate del 1940 [10].

Al tempo stesso, l’Italia aveva solo due impianti per la produzione di alluminio a partire dalla bauxite: a Bussi, in provincia di Pescara, e a Borgofranco di Ivrea, dove peraltro la produzione avveniva a partire dall’allumina importata dalla Francia.

Si verificava quindi il paradosso di un paese, con l’ambizione di diventare industriale, che era uno dei maggiori produttori di una materia prima e allo stesso tempo un importante importatore del prodotto finito.

Uno smacco per le ambizioni del paese e per l’industria nazionale nel suo complesso!

Inoltre, l’interesse allo sviluppo di un’industria nazionale dell’alluminio rientrava nella politica di contenimento del pesante deficit della bilancia dei pagamenti, causato anche dall’importazione dei metalli non ferrosi (rame in particolare, ma anche piombo e zinco), che rappresentavano una delle principali voci passive della bilancia commerciale italiana.

Quando, a partire dalla seconda metà degli anni ’20, il prezzo del rame subisce un consistente aumento, si accentua in numerose applicazioni il processo di sostituzione di tale metallo con l’alluminio, con un conseguente aumento del consumo senza che, peraltro, l’industria nazionale sia in grado di garantirne più del 40% di copertura.

In questo quadro, anche sollecitato dal regime fascista e dall’apertura di “credito” che ne avrebbe ottenuto, Donegani si convince ad entrare nel settore dell’alluminio e, nella relazione all’assemblea straordinaria della Montecatini del 1° ottobre 1925, afferma: «Pensavamo di destinare unicamente ad ulteriori ampliamenti del programma di produzione di ammoniaca sintetica la totalità della nuova energia che produciamo, ma ragioni non attinenti all'industria ci hanno convinti dell’opportunità di destinare tale energia... in parte alla produzione di alluminio, di cui il nostro Paese è ancora importatore».

Dunque: c’è energia elettrica in eccedenza e Donegani decide di utilizzarla per creare uno stabilimento per la produzione dell'allumina, e un altro per la trasformazione di questa in alluminio.

In accordo con il gruppo tedesco Vereingte Aluminium Werke (Vaw), che deterrà il 40% del capitale azionario mentre il restante 60% spetterà alla Montecatini, il 27 gennaio 1927 nasce, quindi, la Società Italiana Dell’Alluminio (SIDA), con sede a Milano e capitale sociale di un milione, che viene rapidamente elevato a 50 milioni nel 1928 quando si passò alla fase attuativa del progetto e a 60 l’anno successivo.

Il primo impianto per la produzione di alluminio viene costruito a Mori, in provincia di Trento, ed è così composto:

L’allumina utilizzata nell’impianto di Mori viene, invece, prodotta in un impianto a Porto Marghera, di proprietà della Società Italiana Allumina (SIA), costituita nel settembre 1928 da Montecatini e Vaw.

Stante che in Italia nel settore già operavano due Società estere:

l’articolazione della produzione industriale e dei consumi dell’alluminio in Italia tra il 1929 e il 1934 si presentava come da tabb. 4 e 5.

Dalla tab. 14 si possono osservare due trend specifici:

Tali problemi ambientali nascevano “a monte”, sia perché erano dovuti alla scarsa qualità dell’allumina prodotta nell’impianto di Porto Marghera, dal 1931 ormai gestito al 90% dalla VAW, sia perché questa scarsa qualità era dovuta alla scelta iniziale che per la produzione di allumina aveva preferito, per ragioni autarchiche legate all’utilizzo di materie prime prevalentemente italiane [15], il processo Haglund, di cui VAW deteneva il brevetto, al già affermato processo Bayer utilizzato nel resto del mondo.

Ne derivava un’allumina piena di impurità che per essere trattata richiedeva una forte dose di correttivi, in particolare a base di fluoro, con i conseguenti impatti sul territorio circostante, dapprima sulle coltivazioni e il bestiame, successivamente anche sulla popolazione locale.



Fig. 8 - Giovanni Giolitti firma il Trattato di Rapallo tra Italia e Regno dei Serbi, Croati e Sloveni 

Tab. 4 - Impianti di produzione di allumina e alluminio in Italia nel 1929 (Fonte: M. Perugini F. Amatori, 2009)

Tab. 5- Produzione, scambi e consumi di alluminio in Italia 1929-1934  (Fonte: M. Perugini F. Amatori, 2009)

scarsa qualità era dovuta alla scelta iniziale che per la produzione di allumina aveva preferito, per ragioni autarchiche legate all’utilizzo di materie prime prevalentemente italiane [15], il processo Haglund, di cui VAW deteneva il brevetto, al già affermato processo Bayer utilizzato nel resto del mondo.

Ne derivava un’allumina piena di impurità che per essere trattata richiedeva una forte dose di correttivi, in particolare a base di fluoro, con i conseguenti impatti sul territorio circostante, dapprima sulle coltivazioni e il bestiame, successivamente anche sulla popolazione locale.

In conseguenza di questa situazione, a fine 1934 la SIDA va in crisi finanziaria, viene deciso lo scioglimento anticipato della società e la liquidazione dello stabilimento di Mori che, messo all’asta nel marzo del 1935, viene acquisito per 50 milioni dalla Società Nazionale dell’Alluminio (SNAL), una nuova società costituita dalla Montecatini allo scopo di partecipare all’asta, preservare i crediti liquidi verso la SIDA e la quota di pertinenza, pari all’80%, delle obbligazioni emesse dalla società.

In questo modo la Montecatini non abbandona il settore dell’alluminio e Donegani rilancia affermando: «È nostro intendimento in ogni caso di non abbandonare l’industria dell’alluminio in Italia... A questo programma siamo indotti dalla competenza tecnica che, con forte sacrificio, abbiamo ormai acquisita in questo campo e dal desiderio, che riteniamo condiviso dalle nostre Autorità, di assicurare capitale e direzioni di italiani almeno in uno stabilimento, situato in Italia, destinato alla produzione di allumina ed alluminio, di così largo interesse per l’economia nazionale e per la difesa del Paese» [16].

Subito dopo l’acquisizione la SNAL avvia una riorganizzazione dello stabilimento di Mori, la cui capacità è incrementata a 8,000 tonnellate annue.

Contemporaneamente il governo fascista interviene direttamente a reprimere le proteste della popolazione a fronte della riapertura dell’impianto, con grande soddisfazione di Donegani che, in relazione agli «intralci avuti a Mori per effetto dei danni che si facevano ingiustamente risalire alla nostra lavorazione», pochi mesi dopo può affermare [17] che «le

lamentele per questi danni sia alle cose, che alle persone sono interamente cessati in relazione ad un energico intervento dell’Autorità» [18].


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[10] Fonte Istat

[11] Costituita da AIAG nel 1928 rilevando il vecchio impianto di Bussi della Società Italiana per la Fabbricazione dell’Alluminio (SIFA), primo in assoluto in Italia essendo stato inaugurato nel 1907

[12] Costituita nel gennaio 1926 da AIAG e da un gruppo di industriali veneti

[13] Costituita da ALCOA nel 1926

[14] Costituita in origine (1920) dalla società francese Alais Forges e Camargue e poi acquisita da ALCOA nel 1928

[15] In particolare, il carbon coke, di cui il processo Haglund faceva un utilizzo pari al 25% di quello del processo Bayer.

[16] Montecatini, Assembla Generale Ordinaria (AGO) 29 marzo 1935

[17] Con tanti saluti alla pretesa, sostenuta dal Donegani a fascismo crollato, di non avere mai potuto con questo «giungere a una reciproca comprensione: io ho sempre sentito che la dittatura ed il regime che intorno ad essa si era formato, inquinando la vita spirituale del Paese ed allontanandolo dalla comunanza internazionale...»

[18] Montecatini, Verbale Consiglio d’Amministrazione (VCA) 27 luglio 1935.

La crisi economica mondiale (1929÷1935)

Martedì 29 ottobre 1929 è il giorno del grande crollo del mercato azionario di Wall Street, all’origine della Grande depressione (fig. 9), la grave crisi economica e finanziaria che sconvolgerà l'economia mondiale fino a metà degli anni ‘30.

Gli effetti recessivi sono ovunque devastanti, investendo tutti i settori economici (agricoltura, industria, servizi) e provocando un calo generalizzato della domanda e della produzione.

Il settore minerario e quelli ad esso direttamente collegati sono tra quelli più colpiti a causa della forte diminuzione della domanda di materie prime.

La Montecatini, alle prese con i processi di lancio e consolidamento nei nuovi settori dei concimi azotati e dell’alluminio, viene investita dalla crisi nel momento culminante di un periodo di grande espansione finanziaria e industriale.

Nell’Assemblea Generale Ordinaria del 31 marzo 1930, commentando i primi segnali della crisi – sovrapproduzione a livello mondiale, crollo borsistico negli USA, grandi difficoltà delle economie prettamente agricole del Brasile, dell’Argentina e dell’Australia –, Donegani si mostra nonostante tutto notevolmente fiducioso, sottolineando come «l’organizzazione industriale e agraria del nostro Paese è sana e solida... i risultati fino ad ora ottenuti... vi mostreranno che la nostra organizzazione è profondamente salda e vitale, così da poter raggiungere, anche in questo periodo di crisi, risultati industriali complessivi soddisfacenti».

Una posizione profondamente ottimistica e in linea con il sentimento (o la speranza) generale del mondo economico nazionale, ma due anni dopo, all’Assemblea del 31 marzo 1932, i toni cambiano e si fanno assai più preoccupati: «La crisi mondiale ha raggiunto nel passato anno una maggiore intensità in estensione e in profondità; nessun Paese ha potuto sfuggire, ogni ramo dell’economia è stato duramente colpito... L’attuale crisi internazionale sfugge ad ogni possibilità di controllo o di arginamento da parte dei singoli, siano essi Paesi o individui. Impossibile quindi fare previsioni o congetture di efficienza e di durata; è necessario... marcare il passo, vivere e dirigere secondo il momento. Il nostro programma di lavoro deve necessariamente ispirarsi a queste direttive.»

Tra il 1929 e il 1931, infatti, la crisi il colpisce molto duramente la Montecatini: gli utili calano tanto da non garantire l’autofinanziamento della società; molte aziende del gruppo entrano in crisi in seguito al calo della domanda, in particolare nel settore dei concimi azotati; la quotazione in borsa crolla da 289 a 82 lire (-71.63%).

Se la Montecatini riesce in qualche modo a superare la crisi più acuta molto del merito va, inizialmente, al sostegno della Banca Commerciale Italiana (Comit) e del suo amministratore delegato Giuseppe Toeplitz; successivamente, quando anche la Comit sente i morsi della crisi, Donegani riesce ad ampliare le alleanze economiche e politiche facendo entrare nel Consiglio di Amministrazione tre “pezzi da 90”: Alberto Beneduce (fig. 10)[19], che sarà il primo Presidente dell’IRI, Alberto Pirelli (fig. 11), Presidente tra le altre cose dell’Associazione nazionale fra le società per azioni (Assonime), e Antonio Stefano Benni, Presidente della Marelli e della Confindustria.

Altri aspetti da non sottovalutare, che garantiscono al Gruppo Montecatini di superare il momento di crisi più pesante e di mantenere sempre un relativamente basso livello di indebitamento finanziario, attengono alla logica strettamente industriale a cui obbedisce l’espansione del gruppo, alla concentrazione delle partecipazioni azionarie nella capogruppo e alla scelta di affidare a questa il controllo delle attività finanziarie delle associate.

Nonostante ciò, anche la Montecatini, per la prima volta dall’avvento di Donegani, si vede costretta, nella primavera del 1932, a chiedere un finanziamento di 50 milioni al Consorzio per Sovvenzioni su Valori Industriali (C.S.V.I.), erogato poi solo per 30 milioni, proprio a causa della crisi di mercato che riducono la valutazione di solvibilità dell’azienda.

Inoltre, la crisi costringe Donegani ad abbandonare la politica di alti dividendi, che nel 1929 si attestavano al 18% del capitale sociale, attraverso un percorso di riduzione che nel 1932 porterà i dividendi a solo l’8% del capitale sociale, con grandi proteste degli azionisti, per la prima volta in opposizione alla gestione di Donegani, addirittura messo in minoranza in un Consiglio Direttivo del 1931, quando la proposta di un tasso di dividendi al 10% viene bocciata e passa quella di un tasso al 12%.

Al 1932, quindi, «l’effetto combinato della depressione dei corsi azionari e del calo dei dividendi rappresentava la pietra tombale di ogni ulteriore possibilità di ottenere attraverso il mercato finanziario le risorse per continuare il processo di espansione del gruppo Montecatini. La ripresa di quest’ultimo appariva tuttavia essenziale per continuare a garantire Donegani il consenso necessario alla governabilità dell’azienda.» [20]


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[19] Beneduce fu ammesso anche nel Comitato Direttivo della Montecatini, fino ad allora riservato a Donegani e ai rappresentanti dei grandi istituti bancari nazionali ed esteri.

[20] M. Perugini F. Amatori, 2009



Fig. 9 - Il "Martedì nero" di Wall Street

Fig. 10 - Alberto Beneduce, primo Presidente dell'IRI (1877-1944)

Fig. 11 - Alberto Pirelli (1882-1971)

Il rilancio della Montecatini e il rapporto con l’IRI (1933÷1936) 

Gli effetti della crisi e la necessità di rilanciare il processo di espansione provocano un mutamento delle strategie operative della Montecatini:

La nuova strategia consente alla Montecatini di riprendere il suo processo espansivo che raggiungerà il culmine nel 1935, con una costellazione di 37 società satellite e un capitale sociale complessivo di 690 milioni.

Naturalmente, in un regime come quello italiano dell’epoca, molto aveva contato l’appoggio del governo che, a causa della crisi, «aveva bisogno della Montecatini per riorganizzare e ristrutturare il settore chimico e per sostenere il processo di sostituzione delle importazioni, che si stava in quel momento cercando di aiutare, per quanto ancora in maniera piuttosto disordinata, attraverso interventi di politica industriale e doganale.» [24]

Quasi fosse la Montecatini, nel settore privato dell’industria mineraria, chimica e metallurgica, il contraltare di quel pubblico Istituto di Ricostruzione Industriale (IRI), costituito nel 1933 con Presidente quell’Alberto Beneduce, già componente del Comitato Direttivo della Montecatini.

Nonostante gli ottimi rapporti personali tra Donegani e Beneduce, l’IRI plasmato da quest’ultimo, caratterizzato da strutture e pratiche operative tipicamente privatistiche, non poteva che finire per entrare in contrasto con una grande impresa in fase di espansione accelerata come la Montecatini, soprattutto a causa di quel gruppo attivissimo di tecnici, in grado di unire competenze professionali e attitudini manageriali al fine riorganizzare le imprese acquisite e predisporre e attuare i relativi piani di sviluppo industriali, che si era radunato in IRI sotto il Direttore Generale Donato Menichella (fig. 12) [25] e che rappresentava la principale “resistenza” allo sviluppo della Montecatini dall’interno del sistema delle imprese pubbliche [26].

Oltre al gruppo Menichella, un altro fiero oppositore delle strategie monopolistiche dell’IRI era Francesco Giordani (fig. 13), valente chimico e scienziato non all’oscuro dei metodi di gestione industriale, entrato in IRI come consulente chimico nel 1933 e nominato Vicepresidente nel 1937.

Convinto sostenitore della necessità di sviluppare tecnologie nazionali per rendere l’economia del Paese meno dipendente dall’estero e, allo stesso tempo, fautore dell’intervento pubblico in campo industriale, entrerà fatalmente in conflitto con diverse imprese private, tra cui naturalmente la Montecatini, accusata di non investire abbastanza nei nuovi processi produttivi “autarchici”.



Fig. 12 - Donato Menichella (1896-1984)

Fig. 13 - Francesco Giordani (1896-1961)


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[21] M. Perugini F. Amatori, 2009

[22] Ollomont, Italiana Prodotti Azotati, Fabbriche Riunite Agricoltori, Solfuro di Carbonio e Concimi e Anticrittogamici.

[23] Ad esempio, in campo minerario nel 1933 fu acquisita in comproprietà con la Monteponi la miniera di piombo e zinco di Montevecchio.

[24] M. Perugini F. Amatori, 2009

[25] Futuro governatore della Banca d’Italia dal 1947 al 1960

[26] Rielaborato da M. Perugini F. Amatori, 2009

Tra guerre e autarchia

Il biennio 1935-1936 è quello in cui la politica imperialista e guerrafondaia del regime fascista raggiunge il suo culmine.

Il 3 ottobre 1935, le truppe italiane, forti di circa 500,000 unità (460,000 italiani e il resto ascari eritrei e somali), al comando del Generale Emilio De Bono invadono l’Etiopia.

Grazie al grande dispiegamento di forze umane e tecniche di quella che fu definita la più grande campagna coloniale della storia, gli italiani avrebbero dovuto fare un sol boccone della resistenza etiopica, assai più scarsa per numero e tecnologia.

Tuttavia, l’accanita resistenza etiopica fu in grado quantomeno di rallentare le operazioni, come dimostra il quasi immediato avvicendamento di De Bono con il Generale Pietro Badoglio, avvenuto il 30 novembre 1935, e il fatto che ci vollero più di sette mesi per sconfiggere completamente le forze etiopiche ed entrare vittoriosamente in Addis Abeba il 5 maggio 1936 (fig. 14).

L’invasione italiana suscitò grandi potreste in tutto il mondo tanto da interessare, su denuncia della stessa Etiopia, la Società delle Nazioni.

Falliti, per responsabilità di Mussolini deciso a portare a compimento l’annessione dell’intera Etiopia, tutti i tentativi di conciliazione affidati alle diplomazie francesi e britanniche, il 10 ottobre 1935, una settimana dopo l’inizio della campagna, l’Italia fu condannata secondo l’articolo XVI dello Statuto [27] a una serie di sanzioni economiche: embargo su armi e munizioni; proibizione di concedere prestiti e crediti; divieto di esportare merci italiane e importare prodotti per l'industria di guerra.

Esperiti senza successo anche gli ultimi tentativi di riconciliazione franco-britannici, che proponevano una sostanziale spartizione dell’Etiopia avversata anche dalle stesse opinioni pubbliche nazionali, il 18 novembre 1935 le sanzioni previste entrarono in vigore, anche se non si rivelarono veramente incisive, essendo state messe in atto in modo blando, soprattutto da Francia e Inghilterra, che non bloccarono lo Stretto di Suez alla navi italiane, misura che avrebbe messo realmente in ginocchio il Paese privandolo delle principali fonti energetiche.

L’anno successivo, il 1936, fu, invece, quello dello scoppio della “guerra civile spagnola” e del conseguente intervento italiano in aiuto delle forze golpiste del generale Franco.

Il 17 luglio le forze coloniali spagnole, di stanza in Marocco, al comando del generale Mola e di altri capi militari, tra i quali spiccherà presto la figura di Francisco Franco (fig. 15), si ribellarono al legittimo governo repubblicano e dettero inizio a una sanguinosa guerra civile che, secondo le previsioni dei golpisti, sarebbe dovuta durare pochi mesi e che invece durò poco meno di tre anni, terminando il 26 marzo 1939 con l’entrata di Franco in Madrid.

Come detto, l’Italia partecipò in maniera importante alla guerra, con l’invio di un contingente di quasi 80,000 uomini.

Trattandosi di una guerra interna ad alto contenuto ideologico e politico, l’intervento italiano e tedesco nella guerra non suscitò le reazioni che avevano accompagnato l’invasione dell’Etiopia.

Al contrario, i paesi più importanti (Francia, Inghilterra, USA e URSS), sottovalutando quella che di fatto fu la prima espressione dell’intesa bellica italo-tedesca, mantennero una sorta di neutralità, lasciando ai volontari di tutto il mondo inquadrati nelle Brigate Internazionali il compito di appoggiare e difendere il legittimo governo spagnolo.

Quando, quindi, si andavano esaurendo i contraccolpi e gli effetti della Grande Crisi del ’29, la Montecatini si trova catapultata in una situazione di grande impatto, per qualità e quantità, sulla domanda interna e fortemente condizionante per i rapporti con l’esterno, in particolare riguardo alle importazioni ed esportazioni di materie prime.

Il 23 marzo 1936, in un discorso al Consiglio Nazionale delle Corporazioni, Mussolini annuncia una svolta nella politica autarchica, non più semplice strategia di difesa dettata dalle circostanze difficili in reazione alle sanzioni ginevrine, ma progetto di offesa, di potenziamento della nazione da perseguire, tramite i cosiddetti “piani autarchici” basati sugli inventari delle risorse nazionali, in modo del tutto indipendente dalle circostanze specifiche e riguardante ogni settore dell’attività produttiva italiana, senza possibilità di eccezione.

In particolare, l’azione del governo tende:

In questo quadro, la Montecatini di Donegani si rivela indispensabile per la politica autarchica del regime, fatto che le permetterà di poter procedere a una selezione sostanzialmente autonoma degli investimenti da effettuare e di ignorare tranquillamente le produzioni ritenute antieconomiche o tecnologicamente inattuabili.

Come contropartita a questa libertà di azione, sostanzialmente solo un ossequio formale al regime, alcune opere di sostegno sociale e l’autoproclamarsi come «... la tipica organizzazione industriale privata intesa a realizzare in ogni sua manifestazione e nell’insieme della sua poderosa attività... i fini autarchici dello Stato corporativo» [28].

Così, nel periodo successivo alle sanzioni la Montecatini viene considerata come una sorta di deus ex machina, in grado di compensare ogni mancanza che possa derivare dalla mancanza di importazioni dell’estero.

Con ragioni anche oggettive, in virtù del fatto che, sebbene come già sottolineato la politica autarchica dovesse riguardare ogni settore economico, in realtà i soli settori in cui erano previsti obbiettivi chiaramente quantificabili erano quelli agricoli e il settore energetico e minero-metallurgico (tab. 6, [29]), proprio quelli in cui la Montecatini occupava una posizione dominante.

Inoltre, la Montecatini, più delle altre principali industrie, godrà dei benefici (tributari, doganali e finanziari) riservati agli impianti localizzati in alcune zone industriali definite “speciali”, con ben 14 impianti e circa 10,000 addetti distribuiti tra Porto Marghera (5), Livorno (4), Bolzano (1), Ferrara (1) e Apuania (3), davanti a Fiat (9 impianti) e IRI (8).

In definitiva, si può affermare che «... nonostante buona parte del processo di diversificazione della Montecatini in nuovi settori ... risulti sostanzialmente completato già nel 1935, una ripresa degli investimenti in nuovi impianti e nuove attrezzature industriali... avvenne soltanto dal 1936 in poi. Il valore delle partecipazioni azionarie nelle società del gruppo, che era cresciuto soltanto del 6% circa fra il 1932 e il 1935, aumentò nel quadriennio successivo 1936-1939 di quasi il 42%, mentre gli immobilizzi tecnici della capogruppo passarono da una crescita dell’8,6% nel primo sottoperiodo ad un aumento del 52,8%.

Un altro indicatore molto interessante per comprendere la dimensione dell’espansione “autarchica” della Montecatini è fornito dall’andamento del personale occupato in imprese del gruppo... che passò dai 25.500 addetti del 1934 ai 50.412 del 1937 e ai 68.374 del 1940... [per] la gran parte [nei] i settori privilegiati dalla politica autarchica, ossia le produzioni minerarie e quelle chimiche per l’industria...

Si trattò di uno sviluppo impetuoso, alimentato in gran parte grazie ad un rinnovato e piuttosto robusto margine di autofinanziamento... attribuibile in buona parte... nel periodo 1936-1941... agli alti prezzi elargiti dallo Stato per le nuove produzioni – metalli non ferrosi, coke e prodotti petroliferi – al fine di garantire il rapido ammortamento dei nuovi impianti; prezzi spesso richiesti espressamente non solo dalla Montecatini, ma anche dalle altre imprese italiane, come precondizione per effettuare gli investimenti previsti dai piani autarchici» [30].

A differenza di quanto era avvenuto per il conflitto 1915-18, lo scoppio della 2a Guerra Mondiale segna, a partire dal 1941, un’interruzione del processo di “crescita autarchica”, a causa delle difficoltà di approvvigionamento, della scarsità di manodopera, delle distruzioni provocate dai bombardamenti e, dal 1943, della divisione territoriale del paese.

Nella Relazione di bilancio del 1943 si legge: «I sempre più vasti sviluppi assunti dalla guerra hanno determinato naturalmente anche profonde mutazioni nella vita economica mondiale, da cui sono discese conseguenze di grande rilievo».

Si respira, ormai, un’atmosfera di tragedia imminente e si discute l’opportunità di decentrare la gestione, nella prospettiva di uno sbarco alleato che avrebbe potuto, come avverrà, dividere in due il Paese.

Dopo la caduta del fascismo (25 luglio) e l’armistizio (8 settembre) non si può più attendere e la decisione di decentrare viene presa da Donegani e Carlo Faina (fig. 16) [31].

Il 4 ottobre 1943, quest’ultimo parte per Roma fornito di grande quantità di denaro liquido e accompagnato da 84 persone, tra dirigenti e funzionari della società, per tutelare e riorganizzare nel Centro-Sud gli impianti produttivi della Montecatini, consentendo una continuità di produzione anche dopo gli sbarchi alleati.

Il 1944 è un anno di caos, l’Italia è divisa in due: a Sud, gli alleati che risalgono dalla Sicilia e che in questo percorso incontreranno due grandi ostacoli, la resistenza tedesca lungo la linea Gustav in vicinanza di Cassino e quella che impedirà per quattro mesi alle forze alleate sbarcate ad Anzio di avanzare verso Roma; a Nord, la farsa tragica della Repubblica di Salò, fantoccio dei veri padroni dell’area, i nazisti, e la Resistenza di migliaia di partigiani italiani, di ogni età, genere e condizione sociale, contro l’invasore tedesco e i repubblichini ad esso succubi.

I tedeschi sospettano di tutti e di tutto, in particolare delle industrie che, a loro giudizio, «non collaborano».

Tra queste, in prima fila, la Montecatini e il suo capo Donegani accusati di non concedere produzione, macchinari, personale.

In ogni officina è una lotta quotidiana in difesa degli operai, molti dei quali si vogliono deportare in Germania, delle poche scorte, degli impianti.



Fig. 14 - 5 maggio 1936: le truppe italiane entrano in Adis Abeba 

Fig. 15 - Il dittatore spagnolo Francisco Franco (1892-1975)

Tab. 6 - Pianificazione e realizzazione dei Piani autarchici 1936-1941

Fig. 16 - Carlo Faina (1894-1980)

Il 3 marzo 1944, un gruppo di armati tedeschi al comando di un sottoufficiale irrompe nella sede milanese della Montecatini e arresta Donegani, il direttore generale Piero Giustiniani e alcuni altri dirigenti, con l’accusa, tra le altre, di collaborazione coi partigiani e trasferimento a Sud di parte della Montecatini.

Dopo due interrogatori e 15 giorni di carcere a San Vittore, il 18 marzo Donegani viene rilasciato. È malato di polmonite e ha una febbre elevata, tanto da rischiare di morire.

Guarisce, invece, ma pur tornando al suo posto di lavoro non ha più gli stimoli dei tempi migliori e continua ad essere oggetto di attacchi da parte dei nazifascisti, che lo accusano ancora di connivenza con i partigiani e di orientamenti filo-alleati.

Quando infine, il 25 aprile 1945, le forze alleate e i partigiani entrano a Milano liberandola, il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) spicca un ordine di cattura contro Donegani, con l’accusa sempre di collaborazione, ma stavolta con il fascismo e le forze tedesche occupanti. 

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[27]«Se un membro della Lega ricorre alla guerra, infrangendo quanto stipulato negli articoli XII, XIII e XV, sarà giudicato ipso facto come se avesse commesso un atto di guerra contro tutti i membri della Lega, che qui prendono impegno di sottoporlo alla rottura immediata di tutte le relazioni commerciali e finanziarie, alla proibizioni di relazioni tra i cittadini propri e quelli della nazione che infrange il patto, e all'astensione di ogni relazione finanziaria, commerciale o personale tra i cittadini della nazione violatrice del patto e i cittadini di qualsiasi altro paese, membro della Lega o no».

[28] Montecatini: Cinquant’anni di storia della Montecatini - Milano, 1938

[29] Rolf Petri: Storia economica d’Italia. Dalla grande guerra al miracolo economico – Il Mulino, Bologna 2002 

[30] M. Perugini F. Amatori, 2009

[31] Alla morte di Donegani, Faina ne prenderà il posto come Amministratore Delegato dal 1946 fino alla fusione con Edison nel 1964.

Le accuse di collaborazionismo a Donegani

Accusato di collaborazionismo con i nazifascisti, Donegani dapprima si sottrae all’arresto ma poi decide di consegnarsi agli inglesi.

Dopo sei settimane di carcere e vari interrogatori gli inglesi decidono di liberarlo, facendo decadere le accuse contro di lui.

Il CLN, tuttavia, le ribadisce per aver «collaborato allo sviluppo della politica economica del fascismo basata sull’autarchia, premessa indispensabile della guerra, partecipato inoltre alla costituzione di zone industriali create al solo scopo di favorire gli interessi personali di alti gerarchi, esaltato il fascismo e sostenuto la necessità di collaborare con esso nelle numerose relazioni annuali di bilancio, fatto infine della Montecatini uno dei punti di appoggio del fascismo nel preparare e nel condurre la guerra, contribuendo così con atti rilevanti a mantenere in vigore il Regime fascista.» [32]

A Donegani vengono, inoltre, imputati gli oggettivi ruoli coperti nella struttura di potere fascista, per essere stato: eletto nelle fila del PNF nella XXVII legislatura [33] (1924÷1929); confermato nelle due successive legislature (1929÷1939) per inserimento nella lista designata dal Gran Consiglio del Fascismo e sottoposta a votazione plebiscitaria; nominato Senatore del Regno d’Italia nel 1943, quando già il fascismo era ormai “agli sgoccioli”.

Donegani, che affronta il processo in clandestinità a Roma presso un convento in zona extraterritoriale, si difende soprattutto dall’accusa relativa alla politica autarchica, articolando la sua difesa su più punti:

 

Nella sua requisitoria, più simile per la verità a un’arringa difensiva, il P.M. raccoglie e condivide la tesi delle “due autarchie”: «... bisogna intendersi bene sul concetto di autarchia, la quale deve essere intesa qui nel senso ristretto di politica, di direttiva economica tendente a rendere indipendente economicamente l’Italia in tutti i settori vitali all’esistenza della nazione, e cioè a qualunque costo, stimolando e coltivando anche produzioni antieconomiche... Vi è invece un’altra autarchia, la quale si propone di dare il maggior sviluppo possibile allo sfruttamento delle risorse nazionali in quei settori in cui vi siano possibilità di creare e sviluppare attività industriali e produzioni economicamente utili e vantaggiose e perciò vitali, contribuendo con ciò al benessere generale della nazione... Questa è stata l’autarchia perseguita dalla Montecatini...» [37]

Per quanto riguarda le relazioni annuali di Donegani all’Assemblea societaria e, nello specifico, le esaltazioni dell’autarchia fascista (quindi del primo tipo, per il PM e Donegani) in esse contenute, il PM sottolinea come queste vadano valutate «tenendo conto dei tempi, o meglio delle esigenze e della moda (sic!, NdR) dei tempi, in cui l'elogio 

sperticato all’opera del Duce, le più categoriche affermazioni di conformismo alle sue direttive, le più entusiastiche manifestazioni di plauso erano di prammatica, e non corrispondevano quasi mai al vero sentimento, e, soprattutto, all’azione pratica. 

(…) L’autarchia dunque propugnata e perseguita da Donegani è stata solo l’autarchia sana, economicamente utile e vitale, che non serviva la politica ma gli interessi generali della Nazione. E non si può fargliene un addebito.» [38]

Naturalmente, anche il fatto di essere stato nel parlamento fascista per tre legislature (15 anni) ed essere stato nominato Senatore del Regno andava ascritto alla moda del tempo.

Con queste premesse, ça va sans dire, Donegani viene assolto con formula piena nel luglio 1946 e può lasciare il suo rifugio clandestino per tornare a Milano. 


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[32] Requisitoria del P.M. negli Atti del Processo a Donegani

[33] La legislatura appena successiva al delitto Matteotti (10 giugno 1924), che aveva squarciato il velo sulla reale essenza della politica fascista

[34] Dalla “Memoria in difesa di Guido Donegani”

[35] Ibidem

[36] Dalla “Lettera di Guido Donegani ai lavoratori ed agli azionisti della Montecatini”

[37] Dalla requisitoria del P.M. al processo Donegani

[38] Ibidem

La lettera ai lavoratori e agli azionisti come testamento spirituale

A quasi 70 anni è, però, un uomo deluso e amareggiato.

Si trasferisce in Liguria, nella sua villa di Bordighera, dove, nel settembre 1946, scriverà la “Lettera di Guido Donegani ai lavoratori ed agli azionisti della Montecatini”, suo testamento spirituale e professionale, in cui dichiara di «voler scindere la mia persona dall’organismo industriale da me diretto e considerarli separatamente. Ma poiché ho dedicato alla Montecatini la mia vita intera e tanta parte dell'impronta che insieme le abbiamo dato corrisponde anche al mio carattere individuale, non mi sarà possibile attenermi ad una netta separazione...».

Segue un’ampia descrizione dell’attività della “sua” Montecatini articolata in tre fasi principali: miniere di pirite e prodotti derivati dall’acido solforico; fertilizzanti azotati sintetici; prodotti chimici per l’industria.

E la soddisfazione di «Avere avuto vista lunga e in grande, avere saputo tradurre quella visione in un'economia concreta, avere cercato il successo nello sviluppo incessante della qualità e della quantità dei nostri prodotti aumentando le retribuzioni ed il tenore di vita delle maestranze quanto più venivano ridotti i costi ed i prezzi di vendita, questo è stato il segreto della nostra crescente affermazione. È un segreto modesto, una cosa presto detta quando ci si limita a enunciarla... Esso è stato il nostro solo ed autentico monopolio; monopolio della tecnica e dell’intelligenza e come tale avverso nella concezione e nella pratica ai monopoli propriamente detti...».

Infine, l’esortazione alla Società e ai suoi lavoratori: «Abbiate fede nell'industria chimica e nella tecnica moderna, perché in esse sta un avvenire migliore per il nostro disgraziato Paese. Abbiate fede nello spirito e nella libertà di intrapresa e dell'iniziativa privata alle quali quella industria e quella tecnica moderna sono esclusivamente dovute. Su esse, appoggia la nostra, anzi è giunta l'ora di dire “ la Vostra” Società; che è vostro dovere non solo continuare a difendere, ma sviluppare e potenziare in modi e proporzioni che oggi non è neppure dato immaginare... Io spero che così accadrà ed auguro che fra un terzo di secolo, altri subentrando al mio posto possa..., come io ho detto riferendomi al lontano 1910... dire a sua volta “Nel lontano 1946, la Montecatini aveva appena...”».

Dopo alcune settimane di agonia, Donegani muore a Bordighera all’alba del 16 aprile 1947, venti giorni dopo aver compiuto 70 anni.

Bibliografia