Minerali metalliferi in Sardegna

La distribuzione dei siti a livello territoriale


In fig.1 è mostrata la distribuzione territoriale, articolata a livello comunale, dei 268 siti di minerali metalliferi in Sardegna.

Come è stato già mostrato in tab. 2 della pagina Sardegna, i siti si concentrano principalmente nelle province di Carbonia-Iglesias (122 siti), Cagliari (81) e Medio Campidano (30).

Meno presenti in provincia di Sassari (11), anche se con presenza di un miniera storicamente importante (Argentiera della Nurra).

Fig. 1 - Distribuzione territoriale a livello comunale dei siti di minerali metalliferi in Sardegna

Inquadramento geologico e giacimentologico

Come si osserva in fig. 1, a parte alcune zone isolate (Gadoni, Lula), le concessioni di minerali metalliferi si concentrano in tre distinte aree geografiche:


Dal punto di vista geologico-minerario, tuttavia, la situazione appare più articolata poiché, come sarà specificato nei successivi paragrafi, all’interno delle singole aree geografiche si individuano differenti caratteri geo-minerari.

Area della Nurra

In tale area, che raggruppa complessivamente 10 siti, si individuano tre tipologie di minerali metalliferi estratti:

[*]   Tuttavia, l'art. 3 della Determinazione n. 155 del 06 marzo 2018 dichiara che il giacimento  può essere oggetto di nuova concessione

Area Iglesie nte-Guspinese 

In quest’area ricadono 145 siti, articolati in due sub-aree:

L’ipotesi prevalenti riguardo la genesi delle mineralizzazioni è di tipo sinsedimentario, con successivi fenomeni di ricircolazione per dissoluzione e riprecipitazione selettiva con riconcentrazione; ipotesi suffragata anche dalle condizioni di giacitura dei corpi mineralizzati che si presentano in masse lenticolari allungate strato-concordanti, in masse o colonne allineate secondo le principali direttrici tettoniche o in masse informi quali riempimento di cavità carsiche.

La maggior parte dei filoni di origine idrotermale risulta incassata negli scisti del complesso scistoso-quarzitico siluriano (Unità dell’Arburese) e solo alcuni nel granito.

In questa sub-area è concentrata la maggior parte (9 su 14) dei siti con coltivazione di Molibdenite e Wolframite.

Area Sarrabus-Gerrei

Dal punto di vista della coltivazione di minerali metalliferi, l’area SE della Sardegna si caratterizza per lo sfruttamento di giacimenti argentiferi (Sarrabus) e di antimonio (Gerrei).

In particolare:


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[1] Ordinati per numero di siti, come per la sub area successiva.


Cenni storici e importanza sociale dell’attività mineraria in Sardegna

Dalla preistoria all'Unità d'Italia

Anche se attualmente l’attività mineraria sarda dipende, sostanzialmente, dalla coltivazione e sfruttamento di giacimenti di minerali ceramici e/o industriali, per numero ed evoluzione storica essa è fortemente connessa alla presenza di siti di estrazione di minerali metallici, con particolare riguardo a piombo, zinco e argento (fig. 2 pagina Sardegna).

Nell’antichità la Sardegna era, infatti, definita anche come “isola dalle vene d’argento”, per rimarcare come il suo sottosuolo fosse ricco di minerali di quel prezioso metallo.

Fu proprio per queste caratteristiche, legate all’estrazione delle sue risorse minerarie, che la Sardegna fu fin dall’estrema antichità una delle mete privilegiate dei traffici commerciali del Mediterraneo occidentale, principalmente da parte di Fenici e Cartaginesi.

Oltre all’argento, in gran parte sotto forma di galena argentifera, occorre ricordare anche il ferro, presente in quantità considerevoli nel versante occidentale dell’isola, principalmente nell’area della Nurra.

Dopo Fenici e Cartaginesi, furono i Romani a dare un vero e proprio impulso all’attività mineraria, con nuove tecniche di sfruttamento e la costruzione di fonderie per i metalli.

Il rilievo economico dell’impresa mineraria e metallurgica in età romana si coglie chiaramente se si considera l’esistenza di tre città che prendono il nome da miniere metallifere: Sulci nel SO, scalo del piombo e dell’argento prodotto dalle vicine miniere sulcitane; Ferraria, centro di riferimento per le miniere ferrose del Sarrabus; Metalla, nella zona del tempio di Antas, oggi in comune di Fluminimaggiore (Guspinese-Arburese).

Con la decadenza di Roma seguì anche per la Sardegna un periodo di stasi dell'attività e solo verso la fine del XIII secolo, quando la zona meridionale dell’isola passò sotto il controllo di Pisa, si ebbe un nuovo rilancio delle coltivazioni minerarie.

È di questo periodo la pubblicazione di un compendio denominato “Breve di Villa di Chiesa”, articolato in quattro libri, l'ultimo dei quali raccoglie le norme che regolamentano l’attività mineraria (industria delle argentiere) sotto tutti gli aspetti: dall’estrazione alla lavorazione sino alla commercializzazione del metallo, le forme di finanziamento, la proprietà delle miniere e la disciplina dei rapporti di lavoro.

Nel 1323 l’isola passò sotto il dominio dei re d’Aragona, che dapprima confermarono gli statuti pisani, salvo trasferire [2] nel tempo gran parte delle proprietà minerarie gestite dai pisani al regio demanio.

Intanto, prendeva vigore anche in Sardegna il principio che dominava anche in altre parti d’Europa relativamente alle miniere, cioè che esse costituissero una proprietà distinta da quella del suolo, e spettassero di diritto allo Stato, ossia al principe.

In forza di tal diritto, detto di regalia, quando lo Stato non gestiva direttamente le miniere, ne concedeva l’esercizio a privati mediante un canone annuo o tributo, per lo più proporzionale alle quantità estratte.

Intorno alla metà del XV secolo nel territorio di Iglesias le miniere erano per lo più gestite dal demanio ma, sia per l’esaurimento delle vene mineralizzate più superficiali sia per una mancanza di competenze e capitali impegnati, l’attività estrattiva andò in profonda crisi.

Nonostante i tentativi di rilancio la situazione non migliorò e, anzi, andò aggravandosi nel 1469, in seguito al matrimonio tra Ferdinando d'Aragona e Isabella di Castiglia che unificò i due Regni.

La presenza castigliana nel governo spagnolo, meno attenta alle questioni sarde, e la successiva scoperta dell’America dirottarono, infatti, l’interesse verso i ricchi giacimenti di metalli e pietre preziose delle terre americane, mentre la Sardegna manteneva la sua importanza soprattutto per la produzione cerealicola.

Nei secoli XVI e XVII le miniere seguitarono a essere considerate proprietà dello Stato, il quale ne disponeva in favore dei privati col mezzo di concessioni e di privilegi per un numero determinato di anni.

L’attività, tuttavia, si mantenne a livelli di pura sussistenza con produzioni molto basse.

A partire dal 1720, con il passaggio dell’isola sotto il controllo dei duchi di Savoia, l’attività estrattiva riprese nuovamente, caratterizzata da una politica concessionaria a società che ottennero l’esclusiva mineraria su tutto il territorio regionale.

Nel primo ventennio il monopolio fu acquisito dalla compagnia dei cagliaritani Nieddu e Durante, cui seguì il monopolio trentennale della società controllata da Mandel, console svedese a Cagliari, e dal negoziante inglese Brander.

Tale società ottenne il controllo anche della fusione del minerale, costruendo una fonderia lungo il rio Leni a Villacidro che poteva competere anche con le migliori fonderie tedesche.

Scomparso il Mandel nel 1759, le miniere e la fonderia passarono sotto la soprintendenza del Belly, un ufficiale di cavalleria, che proseguì i lavori nella zona di Montevecchio, i cui minerali erano trattati nella fonderia di Villacidro, e attivò la coltivazione nell’area di Monteponi.

Nel suo ruolo il Belly «ebbe la men felice idea di valersi dell’opera di 400 forzati, fatti venire dal bagno di Villafranca. Intorno questa idea Giuseppe Cossu, scrittore fecondo di cose sarde, scrisse d’incarico regio una memoria colla quale, confortato dall’esempio dei romani che applicarono gli schiavi al lavoro delle miniere, ne pro­poneva l’accettazione. I fatti provarono quanto ciò fosse poco conveniente allo svolgimento dell’ industria mineraria; e quanto poco vantaggioso alla regia finanza questo sistema.» (Quintino Sella, 1871)

Contemporaneamente, il conte del Castillo, messosi alla testa di una società privata composta da sardi e continentali, ottenne la concessione di coltivare le miniere di piombo del Sarrabus e di ferro di Arzana, dove fu costruita una grande fonderia che attirò dal Continente, in particolare dal Piemonte, numerosi fabbri ferrai.

Le malsane condizioni ambientali, che causarono la morte di molti di essi e consentivano il lavoro per soli sei mesi all’anno, e alcuni episodi di malversazioni ne provocarono la chiusura già nel 1770.

Nonostante le notizie di scoperte di antimonio a Macomer e a Ballao, che peraltro non dettero i risultati sperati, nel 1782 il Belly, dopo una visita alle miniere, ne confermava lo stato di profonda crisi.

Dopo la morte del Belly, avvenuta nel 1791, fu inviato per un’ispezione delle miniere lo scienziato torinese Carlo Antonio Napione, da poco nominato membro del Consiglio delle Miniere, che ne confermò le condizioni critiche, sollecitando l’adozione di progetti di riforma e di rilancio, con particolare attenzione alle miniere della Nurra, abbandonate fin dall’epoca pisana.

Tuttavia, le agitate condizioni politiche internazionali di fine XVIII secolo dirottarono le attenzioni su ben altre questioni e nel 1805 fu sospesa la coltivazione delle miniere sarde per “difetto di fondi”, come riportato in un dispaccio di Vichard di Saint-Réal, nominato nel 1803 sovrintendente generale delle miniere.

L’anno seguente, il conte Eduardo Vargas di Kiel domandò la concessione di tutte le miniere dell’isola per 30 anni e il 22 aprile venne sottoscritta la convenzione fra l’intendente generale del Governo e il Vargas, rappresentante di una società che comprendeva anche il barone Schubart, rappresentante di Danimarca a Firenze, di Samuele Molco, direttore della fonderia reale di Pisa, e di Giuseppe Maria Serra, ministro del Culto del bonapartista Regno di Napoli.

Nonostante le speranze iniziali, l’illusione durò solo pochi anni e già nel 1809 il Governo dichiarò la decadenza della società dalla concessione.

Dopo due decenni di sostanziale abbandono, nel 1832 il Governo, su proposta dell’ispettore Carlo Maria Despine direttore delle reali miniere e fonderie di Savoia, nominò alla direzione e sorveglianza degli studi e lavori minerari l’ingegnere del Reale Corpo delle Miniere Francesco Mameli, sardo ma mandato a compiere i suoi studi mineralogici a Moutiers, in Savoia.

Il Mameli, fondandosi anche sull’opera Voyage en Sardaigne [3] del Generale Alberto La Marmora e sull’annesso Atlante con l’indicazione delle ricerche e delle coltivazioni in atto, rilanciò l’interesse sulla Sardegna mineraria invocando provvedimenti in grado di risollevarne le sorti [4].

Partendo dall’analisi della crisi in atto, che per il Mameli era dovuta principalmente all’avidità e all’incompetenza delle compagnie private concessionarie, egli sostenne la necessità della statalizzazione del settore minerario e di una nuova legislazione ispirata a quella dei principali stati europei (Stati tedeschi, Svezia, Russia, Francia e Inghilterra).

I suggerimenti del Mameli, che come Ingegnere capo del circondario della Sardegna aveva operato prevalentemente nella miniera di Monteponi, cercando di migliorare le condizioni dei cantieri di coltivazione e quelle di vita dei minatori, non trovarono immediata applicazione pratica in campo legislativo.

Solo il 22 ottobre 1836 fu emanato un manifesto della reale Giunta patrimoniale che riportava le norme per la concessione delle miniere metallifere a società private:

 

Bisognerà, però, aspettare il Regio Editto del 30 giugno 1840, per vedere affermata la separazione della proprietà del suolo da quella del sottosuolo, considerando quest’ultimo come patrimonio esclusivo dello Stato, il quale poteva accordare concessioni, privilegiando lo scopritore della miniera e/o il proprietario del suolo.

Ma tale editto era valido esclusivamente per gli Stati di Terraferma e solo con decreto del 6 settembre 1848 fu esteso alla Sardegna.

Rispetto al manifesto del 1836 le principali modifiche riguardavano:

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[2] Anche usando a pretesto alcuni episodi di ribellione al dominio spagnolo, come quello del 1353 a Iglesias.

[3] Pubblicata in prima edizione nel 1826 e poi ripubblicata ampliata e articolata in tre parti (Geografia fisica e umana, Antichità e Geologia) tra il 1839 e il 1857.

[4] Francesco Mameli: Relazione di un viaggio in Sardegna compiuto nel 1829 dall’ing. Francesco Mameli del Corpo Reale delle Miniere, Associazione Mineraria Sarda, Iglesias 1902.

Dall'Unità d'Italia alla 2a guerra mondiale 

Fu con tale patrimonio legislativo, modificato e completato dalla successiva legislazione mineraria del 20 novembre 1859, che il settore minerario sardo iniziò il suo grande sviluppo in conformità con le proprie potenzialità.

La separazione della proprietà del suolo da quella del sottosuolo rese possibile svincolare le concessioni minerarie dalle pretese dei proprietari terrieri, innescando un processo economico che richiamò nel bacino minerario sardo ingenti investimenti di capitali da tutta Europa.

I risultati furono da subito assai importanti e già al 30 dicembre 1870 erano state concessionate o scoperte 53 miniere, di cui 50 di minerali metalliferi e 3 di lignite picea (tabb. 1, 2).

Nel decennio successivo la produzione media annuale quasi triplicò (tab. 3), passando dalle 42,245 tonnellate degli anni ’60 alle 117,560 tonnellate degli anni ‘70 del XIX secolo (+ 178.28%), mentre l’occupazione media crebbe da 5,235 a 9,087 unità (+ 73.58%) .

La scoperta, nel 1864, di nuovi consistenti giacimenti di calamina (sorosilicato di zinco) e l’alto prezzo dei minerali sul mercato internazionale, che rese molto lucrosa l’attività estrattiva, fece accorrere nell’isola anche le maggiori società minerarie europee, come la belga Vieille Montagne, le francesi Société Anonyme des Mines de Malfidano e Société Civile des Mines d’Ingurtosu et Gennamari, l’inglese Gonnesa Mining Company Ltd..

Queste società e molte altre straniere di dimensioni più piccole connotano il sostanziale carattere “colonialista” dell’attività mineraria in Sardegna all’epoca, dove sopravvivevano, tra le italiane con dimensioni significative, le sole Società Monteponi e Montevecchio.

Riporta una relazione ufficiale piemontese del 1858 a firma Despine dal titolo “Notizie statistiche sull’industria mineraria sarda” [5]: «In questa attività industriale, occorre rammaricarsi che le province sarde non abbiano giocato alcun ruolo... Ma, da un lato, la facilità di esportare via mare i minerali e i materiali sul continente, dall’altro, le difficoltà di reperire mano d’opera locale e i problemi che si possono far sentire in molte località, saranno sempre un ostacolo a uno sviluppo paragonabile a quello delle nostre province continentali».

Il problema della mano d’opera locale specializzata era particolarmente significativo in una regione di tradizione contadina e pastorale, dove mancavano non solo le competenze tecniche, ma anche un qualsiasi retroterra di cultura industriale. La maggior parte dei lavoratori sardi proveniva dalle campagne circostanti e dalle zone interne, per lo più dai Campidani e dalle Barbagie, dove più difficile era diventata la situazione economica dopo l’Unità d’Italia.

Alla ricerca di un’occupazione stabile e comunque retribuita, un gran numero di braccianti fu impiegato in attività non specializzate, complementari al lavoro di miniera vero e proprio: boscaioli che fornissero, dalle foreste dell’Iglesiente, il legname necessario per armare le gallerie, carbonai che producessero il combustibile necessario alle attività di trattamento, manovali che lavorassero all’esterno alla frantumazione del minerale, carriolanti per il trasporto del minerale, personale di fatica generico.

I lavori minerari specialistici erano, invece, affidati a minatori provenienti dal continente, in particolare dalla Toscana, dal Piemonte e dalla provincia di Bergamo.

Al riguardo l’ingegnere Eugenio Marchese nel suo “Cenno sulle ricchezze minerali dell’isola di Sardegna” del 1862 così scrive: «L’operaio sardo uso a cibarsi molto parcamente, e non avente lunga abitudine di esercizi continuati di forza muscolare, non possiede, nell’opera faticosa del minatore, la costanza dell’operaio continentale e non riesce a compiere la stessa quantità di lavoro, il qual fatto apparisce chiaramente nei lavori a cottimo, nei quali lo stimolo del guadagno spinge l’operaio continentale ad un lavoro continuato ed eccessivo, ciò che non succede nell’operaio isolano» [6].

Per altri [7] «il sardo comincia a fare il minatore in alcuni distretti (Iglesias, Guspini) ma è inferiore in forza e capacità, abbandona difficilmente il proprio villaggio ed è troppo portato a celebrare tutte le feste del calendario... riesce bene nei lavori che non richiedono sforzi rilevanti e continuativi e quando si prendono giovani ci si può aspettare molto dalla loro intelligenza».

In queste condizioni, poiché molte aree minerarie sarde, specialmente in prossimità del mare, erano di tipo paludoso e in esse imperversava la malaria, l’attività mineraria era limitata al periodo invernale, mentre in estate per sfuggire alle febbri malariche i minatori continentali tornavano ai loro paesi.

Naturalmente la gerarchia lavorativa diventava gerarchia salariale che a sua volta si traduceva in gerarchia sociale.

Gli operai sardi vestivano diversamente, mangiavano diversamente, dormivano e abitavano diversamente. Risparmiavano la maggior parte della loro retribuzione, a detrimento delle loro forze e della loro salute, per inviarlo alle famiglie, spesso numerose e sempre poverissime. E morivano in misura molto superiore agli altri nei freddi mesi invernali.

Insomma, erano come “immigrati” a casa loro!

Un rimedio, seppur parziale, a questa situazione fu rappresentato dall’istituzione a Iglesias, con RD del 10 settembre 1871 e dietro impulso di Quintino Sella, di una scuola mineraria per la formazione di tecnici di miniera e di operai specializzati.

Un’altra particolarità della realtà mineraria sarda di fine XIX e inizio XX secolo era l’alta percentuale di impiego di donne e ragazzi nell’attività mineraria svolta all’esterno delle gallerie, in particolare per la cernita e il lavaggio del minerale, che tra il 1891 e 1895 era stimata intorno al 14% (8.3% di donne, 5.7% di minori).

Agli inizi degli Anni Ottanta giunse improvvisa la crisi, causata sia dal crollo dei prezzi del piombo e dello zinco per sovrapproduzione sul mercato internazionale che dalla crescita dei costi di produzione per il progressivo impoverimento dei giacimenti più importanti.

Tuttavia, pur nel ridimensionamento produttivo, i profitti delle società minerarie più importanti e strutturate (Montevecchio, Monteponi, Malfidano) si mantennero elevati ed esse operarono nuovi investimenti per migliorare le tecnologie, in particolare di trattamento del minerale, e accrescere la competitività.

Tutto ciò portò a una lenta ma graduale ripresa dell’attività estrattiva a partire dal 1885, lasciando sul terreno della crisi le piccole e medie società minerarie con una conseguente concentrazione oligopolistica in cui, oltre alle tradizionali società Monteponi e Malfidano, predominavano la società Pertusola Ltd. che aveva assorbito la United Mines Company Ltd. e la Gennamari-Ingurtosu, la Società di Montevecchio e le belghe Società Anonima di Nebida e Società Metallurgica di Boom.

Il 1896, con il nuovo aumento dei prezzi di piombo e zinco sul mercato internazionale, segnò l’uscita dalla crisi, con il numero di occupati che arrivò a superare per la prima volta le 12,000 unità nel 1898 (tab. 3).

Il nuovo secolo si apriva, quindi, con grandi prospettive per l’economia mineraria sarda, caratterizzata da accentramento aziendale in poche grandi società, alta tecnologia estrattiva e di trattamento, personale tecnico di prim’ordine.

Tutto ciò si inseriva, tuttavia, in un quadro che vedeva l’Italia come uno dei paesi europei con la legislazione sociale più arretrata, né le società minerarie si mostravano contente di interventi statali in questo campo, se l’ingegner Arturo Ferrari, direttore della miniera di Malfidano, dichiarava nel marzo 1900: «L’industria mineraria... non chiede nulla per sé allo Stato; se un desiderio deve esprimere è che lo Stato la lasci vivere tranquilla... non legiferi sulla industria come ha finora fatto con imperfette e infelici disposizioni sul lavoro dei fanciulli, sulla polizia dei lavori, sull’impiego degli esplodenti, sugli infortuni... tenga conto delle condizioni diverse in cui nelle diverse regioni d’Italia le industrie si sviluppano e progrediscono».

Se dal periodo 1860-1869 a quello 1900-1907 la produttività del minatore sardo era aumentata, anche grazie alle migliori tecnologie utilizzate, da 8.1 a 13.3 tonnellate annue, molto meno erano cresciute le tutele sociali: l’organizzazione della società e soprattutto la condizione della maggior parte della classe operaia iglesiente risultavano ancora estremamente mediocri.

In tutto l’Ottocento gli interventi di legislazione sociale a favore dei minatori si riducevano a pochi provvedimenti:

 

Se lo Stato interveniva poco e male nella questione operaia, ancora più labile era l’intervento del padronato industriale; di conseguenza i problemi enormi dei minatori sardi, il cui movimento si andava organizzando in quegli anni in Iglesiente, si incancrenirono fino al punto che nel primo scorcio del nuovo secolo esplosero drammaticamente in tumulti e dimostrazioni anarcoidi, che provocarono misure di polizia durissime contro i lavoratori, su cui pesava anche la mancanza di una tradizione sindacale capace di incanalare in maniera costruttiva le proteste.

Per lungo tempo l’unica società operaia di mutuo soccorso esistente nel bacino minerario fu, infatti, quella di Iglesias, fondata dall’imprenditore locale Sanna Nobilioni, volutamente spoliticizzata e sostanzialmente controllata dagli imprenditori minerari.

Solo negli ultimi anni del secolo, grazie alle prime lotte sindacali dei battellieri di Carloforte organizzati da Giuseppe Cavallera, un medico socialista della provincia di Cuneo trasferitosi in Sardegna dopo aver vinto una borsa di studio presso la facoltà di medicina di Cagliari, la coscienza di classe e le idee socialiste cominciarono a diffondersi anche tra i minatori sardi.

I battellieri guidati da Cavallera intrapresero un braccio di ferro durato più di tre anni per combattere il monopolio di alcuni imprenditori nel settore del trasporto dei minerali per via mare, diventando un esempio mitico da seguire in tutto il bacino minerario, attraverso la diffusione nelle miniere di un analogo modello di organizzazione politica e sindacale, che ricalcava le esperienze delle avanguardie operaie del Nord Italia.

In tutte le principali miniere (Buggerru, Nebida, Masua, Gonnesa, Guspini, Iglesias, Carloforte) sorsero le leghe di resistenza socialista, circa 4,000 associati da Cavallera alla Federazione Regionale dei Minatori, senza, peraltro, che le istanze ideologiche venissero recepite dalla massa degli operai, in gran parte sensibili solo a rivendicazioni di pura natura economica e sindacale.

Questo prevalente carattere “impolitico” della militanza sindacale si manifestò con grande evidenza durante le vertenze sindacali del settembre 1904, in cui prevalse da un lato lo spontaneismo, dall’altro l’incapacità di resistenza nella lotta, non adeguatamente supportata ideologicamente.

Intervenendo sull’Avanti, Cavallera affermava: «Le leghe dei minatori in queste manifestazioni avevano ben poco a vedere: tutti gli scioperi, eccezion fatta per quello di Nebida, si proclamarono al di fuori dell’organizzazione, la quale a dire il vero raduna intorno a sé un numero ancor molto scarso di aderenti. Però l’opera dei vari segretari delle leghe e quella del segretario della Federazione erano richieste insistentemente in ogni sciopero, non solo dagli operai, che dopo la proclamazione si trovavano generalmente in una via senza uscita; ma, più o meno direttamente, dagli stessi direttori di miniera e dalle autorità, che conoscendo l’ascendente dei socialisti sugli operai si raccomandavano per il mantenimento dell’ordine più ad essi che alle centinaia di carabinieri ed alle decine di delegati».

Lo stesso tragico episodio dell’eccidio di tre minatori [9] alla miniera Malfidano di Buggerru (fig.2), descritto anche da Dessì in Paese d'Ombre (Premio Strega 1972), si inserisce in questo quadro, ribadito due anni dopo dall’ondata di ribellismo popolare che investì l’intera Sardegna, minatori in testa vittime di nuovi eccidi (fig. 3) a Nebida (21 maggio 1906, 2 morti) e Gonnesa (21 maggio 1906, 3 morti).

In seguito a tali fatti, il 3° governo Giolitti, insediatosi proprio a maggio 1906, promosse un’inchiesta parlamentare sulle condizioni dei minatori sardi, nella cui relazione preliminare si legge: «Insistentemente si afferma che le condizioni economiche, igieniche ed intellettuali dei lavoratori del sottosuolo sono tristi; che essi sono scarsamente retribuiti della penosa opera loro; che le loro mercedi permangono le stesse, se non subiscono minorazione, quantunque il valore totale della produzione complessiva segni aumento e non diminuzione. Si aggiunge che al caro viveri, per sé stesso rilevantissimo, a causa o dell`improduttività del terreno, o della esportazione, o della lontananza dai centri principali di produzione, va unito, pei minatori, il dovere di sottostare all’adozione del truck-system [10]; che essi vivono in cameroni luridi, senza aria e senza luce, esposti alle più perniciose infermità; che molte famiglie di minatori sono ricoverate in capanne, il cui agglomerato è contro ogni principio d’igiene e d’umanità; che si difetta di acqua potabile; che sono cadenti le scuole minerarie; che non è strettamente osservata l’applicazione della legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli e quella sugli infortuni; e si domandando, in nome della civiltà e della prosperità economica, rimedi radicali ed energici».

La commissione d’inchiesta nominata allo scopo indagò utilizzando i risultati di ricerche recenti di sicura imparzialità e affidabilità, come le statistiche sulle condizioni dei minatori italiani prodotte dall’Ufficio del lavoro.

Per gli aspetti specifici si puntò sulla raccolta empirica del maggior numero possibile di testimonianze e di documenti prodotti dalle persone interrogate, ma anche sull’acquisizione sistematica di dati sui contratti di lavoro, sulle istituzioni sanitarie, sulle malattie sociali, sull’ambiente economico e sociale delle miniere.

A conclusione dei lavori, i cui risultati furono pubblicati tra il 1910 e 1911, emerse un quadro ben rappresentato dalle principali richieste presentate dalle organizzazioni dei minatori:

 

Di queste, quelle d’ordine legislativo e sociale furono in qualche misura affrontate subito, mentre le questioni di natura economica rimasero a incancrenire, sia per la caduta precipitosa dei prezzi dei metalli dopo il 1908 (-37% per il piombo, -22% per lo zinco, -20% per l’argento), che per la ridotta capacità d’intervento dei vertici del movimento operaio, profondamente diviso tra le istanze rivoluzionare delle organizzazioni cagliaritane e quelle riformiste dell’Iglesiente.

Lo scoppio della 1a guerra mondiale ebbe pesanti ripercussioni sull’industria mineraria sarda, che stava tentando di uscire dalla crisi degli anni precedenti.

Fortemente legata, per interessi economici e finanziari, ai mercati tedesco, francese, belga e inglese, non riuscì a parare il colpo e molte miniere a capitale straniero chiusero o rallentarono sensibilmente la produzione. L’ondata di licenziamenti fu massiccia: a metà agosto del 1914 i minatori disoccupati erano già oltre 6,000, su 18,000 circa impiegati quell’anno nel bacino minerario.

In tale contesto, le amministrazioni comunali socialiste appena insediate (Iglesias, Gonnesa, Domusnovas, Fluminimaggiore, Portoscuso, Calasetta e Carloforte) dettero una prova di buongoverno, tanto da accumulare un patrimonio rilevante di credibilità politica e consenso di massa, impegnandosi nel risanamento finanziario dei Comuni, attraverso la riduzione delle spese superflue e una più equa ripartizione dei prelievi fiscali, e nell’opera di assistenza ai minatori disoccupati e alle loro famiglie con l’apertura di cucine economiche, la concessione di sussidi, il finanziamento di lavori pubblici per l’impiego della manodopera disoccupata.

L’entrata in guerra dell’Italia provocò un’ulteriore svolta: da un lato la crescente richiesta di piombo, zinco e carbone, dall’altro la coscrizione di massa ridussero a zero i livelli di disoccupazione nelle miniere, senza, peraltro, che la ripresa occupazionale si accompagnasse al miglioramento della condizione economica degli operai, i cui salari rimasero sostanzialmente bloccati a fronte di un forte processo inflattivo, soprattutto a causa del regime giuridico autoritario cui era assoggettata l’industria mineraria, considerata industria “di guerra”, che impediva lo svolgersi delle normali dinamiche sindacali.

Tutto fu rimandato al dopoguerra, quando nel cosiddetto “biennio rosso”, 1919-1920, in Iglesiente come nel resto d’Italia, scoppiò una crisi economica e sociale assai acuta.

Le vertenze sindacali, che i minatori aprirono sotto la direzione della Federazione Minatori di Sardegna, sfociarono in scioperi imponenti e disciplinati in tutte le miniere del circondario che, però, crearono allarme nell’opinione pubblica borghese che vedeva posta in seria discussione la sua egemonia politica ed economica nel bacino minerario. Di tale sentimento “di paura” furono vittime anche le autorità e le forze dell’ordine che reagirono violentemente provocando, l’11 maggio 1920 a Iglesias, un nuovo eccidio con 7 minatori morti e 26 feriti.

Si ottennero, comunque, risultati significativi in vari settori, in particolare:

 

Le aziende minerarie che avevano sostanzialmente subito le conquiste sindacali dell’anno prima, tornarono alla carica nel 1921 in concomitanza alla nuova crisi del settore innescata dall’ennesima caduta del prezzo di piombo e zinco sui mercati internazionali.

Fu soppresso il lavoro straordinario, istituiti nuovi turni di lavoro, licenziati molti minatori e chiuse miniere anche di grandi dimensioni come Nebida, Monte Onixeddu, Gennamari-Ingurtosu. Venne ridotto il salario che tornò sostanzialmente al livello pre-accordo, si affermò tra i minatori un senso di distacco dalla federazione sindacale, aggravato dalle lacerazioni politiche del movimento socialista, certificate dalla scissione comunista di Livorno.

A ciò si aggiungevano le violenze delle squadracce fasciste che avevano cominciato a imperversare anche in Sardegna, spalleggiate dalle forze dell’ordine e dagli imprenditori minerari e agrari. Le spedizioni punitive nei villaggi di miniera, gli scontri fisici nelle piazze, le azioni dimostrative degli squadristi divennero cronaca quasi quotidiana in tutto il circondario minerario.

Dopo la marcia su Roma (28 ottobre 1922) l’intesa tra capitale minerario e governo Mussolini divenne totale: le misure doganali protettive e lo sviluppo della tecnologia, dovuto ad un accresciuto impiego di capitali, assicurarono un buon andamento della produzione a quelle grandi società che erano rimaste in attività, fino alla grande depressione del ‘29 che colpì duramente il settore minerario, passato dagli 11,000 addetti del 1929 ai 4,500 del 1933, l’anno della crisi più acuta con una produzione complessiva di 110,000 tonnellate (80,000 di zinco e 30,000 di piombo), valori in manodopera e produzione che riportarono il settore agli anni ’60 e ’70 del XIX secolo.

La politica autarchica del governo fascista servì ad attenuare i colpi della crisi, consentendo la sopravvivenza delle miniere e la coltivazione di nuovi minerali oltre a quelli di piombo e zinco: rame, stagno, nichel, antimonio e, soprattutto, il carbone del Sulcis.

Tab. 1 - Siti concessionati al 1870 (Sella, 1871)

Tab. 2 - Quadro Ferrua di classificazione delle giaciture (Sella, 1871)

Tab. 3 – Produzione media annuale (a) e occupazione annuale (b) dal 1860 al 1910 (Manconi, 1986)

Fig. 2 - Targa commemorativa dell'eccidio di Buggerru

Fig. 3 - Estratto dell’Avanti di Martedì 5 giugno 1906

A questo scopo nacquero due nuovi enti di diritto pubblico, l’Azienda Minerali Metallici Italiani (AMMI) e l’Azienda Carboni Italiani (ACAI).

Alla fine del 1938 il logico coronamento della politica autarchica del regime fascista fu la fondazione di Carbonia, mentre nel 1939 venne istituito presso l’Università di Cagliari il corso di Ingegneria Mineraria, che garantì a un sempre maggiore numero di sardi la professione di ingegnere minerario, senza la necessità di doversi trasferire in Continente.

Con l’entrata in guerra dell’Italia nel 1940, la Sardegna subì le conseguenze del suo isolamento geografico, che non le consentiva collegamenti in entrata e in uscita con le sedi centrali in Nord Italia e con il mercato continentale.

Oltre alle conseguenze direttamente produttive, questa situazione rendeva difficile anche le attività di semplice manutenzione degli impianti e dei cantieri minerari, mettendo a rischio anche l’eventuale ripresa del dopoguerra.

In queste condizioni, la sopravvivenza delle miniere fu assicurata utilizzando i magazzini e le officine per produrre manufatti che, date le condizioni in essere, venivano venduti direttamente in Sardegna.

In questo quadro di abbandono, che riguardava anche il personale direttivo, in gran parte richiamato in continente, fu estremamente importante il ruolo svolto dal professor Mario Carta, allora a capo del Distretto minerario di Iglesias, che costituì uno staff dirigenziale, chiamando alle responsabilità di direzione delle miniere tre tecnici della Carbonifera Sarda rimasti in Sardegna e Giorgio Carta, giovane ingegnere sardo che svolgeva la sua attività nella miniera di Monteponi, supportati, nei posti di minore responsabilità, da ingegneri e tecnici sardi.

Nel 1943, dopo la liberazione da parte degli Alleati, le miniere del Sulcis, che avevano un organico di qualche migliaio di addetti, ripresero una limitata produzione. L’alta sorveglianza fu affidata al professor Carta e a una Commissione alleata formata da tre tecnici.

Il comando alleato, che attribuiva grande importanza al rilancio di Carbonia e della produzione carbonifera, si avvalse di maestranze e tecnici locali che alla fine di quella fase “eroica” garantirono la sopravvivenza di miniere che negli anni successivi diedero un contributo fondamentale alla ricostruzione nazionale.


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[5] In francese nell’originale (Notice statistique sur l’industrie minérale des Etats sardes, pag. 181), a sottolineare tale carattere coloniale.

[6] Commento di stampo razzista, conforme allo spirito lombrosiano del tempo.

[7] L’ingegnere francese Leon Goûin

[8] Il collegio dei probiviri era stato istituito in paesi industriali come Francia e Germania già all’inizio del XIX secolo.

[9] Furono uccisi quattro minatori: due rimasero sul terreno (Salvatore Montixi, 49 anni, e Felice Littera, 31) mentre il terzo, Giustino Pittau, morì 15 giorni dopo per le conseguenze delle ferite riportate.

Secondo alcune fonti anche Giovanni Pilloni, ferito negli scontri e deceduto un mese dopo, è da considerarsi vittima dell’eccidio.

[10] «Vi erano poi le cosiddette ‘cantine’, un sistema di spacci aperti dalle aziende in prossimità delle miniere (gestite direttamente dalle società o da privati legati alle amministrazioni minerarie, talvolta da cooperative), che commerciavano di tutto, derrate alimentari, stoffe, stoviglie, attrezzi di lavoro per la miniera e per la campagna (in genere a prezzi più alti rispetto ai centri abitati più vicini, che però quasi sempre erano distanti rispetto alle miniere dove risiedevano i minatori), che favorivano una forma di sfruttamento, assai diffusa, denominata ‘truck-system’. Operanti in quasi tutte le miniere sarde (su quarantotto miniere ben trentaquattro le avevano) esse godevano della garanzia dei debiti contratti dagli operai mediante ritenute sul salario operate dall’amministrazione mineraria, creando quindi un sistema che di fatto obbligava le famiglie operaie a servirsi esclusivamente della ‘cantina’ padronale. In questo modo ai minatori veniva di fatto pagata in natura una parte consistente del salario, con profitto o per le amministrazioni minerarie o per i loro fiduciari.» (Atzeni, 2016)

Dal 2° dopoguerra alla chiusura delle miniere di minerali metalliferi

Alla fine della guerra le miniere metallifere ripresero le produzioni con forte aumento nei settori del piombo, zinco, antimonio e manganese, mentre la fine dell’autarchia e il prezzo basso dell’olio combustibile ridussero fortemente la competitività del carbone del Sulcis.

Tale crisi fu all’origine della vertenza, nota come la lotta dei 72 giorni, intrapresa dai minatori della Carbosarda tra il settembre e il dicembre 1948 per trovare uno sbocco al problema del carbone del Sulcis, puntando alla sua gassificazione: fu allora infatti che si cominciò a discutere il piano Levi [11] e il piano Carta [12], che delineavano la possibilità di utilizzare il carbone, oltre che per la produzione di energia elettrica, anche per quella di concimi azotati, trasformando i residui di discarica in cemento.

Ma questi piani trovarono la netta opposizione dei grandi monopoli: la Società Elettrica Sarda, la Montecatini, unico produttore italiano di fertilizzanti, e il gruppo Pesenti, che controllava il comparto del cemento.

L’onda lunga della vertenza sul carbone arrivò, comunque, a coinvolgere anche le miniere del bacino metallifero che, il 13-14 gennaio del 1949, proclamarono lo sciopero a oltranza per ottenere la modifica del sistema dei cottimi (vedi riquadro Sistema Bedaux) e aumenti salariali, scontrandosi con la posizione rigida e oltranzista delle industrie minerarie, egemonizzate da Monteponi, Montecatini e Pertusola, che detenevano anche il controllo dell’Associazione degli industriali, rappresentante del blocco agrario-industriale sardo e fortemente collegata, in un rapporto di dare-avere, al governo democristiano del tempo.

Dopo 47 giorni di sciopero, il 1° marzo 1949, la vertenza fu chiusa con una totale sconfitta che diede inizio a un periodo di forte arretramento sindacale, segnato da una forte rappresaglia da parte delle aziende: molti minatori, soprattutto gli attivisti e i componenti di commissioni interne, furono licenziati, anche in base ad una vera e propria schedatura politica.

Per dare un’idea dell’atmosfera sindacale che si respirava in quegli anni tra i minatori sardi, si tenga conto che esistevano vere e proprie “liste di proscrizione” che le aziende minerarie si scambiavano, per cui se un minatore era dentro una di quelle liste e andava a chiedere lavoro in un’altra miniera non aveva nessuna possibilità di essere assunto.

La stessa Federazione minatori, con sede a Iglesias, fu chiusa per mancanza di soci e venne riaperta da pochi militanti solo nel 1957.

Nel frattempo, nelle miniere piombo-zincifere avvennero importanti trasformazioni tecnologiche (introduzione di pale meccaniche ad aria compressa) e di metodo di coltivazione, con l’adozione del sistema a magazzino molto usato in America, che aveva rendimenti superiori ma che richiedeva maggior impegno (più volate [3] al giorno) e maggior rischio per i minatori.

Il 1959, anno del rinnovo del contratto nazionale, fu quello della ripresa delle lotte sindacali nelle miniere piombo-zincifere, a partire dalle aziende a partecipazione statale.

La prima richiesta fu l’abolizione delle mutue aziendali, attraverso cui le società esercitavano un forte potere sui lavoratori e le loro famiglie, ottenendo il passaggio alla mutua nazionale.

Nei primi mesi del 1960 furono i lavoratori della Pertusola a entrare in stato di agitazione, ma l’azienda francese si chiuse subito a riccio dichiarando che non era disponibile ad aprire alcuna trattativa a livello aziendale appena dopo che era stato chiuso il contratto nazionale.

Si arrivò all’occupazione delle miniere di San Giovanni, Arenas, Su Zurfuru e, successivamente, Ingurtosu e Argentiera; la miniera di Buggerru aderì allo sciopero ma senza occupazione.

Nella vertenza intervenne in modo deciso anche la Regione sarda che, attraverso gli assessori al Lavoro (Paolo Dettori) e all’Industria (Pietro Melis), espresse un non gradimento nei confronti del direttore generale della Pertusola, l’ingegner Paul Audibert, a preludio di una possibile revoca delle concessioni.

Nello stesso tempo la Regione chiese al sindacato di sospendere l’occupazione in attesa di uno sblocco della vertenza: si era al settembre 1960 e quella che si può definire la prima grande vertenza della Sardegna del secondo dopoguerra aveva ridato forza e riconoscimento al movimento sindacale.

Fu così raggiunto un notevole accordo, ottenendo il collegamento del premio di produzione non solo ai quantitativi prodotti ma anche al loro valore sul mercato dei minerali alla borsa di Londra.

Negli anni successivi questa vertenza divenne un punto di riferimento anche per altre realtà di lavoro e la ripresa delle lotte operaie fu determinante per il definitivo sblocco del “Piano straordinario per favorire la rinascita economica e sociale della Sardegna” che, dopo anni di attesa, diventò la legge n. 588 dell’11 giugno 1962 (GU 166/1962), il cui art. 1 dichiara: “Per favorire la rinascita economica e sociale della Sardegna, in attuazione dell’articolo 13 dello statuto speciale emanato con la legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3, il Comitato dei ministri per il mezzogiorno con il concorso della Regione autonoma della Sardegna, dispone un piano organico straordinario ed aggiuntivo di interventi e assicura il coordinamento in relazione ad esso di tutti gli interventi previsti dalle leggi statali al fine di perseguire l’obiettivo dello sviluppo economico e del progresso sociale dell’isola”.

L’art. 7 prevedeva uno stanziamento di 395 miliardi di lire tra il 1962 e il 1975, mentre l’art. 26 si occupava direttamente del comparto minerario stabilendo che: «Allo scopo di favorire la valorizzazione delle risorse minerarie della Sardegna, è autorizzata l’assunzione degli oneri relativi ad un programma straordinario di ricerca per l’accertamento delle risorse, di studi e sperimentazioni sulle possibilità di incremento della produttività estrattiva e di sfruttamento e lavorazione sul luogo dei minerali estratti. A tali ricerche si può provvedere anche con la partecipazione di enti pubblici e di imprese private sulla base di particolari convenzioni da stipularsi tra la regione e gli enti ed imprese interessate.

È autorizzata altresì la concessione di contributi fino al 50 per cento della spesa necessaria per la installazione di impianti pilota e di nuovi impianti di eduzione delle acque alla quota giudicata idonea per la ricerca preparatoria di un nuovo ciclo di coltivazione delle miniere.

La erogazione dei contributi è subordinata alla presentazione da parte delle aziende interessate ed alla approvazione da parte della regione di programmi organici per la valorizzazione integrale delle risorse minerarie e per l’attuazione di opere atte a migliorare le condizioni di lavoro, di abitazione, di trasporto e di igiene dei lavoratori dipendenti».

Nello stesso anno, inoltre, la legge 6 dicembre 1962 n. 1643 istituiva l’Ente Nazionale per l’Energia Elettrica (ENEL) in cui sarebbero dovute confluire anche le imprese con concessioni per combustibili fossili.

Questi provvedimenti attesi parvero prefigurare una nuova fase di sviluppo del bacino minerario sardo, ma le cose non andarono come auspicato.

Da un lato gli investimenti previsti dal Piano di Rinascita si rivelarono sostitutivi più che integrativi rispetto a quelli già previsti dallo Stato, dall’altro ci fu una forte resistenza al passaggio delle miniere della Società Mineraria Carbonifera Sarda (S.M.C.S.) all’ENEL.

In quest’ultimo caso il contrasto attraversò le stesse masse operaie: da un lato i sindacati, con in testa la CGIL, erano molto guardinghi perché ritenevano che le miniere di carbone sarebbero state chiuse se fossero passate all’ENEL, come poi di fatto avvenne nel 1972, dall’altro i lavoratori erano molto eccitati dalla prospettiva di un tale passaggio che garantiva, comunque, un posto fisso e ben retribuito al di là delle sorti delle stesse miniere.

Alla fine, con Decreto Assessoriale (DA) del 21 novembre 1965 n. 379, passarono all’ENEL le sole miniere di “Seruci” e “Cortoghiana Nuova”, per le quali, tuttavia, fu fatta richiesta di rinuncia accettata con nota assessoriale del 10 febbraio 1972, anche se nel 1977 passarono alla Carbosulcis SpA per manutenzione ed eventuale riattivazione.

Un altro elemento che determinò un ridimensionamento dell’industria mineraria sarda fu l’abolizione graduale dei dazi doganali decisa con il Patto di Roma nel 1960: sino ad allora il piombo e lo zinco italiani potevano godere di un dazio protettivo in entrata pari rispettivamente a 25 e a 35 lire al chilo, il che aveva reso difficile alla concorrenza straniera la penetrazione nel mercato italiano.

D’altra parte, come avviene spesso, questa misura aveva causato un grave ritardo nell’innovazione tecnologica, che non a caso cominciò a prendere forma solo sul finire degli anni Cinquanta.

A questo proposito, mentre il già citato art. 26 della L. 588/1962 impegnava le Partecipazioni Statali a presentare un piano di sviluppo per la cosiddetta “verticalizzazione” delle lavorazioni minerarie, solo l’AMMI si impegnò a realizzare un suo stabilimento metallurgico, trasferendovi parte della manodopera in esubero nelle sue miniere.

La crisi si acuì quando la Pertusola annunciò 130 licenziamenti e l’abbandono delle concessioni Gennamari e Ingurtosu che, con DA n. 333 del 4 ottobre 1965 passarono alla Società Monteponi-Montevecchio, derivante dalla fusione nel 1961 delle due Società Monteponi e Montevecchio.

Quattro anni dopo, con DA n. 313 del 13 novembre 1969, le rimanenti concessioni della Pertusola furono trasferite alla Piombo-zincifera Sarda, Società per azioni costituita allo scopo dalla Regione.

Nonostante la fusione e le nuove acquisizioni, la Monteponi-Montevecchio non diede quello sviluppo all’attività estrattiva che ci si poteva attendere, anche per gli scarsi risultati raggiunti da un importante piano di ricerche intrapreso con i contributi del Piano di Rinascita.

Anche la Società Ferromin, malgrado ingenti investimenti, tra il 1966 e il 1967 rinunziò alle proprie concessioni di ferro, ubicate fuori dall’Iglesiente.

Si arrivò, così, alla creazione prima dell’Ente minerario sardo (EMSA) e poi, nei primi anni Settanta, alla riattivazione dell’EGAM (Ente Gestione Attività Minerarie), già costituito nel 1958 ma rimasto inoperante fino al 1971.

In questo contesto, la legge 24 giugno 1974 n. 268 (GU 184/1974), “Rifinanziamento, integrazione e modifica della legge 11 giugno 1962, n. 588 (piano straordinario per la rinascita economica e sociale della Sardegna) e riforma dell’assetto agro-pastorale in Sardegna”, prevedeva che “I programmi di ricerca mineraria e di sviluppo delle attività estrattive e di trasformazione dei minerali, i programmi generali e di settore dell’E.G.A.M., previsti dalla legge 7 marzo 1973, n. 69, saranno predisposti di intesa con la Regione sarda e coordinati con i programmi dell’Ente minerarie sardo.

Essi saranno finalizzati, oltre che allo sviluppo organico e sistematico della ricerca, dell’estrazione, della trasformazione in prodotti intermedi e finali dei minerali locali, alla creazione e sviluppo, mediante le necessarie verticalizzazioni e unificazioni, nonché mediante la importazione di materie prime integrative di una moderna base di trasformazione mineralurgica, metallurgica, manifatturiera di minerali non ferrosi.

A tale scopo, e nel quadro degli investimenti congiunti, statali e regionali di cui all’articolo 4 della legge 7 marzo 1973, n. 69, la Regione sarda è autorizzata a stanziare, a carico della presente legge, le somme occorrenti per l’aumento del fondo di dotazione dell’Ente minerario sardo nonché per finanziare, o per concorrere a finanziare, un programma organico di studi e sperimentazioni sulla utilizzazione del carbone Sulcis e sulla eventuale riorganizzazione e ristrutturazione dell’intero comparto carbonifero sardo” (art. 14).

Il sistema Bedaux

Il sistema Bedaux aveva l’obiettivo finale di aumentare la produttività dell’operaio attraverso un’analisi accurata dei tempi necessari e sufficienti a svolgere un determinato lavoro.

Il sistema misurava la produttività in ”unità Bedaux”, che indicava il lavoro che poteva e doveva essere fatto da un uomo in un minuto come risultato di una serie di rilevamenti cronometrici svolti da tecnici appositamente addestrati.

Se l’operaio superava 60 “unità Bedaux” in un’ora gli spettava un incentivo, ma se la maggior parte degli operai riusciva a superare le 60 “unità Bedaux” in un’ora, l’azienda aumentava la quantità di lavoro per “unità Bedaux”, e così il ciclo ricominciava. In definitiva una specie di “Comma 22”1.

Il sistema Bedaux fu applicato in Sardegna per la prima volta nelle miniere di proprietà della Pertusola. Alcuni esperimenti sistematici furono condotti a Ingurtosu e Gennamari fin dai primi anni ‘20 del XX secolo. Il lavoro fu analizzato nelle sue parti, cronometrato; anche i minatori furono analizzati per rilevarne le attitudini psicologiche e tecniche al fine di formare compagnie ridotte di operai il più possibile omogenei tra loro.

Nel 1929 il nuovo metodo viene ufficialmente applicato nella miniera di San Giovanni, anch’essa di proprietà della Pertusola, per essere esteso, l’anno successivo, anche alle miniere Ingurtosu e Gennamari.

I risultati dal punto di vista del rendimento del lavoro furono positivi e fecero subito notizia nel bacino minerario; in particolare, colpì la possibilità di aumentare la produttività complessiva della miniera pur in presenza di una diminuzione della mano d’opera e con aumenti salariali decisamente contenuti rispetto all’aumento dei profitti.

Il sistema Bedaux venne, quindi, adottato dalle maggiori società minerarie dell’isola (Monteponi, Montevecchio, Malfidano).

Tuttavia, il metodo dovette scontare l’opposizione operaia e delle stesse organizzazioni sindacali fasciste che considerarono il metodo Bedaux «fattore di depressione fisica e morale dell’operaio», innovazione straniera che ferisce «l’orgoglio di razza» e porta la standardizzazione delle masse lavoratrici italiane.

Nel novembre del 1934 il Comitato Corporativo Centrale abolisce il sistema Bedaux sul suolo nazionale.

Di fatto, tuttavia, tale metodo di organizzazione del lavoro continuerà a esistere nelle miniere della Sardegna per alcuni decenni ancora e ben oltre la fine del secondo conflitto mondiale.

Come ricordava in un’intervista del 1993 l’ing. Giulio Boi, dirigente dell’ufficio studi della miniera Ingurtosu dal 1938: «Una buona parte dell’ufficio studi si occupava anche dell’ufficio cottimi: quindi a me faceva capo l’organizzazione dei cottimi Bedaux... un sistema complesso che richiedeva tabelle, coefficienti... contestato e soppresso dal regime fascista. Ma in realtà ad Ingurtosu e nelle miniere della Pertusola, questo sistema era stato soppresso solo nominalmente, mentre di fatto era rimasto operante con il nome nuovo di Gennaper, un acronimo in cui Genna stava per la Gennamari e per stava per Pertusola: più semplice di così! E si continuavano a usare le tabelle di un tempo». (dall’intervista a Giulio Boi, maggio 1993, in “I mondi minerari della Sardegna” di Sandro Ruju, 2008, pagg. 187-188)


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1 Dal libro “Comma 22” (Joseph Heller, 1961) in cui il regolamento dei piloti di caccia da guerra conteneva il seguente Comma 22: «Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo.» 

In relazione specificatamente alle miniere metallifere, si decise di accantonare i 2.5 miliardi previsti per la ricerca (ex art. 26 della L. 588/62) per destinarli direttamente al sostegno dei livelli occupazionali e della produttività delle miniere piombo-zincifere gestite dalla “Piombo-zincifera Sarda” associata all’EMSA.

Inoltre, con la Legge regionale del 13 luglio 1976 n. 33 fu incrementato di 1.5 miliardi il contributo all’EMSA per la sottoscrizione dell’aumento di capitale della “Piombo-zincifera Sarda”, che nel 1975 aveva perso 4 miliardi.

L’anno successivo la situazione relativa all’EGAM, di cui il Ministero delle Partecipazioni Statali chiedeva lo scioglimento, indusse la Regione a nuovi interventi.

Il 24 marzo 1977 la Commissione Industria del Consiglio regionale approvò il programma di ristrutturazione di emergenza della “Piombo-zincifera Sarda”, in cui si stanziavano 6 miliardi per la ristrutturazione delle aziende del settore piombo-zinco.

In giugno fu approvata una risoluzione sui problemi minerari, in cui si ribadiva la necessità di integrare l’attività estrattiva con quella metallurgica-manufatturiera (verticalizzazione), di far confluire la “Piombo-zincifera Sarda” nella SAMIM (Società Azionaria MInerario-Metallurgica), costituita dall’ENI per gestire le miniere ex EGAM, di far entrare la Regione direttamente nello strumento di coordinamento del settore minerario.

La politica regionale, tuttavia, si scontrava con la logica economica dell’ENI, che considerava le miniere come sostanzialmente estranee alla propria strategia aziendale.

Il conflitto Regione-ENI fu mediato dal Governo nazionale che si impegnò perché la Regione fosse consultata prima che il progetto dell’ENI venisse presentato in Parlamento, onde garantire la coerenza dei programmi con l’art. 14 della L. 268.

Il 9 novembre 1977 il Consiglio regionale approvò la “Nota di specificazione operativa del progetto minerario, metallurgico e manufatturiero”, in cui si evidenziava lo stato di crisi del settore a livello regionale e nazionale imputabile a diversi motivi:


I successivi due anni furono ancora dominati da un lato dall’esigenza della Regione di dare una soluzione alla crisi mineraria, con il suo carico di problemi economici e sociali, dall’altro dalla resistenza della SAMIM a svolgere un ruolo attivo in questo quadro.

La Regione ritenne, comunque,  di dover assicurare la continuità dell’attività mineraria accollandosi le passività pregresse di gestione, nella misura di 7.3 miliardi di lire, all’atto del passaggio delle miniere e maestranze della Piombo-zincifera Sarda che sarebbe dovuto avvenire entro il 30 dicembre 1980.

Tuttavia, a causa dell’irrigidimento della SAMIM sulle intese sindacali e al conseguente ritardo del passaggio, la Regione versò, fra il 1981 e il 1982,  altri 7.5 miliardi a sostegno di EMSA.

Avvenuto il passaggio, già nell’agosto del 1983 la SAMIM decise di collocare in cassa integrazione mille lavoratori e di ridurre l’attività estrattiva.

Nel 1986, l’ENI decise di scorporare il settore metallurgico da quello minerario creando la Società Italiana Miniere (SIM) cui passarono le concessioni detenute da SAMIM.

Nel 1993, infine, la SIM rinunciò alle concessioni minerarie, i cui ultimi cantieri attivi (MonteponiCampo  PisanoAcquaresi) furono affidati  a una  nuova Società a capitale Regionale, la Miniere Iglesienti SpA.

Intanto, con la legge 30 luglio 1990 n. 221 (GU 183/1990) “Nuove norme per l’attuazione della politica mineraria”, voluta dai parlamentari sardi, era stato introdotto per la prima volta il concetto delle attività sostitutive, e quindi il finanziamento di attività alternative a quelle delle miniere.

Secondo l’art. 1 “I nuovi indirizzi di politica mineraria devono, in particolare, perseguire gli obiettivi... di elevare il grado di economicità del settore mediante l’ammodernamento, la ristrutturazione o la riconversione delle strutture minerarie esistenti sul territorio nazionale, di accrescere il livello tecnologico delle industrie minerarie, promuovendo attività di ricerca finalizzata all’innovazione dei processi e dei prodotti minerallurgici e metallurgici, e di favorire un più esteso inserimento ed una maggiore integrazione dell’industria mineraria italiana in campo internazionale, anche al fine di mantenere e di valorizzare le professionalità esistenti nel settore”.

Sull’argomento Saverio Giovannetti, già segretario regionale della CGIL nei primi anni ‘70, ebbe a dichiarare che “le miniere piombo-zincifere sarde avrebbero dovuto essere chiuse nel 1978, trovando serie alternative produttive: allora gli addetti al settore erano in Sardegna circa tremila e il loro peso, all’interno del movimento operaio, era diminuito non solo sul piano numerico ma anche sul piano della capacità di iniziativa politica. Invece si seguì una linea di difesa dell’esistente cercando di salvare ogni cantiere, ogni pozzo, il che alla fine ha portato a sprechi assurdi”.

Nel 1998, in ossequio alla LR n. 33 del 4 dicembre 1998, l’EMSA fu posto in liquidazione e IGEA SpA [14] individuata quale soggetto giuridico operante nell’attività di messa in sicurezza, ripristino ambientale e bonifica di aree minerarie dismesse e/o in via di dismissione, agendo nell’ambito dei piani e delle linee di indirizzo provenienti dal suo unico azionista la Regione Autonoma della Sardegna – Assessorato dell’Industria.

Con Det. n. 385 del 20 marzo 2000, infine, 65 concessioni ormai inattive furono trasferite e intestate ad IGEA SpA al fine di provvedere alle già citate attività di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale.


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[11] Piano elaborato dal Prof Giacomo Levi, presidente dell’ A.Ca.I. e direttore dell’ Istituto Politecnico di Milano, che prevedeva un intervento articolato su due livelli:

[12] Il Professor Carta, già capo del Distretto minerario di Iglesias durante la 2a guerra mondiale e assessore all’Industria della Regione Sardegna nel 1949, propose al CNR un dettagliato progetto per sfruttare tutti i prodotti ottenibili dalla gassificazione del carbone del Sulcis, che fu promosso dal punto di vista tecnico-scientifico ma considerato all’epoca antieconomico.

[13] Per “volata” si intende l’abbattimento di volumi di roccia mediante esplosivi disposti con geometria e ritardi di innesco tali da garantire il risultato voluto.

[14] Interventi GeoAmbientali, nuova denominazione assunta dal 30 aprile 1998 dalla SIM SpA.

L'evoluzione temporale dell'attività estrattiva

Nella fig. 4 è riportato l’andamento temporale del numero di concessioni vigenti di minerali metalliferi in Sardegna. Si tratta di siti che, allo stato attuale, sono tutti dismessi o comunque non attivi [15].

L'istogramma mostra come il numero di siti di minerali metalliferi sia cresciuto costantemente fino a raggiungere il massimo (181 concessioni attive) intorno agli anni ‘20 del secolo scorso, mantenendosi sostanzialmente a livello costante (> 150 siti) fino all’inizio degli anni ‘50 per poi decrescere e scomparire negli anni ‘90.

La costanza del numero (60 ca.) di concessioni vigenti segnalate negli anni successivi è dovuto alle concessioni inattive trasferite con Det. N. 385 del 21/03/2000 alla IGEA S.p.A.

Il sito di Olmedo, originariamente in scadenza nel 2023, è stato rinunciato con Det. n. 155 del 6 marzo 2018 (BURAS 14/2018); tuttavia, il giacimento non è stato dichiarato esaurito e "può formare oggetto di nuova concessione" (Art. 3 Det. n. 155/2018).


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[15] Sono segnalati come inattivi i siti trasferiti alla IGEA SpA con Determinazione n. 385 del 21 marzo 2000, formalmente ancora concessionati e di cui IGEA “cura il mantenimento, la manutenzione e la messa in sicurezza mineraria e gestisce siti di elevato interesse turistico dal punto di vista archeo-industriale ..., valorizzando in maniera sostenibile il patrimonio immobiliare di sua proprietà ...”.


Fig. 4 - Evoluzone temporale del numero di concessioni vigenti di minerali metalliferi in Sardegna.