Donne e bambini in miniera

La miseria

La miseria ha il volto di quella donna 

che spinge i vagoni carichi di minerale

che ha la pelle grinzita

le unghie orlate di nero

calcagni spaccati e duri

gli occhi febbricitanti

il corpo magro e secco

dalla fatica e dai patimenti.

La miseria in miniera

è il denominatore comune

di tutte le donne.

Iride Peis

La legislazione sul lavoro femminile e minorile nell'Italia post-unitaria

[1]

Da sempre accomunate in quanto costituivano, particolarmente campo minerario, i segmenti sociali più deboli e meno tutelati, le categorie di lavoro femminile e minorile hanno seguito un percorso di tutela legislativa per molti versi comune.

Con la nascita dello stato unitario, le uniche norme vigenti in merito al lavoro dei fanciulli erano costituite dal divieto di impiegare bambini di età inferiore a dieci anni in lavori minerari sotterranei (R.D. 23 dicembre 1865, art. 10) – ereditato dalla legislazione piemontese – e da una legge del 1873 che proibiva l’impiego dei fanciulli nelle professioni girovaghe.

Nel 1877, un’inchiesta parlamentare sulla realtà dell’economia agraria e industriale italiana fornì una fotografia dettagliata dell’Italia degli anni ’80 del XIX secolo.

Ma già un anno prima due politici toscani destinati a un importante futuro, Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, avevano redatto una relazione dal titolo “Inchiesta in Sicilia”, con un capitolo dedicato al lavoro dei carusi, i bambini usati come portatori nelle miniere di zolfo siciliane.

Dalle due inchieste emerse non solo la notevole percentuale di minori impiegati (> 10%), ma anche i pesantissimi orari di lavoro di donne e minori, generalmente uguali a quelli dei maschi adulti e variabili dalle 11 alle 12 ore, fino ad arrivare alle 15 ore in certi stabilimenti lombardi. Tutto ciò a fronte di un salario molto ridotto, che per i minori arrivava appena a un terzo degli uomini.

Il lavoro dei bambini era particolarmente importante in alcune realtà, come quello dei già citati carusi siciliani (fig. 1) utilizzati «anche nelle zolfare dove l’estrazione del minerale fino alla bocca della miniera si faccia in tutto o in parte con mezzi meccanici... per il trasporto dello zolfo dalle gallerie di escavazione fino al punto dove corrisponde il pozzo verticale o la galleria orizzontale; come pure sopra terra per il trasporto del minerale dal luogo ove resta ammucchiato in casse, fino al calcarone, ossia la fornace dove vien fuso.

In moltissime gallerie però di queste stesse grandi miniere, e in genere in tutte le altre zolfare della Sicilia, il lavoro di fanciulli consiste nel trasporto sulla schiena, del minerale in sacchi o ceste, dalla galleria dove viene scavato dal picconiere, fino al luogo dove all’aria aperta si fa la basterella delle casse dei diversi picconieri, prima di riempire il calcarone» (Franchetti, Sonnino). 

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[1] Gran parte del contenuto di questo paragrafo è tratto da INFANZIA RUBATA. Il lavoro infantile e minorile tra la fine dell’Ottocento e il secondo dopoguerra in Italia - Fondazione Ansaldo 2021

Fig. 1 – Carusi al lavoro in una miniera di zolfo (Onofrio Tomaselli, 1905)

Nel 1879, Benedetto Cairoli, Presidente del Consiglio e Ministro dell’Agricoltura ad interim, promosse una nuova inchiesta sul lavoro femminile e minorile, interrogando Prefetti, Camere di Commercio, Ispettori del Corpo delle miniere, ingegneri minerari, municipi, associazioni economiche.

I risultati dell’inchiesta non produssero l’emanazione di nuovi leggi regolatorie per le forti resistenze non solo del mondo industriale, che avrebbero perso manodopera a basso costo, ma anche delle stesse famiglie che dal lavoro dei minori ricavavano un complemento spesso indispensabile al salario degli adulti.

Solo il 31 gennaio 1884, il Ministro dell’Agricoltura Domenico Berti presentò al Senato un nuovo progetto di legge, che però non conteneva alcuna norma sul lavoro delle donne adulte, restando circoscritto alla tutela del lavoro dei giovanissimi.


La legge che ne seguì (11 febbraio 1886 n. 3657) prevedeva il divieto di usare minori di anni 9 negli opifici, cave e miniere, minori di anni 10 per i lavori in sotterraneo. Tra i 9 e 15 anni il lavoro era permesso solo con certificato medico da cui risultasse che i minori fossero sani e adatti al lavoro (art. 1).

Per i lavori pericolosi e insalubri, determinati da un RD sentito il parere dei Consigli Superiori di Sanità e Commercio, non erano ammessi i minori di 15 anni, se non nei limiti e con le cautele stabilite dai Consigli Superiori di cui sopra (art. 2).

Per i minori tra 9 e 12 anni l’orario massimo giornaliero era previsto in 8 ore (art. 3).

Erano inoltre previste sanzioni pecuniarie per gli inadempienti tra 50 e 100 lire per minore, salvo casi di recidiva per cui la sanzione era raddoppiata (art. 4).

Nonostante le oggettive mancanze della Legge Berti (nessuna regolamentazione del lavoro femminile, sanzioni ridotte rispetto a precedenti progetti di legge, peso eccessivo concesso ai pareri dei Consigli Superiori di Sanità e Commercio) la rendessero poco incisiva, una  larga  maggioranza  di esponenti   della  borghesia dell’epoca  fu comunque contraria e operò al fine di renderla praticamente inattuata.


Bisognerà aspettare il 1902 per avere, grazie alle spinte dei movimenti operai e dei movimenti femminili di cui si fece portavoce il neo costituito Partito Socialista Italiano, un quadro normativo più protettivo in materia con la promulgazione della Legge n. 242 del 19 luglio (denominata Legge Carcano dal nome del primo firmatario, GU 130/1902), successivamente modificata con Legge n. 416 del 7 luglio 1907 (GU 163/1907) e a questa riunita in un testo unico con Regio Decreto n. 818  del 12 novembre 1907 (GU 12/1908).

In particolare:


Nel 1904 la politica intuì che un’arma potente contro il lavoro infantile era la scuola: così, l’obbligo scolastico fu elevato dai nove ai dodici anni, e la legge che lo stabiliva fu rinforzata qualche anno dopo con l’approvazione di una misura che imponeva l’obbligo di licenza del triennio elementare per l’accesso al lavoro.

Con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, il richiamo alle armi di gran parte degli uomini impiegati nel lavoro dovette essere necessariamente compensato dalle energie lavorative di donne, anziani, ragazzi, ma anche di bambini e adolescenti.

Molti furono costretti ad assumere il ruolo di capifamiglia: in numerosi casi, il salario guadagnato dai più giovani non rappresentò più una semplice integrazione del reddito complessivo prodotto dal nucleo familiare, ma divenne una risorsa economica indispensabile alla sopravvivenza della famiglia stessa.

All'interno delle industrie, gli adolescenti erano costretti a occuparsi di mansioni faticose e insalubri: con la sospensione della legislazione protettiva e dell'attività dell'Ispettorato del lavoro, si riproposero lunghi orari, cottimi, ritmi serrati ini una condizione aggravata da una rigida disciplina militare.

Alcune stime calcolano che furono almeno 60,000 gli adolescenti tra i 12 e i 19 anni impegnati nei pericolosi cantieri militari a ridosso della linea del fronte, pari a più del 40% della manodopera impiegata.

I faticosi lavori a cui erano adibiti ebbero delle gravi conseguenze sanitarie, se su un campione di 2,000 operai ricoverati tra il 1916 e il 1917 ben 730 (42%) aveva meno di 17 anni.

Terminata la guerra, nel 1919 l’International Labour Organization (ILO) adottò la “Convenzione sull’età minima nell’industria”, stabilendo il limite in 14 anni compiuti.


Solo nel 1934, con la Legge n. 653 del 26 aprile (Tutela del lavoro delle donne e dei fanciulli), il fascismo riprese le indicazioni dell’ILO, prevedendo in particolare:


In età repubblicana, nel 1967 con la Legge 977 del 17 ottobre (Tutela del lavoro dei fanciulli e degli adolescenti) vennero stabiliti nuovi limiti:

 

Infine, con D.Lgs 4 agosto 1999 n. 345 (Attuazione della direttiva 94/33/CE relativa alla protezione dei giovani sul lavoro), è stata modificata.

In particolare:

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[2] Il divieto di lavoro sotto i 16 anni era previsto anche i lavori che richiedessero sollevamento e trasporto di pesi in condizioni di disagio o pericolo, il carico/scarico dei forni di fusione dello zolfo (art. 6 comma b), per i lavori nelle sale cinematografiche o in spettacoli di qualunque genere, salvo le opere liriche (art. 6 comma d), nei mestieri girovaghi (art. 6 comma e). Per le donne sotto i 21 anni nei lavori di pulizia di motori e relativi organi. Infine per i minori di anni 18 nella somministrazione di bevande alcoliche (art. 6 comma f) e nella manovra e traino di vagonetti (art. 6 comma g).

Le cernitrici


Se c'è un lavoro che il senso comune considera impossibile per le donne (e i bambini) è quello minerario, eppure sino agli anni '60 del XX secolo, in qualche caso anche dopo, nei piazzali esterni delle miniere lavoravano soprattutto donne, anche minorenni, addette alla cernita del minerale: le cernitrici, chiamate anche taissine (da taizzare, cioè frantumare in lombardo) nelle miniere bergamasche.

La cernita (fig. 2) era l'operazione mediante con cui il materiale abbattuto nei cantieri di coltivazione era suddiviso a vista in gruppi grossolanamente omogenei contenenti minerale: quasi puro, associato a roccia incassante, quasi solo roccia incassante.

Prima della cernita avveniva la grigliatura con cui si separava il materiale più fino, inviato direttamente all'arricchimento, da quello più grossolano su cui operavano le cernitrici.

I pezzi più grossi venivano quindi frantumati con un martello per separare la parte sterile da quella utile.

Benché poco valutato, il loro lavoro delle donne ha fruttato enormi guadagni alle Società minerarie che attingevano a piene mani a una risorsa abbondante, efficiente, poco o per nulla sindacalizzata e a basso costo (fig. 3).

Persino le comunità locali contribuivano a tenere emarginata questa categoria con pesanti pregiudizi.

Le donne, fossero sposate, vedove o nubili erano poco considerate e la loro moralità era minata dal fatto che lavorando gomito a gomito con gli uomini nei piazzali e nelle laverie acquisivano una certa disinvoltura e confidenza che creava equivoci e dava adito a pettegolezzi.

Addirittura in alcune realtà, come quella delle miniere di barite di Darzo, era convenzionalmente accettato da tutti, in una società in cui la gratitudine per il “signor padrone” per aver portato il lavoro era d’obbligo, che quando una ragazza stava per sposarsi lasciasse il posto: le gravidanze, con relative assenze, avrebbero creato non pochi problemi all’azienda e impedito un normale svolgimento delle attività.

Al di là di questo, il lavoro dette alle donne la possibilità di essere indipendenti, di aiutare la famiglia e di gestire al meglio il pubblico e il privato, mostrando una straordinaria capacità organizzativa e favorendo l'emancipazione femminile.

Molte di queste donne erano vedove di minatori, spesso morti per incidente o malattia professionale, giovani madri con figli a carico e un grande bisogno: lavorare per mangiare.

Manodopera molto richiesta perché, come già osservato, le donne erano più pazienti e diligenti, più efficienti e a minor costo.

Anche se occupate in miniera, le donne dovevano anche occuparsi della casa, dell'accudimento dei figli e dei mariti, sommando fatica a fatica.

In molti casi, quando le miniere erano localizzate lontano dagli abitati e non era stato costruito un villaggio minerario, questo significava sobbarcarsi chilometri di camminata all'alba verso la miniera, al tramonto verso casa.

Ma talvolta la fatica della giornata era troppa  per sobbarcarsi una lunga camminata, o alcune, in genere le più giovani nubili e senza figli, abitavano troppo lontano per tornare a casa giornalmente.

in questi casi le donne alloggiavano in baracche adibite a dormitori, molto affollate, umide, senza servizi, con un piccolo focolare. Per letto un pagliericcio infestato di pulci, cimici e pidocchi, dov’era difficile dormire sonni tranquilli.

L’inverno era duro, le notti lunghe, il freddo pungente, le coperte insufficienti, le malattie sempre in agguato. E ammalarsi significava perdere la giornata, pagare una multa o venire licenziate per inefficienza.

Proprio in una di queste baracche avvenne il più grave incidente minerario avente come protagoniste le donne.


Fig. 2 - Cernitrici in Val Graveglia (GE)

Fig. 3 - Rapporto salariale tra le varie categorie operaie in miniera: a) Gorno (BG); b) Val Graveglia (GE); c) Montevecchio (VS)

4 maggio 1871: la tragedia di Montevecchio


Lavorare in miniera, anche all'esterno, è comunque pericoloso e l'incidente sempre incombente, come in quel 4 maggio 1871, ricordato come l'8 marzo sardo.

Erano circa le 18:30 quando una trentina di donne e bambine che svolgevano l’attività di cernitrici si ritirarono nel dormitorio di Montevecchio, dopo dieci ore di faticosissimo lavoro, trascorse a spaccare pietre e selezionare il materiale, sotto il severissimo controllo dei caporali, per una paga misera e nettamente inferiore rispetto a quella di un uomo, per un lavoro comunque faticosissimo e svolto spesso all’aperto, esposte alle intemperie o al massimo in baracche di fortuna.

A monte dell’edificio che ospitava le donne, era stato costruito un serbatoio di 80 m3 d’acqua, necessario al funzionamento della vicina laveria. Durante la notte il muro perimetrale del serbatoio franò e l'enorme massa d'acqua travolse e distrusse il dormitorio, schiacciando le lavoratrici sotto le macerie: undici di loro rimasero uccise (10 anni le più giovani, 50 la più anziana) e quattro ferite (fig. 4).

L’ispettore del Corpo delle Miniere biasimò la modalità di costruzione e l’ubicazione del bacino proprio sopra al dormitorio, ritenendola decisamente insicura.

La direzione della miniera rispose scusandosi, sostenendo però che «non vi era luogo più comodo e adatto per la ricostruzione sia del bacino che della baracca rovinata. Si dovettero perciò ricostruire queste due opere nello stesso punto usando tutte le precauzioni atte ad impedire qualunque sia il pericolo di ulteriori disastri» (sic!).

Alla fine la vicenda fu archiviata, senza che la responsabilità dell’accaduto fosse attribuita a nessuno. Per quelle vite nessuno pagò!

Delle vittime restano i nomi: Elena Aru e Caterina Pusceddu, di Arbus (10 anni); Anna Melis e Anna Atzeni (11 e 12 anni); Anna Peddis e Anna Pusceddu (14 anni); Rosa Gentila e Luigia Vacca (15 anni); Luigia Murtas e Antioca Armas, di Arbus (27 e 32 anni); Rosa Vacca, di Guspini (50 anni).

Fig. 4 - Lista delle vittime nel Rapporto del Sottoprefetto di Iglesias

I "carusi" delle miniere di zolfo siciliane

Il Lamento di un caruso

Adduma Pe’

Io quann’era nico mi scantava allo scuro, la notte soprattutto coi temporali. Appena potìa me curcavo co’ papà e mammà, mi sintìa protetto, me parìa che me vulevano bene; invece iddri, proprio iddri a 7 anni me vendettero pe’ quattro soldi a u’ picconaro. E’ da sette anni che io, che me scantavo allo scuro, campo allo scuro, mangio allo scuro, dormo allo scuro, porto quello che ‘u picconaro scava, fino a 70 chili di petra de sulfaro int’ ‘a gerla in capo ‘e spalle. Me trascino in ginocchio fino ‘a nisciuta, scarico fora senza rapire l’uocchi, la luce du munnu me li può bruciare, poi scenno chiano ‘n quest’inferno. Simmo spettri ca p’ ‘o caldo travagliano nudi, respirano polvere, mangiano ‘n mezzo a mierda.

Io n’avessi a stare ‘ca, Peppe n’avesse a stare ‘ca, avessimo essere a jocare, a scola, avessimo essere vivi tra i vivi, se solo ci fosse giustizia, ma ‘na legge che ne protegge ancora non c’è e il nostro destino è di sparire allo scuro.

Astuta Pe’

Paradigma del sistema di sfruttamento del lavoro minorile, i "carusi" delle miniere di zolfo  siciliane subivano un triplice sfruttamento: dai "padroni", dai "picconieri", dalle "famiglie" che, come dice la poesia qui riportata, li vendevano "pe’ quattro soldi a u’ picconaro".

Non si trattava di un fatto straordinario nell'Italia tra il XIX e XX secolo, se anche nelle Langhe piemontesi, oggi ricchissimo paradiso eno-gastronomico, la "vendita" dei bambini delle famiglie di contadini a proprietari terrieri o mezzadri locali era considerata necessaria al sostentamento familiare, come racconta Beppe Fenoglio nel suo breve e bellissimo romanzo, "La Malora" [3].

Tuttavia, l'intensità e la "ferocia" dello sfruttamento economico, fisico e morale dei "carusi", era tale che  nel 1876 due politici toscani, Franchetti e Sonnino, vollero aggiungere alla loro "Inchiesta in Sicilia" un capitolo intitolato  “Il lavoro dei fanciulli nelle zolfare siciliane”,  spinti, come testualmente si afferma in avvio di capitolo, da un punto di vista prettamente umanitario.

In tutte le miniere il ruolo dei carusi è quello di trasportare a spalla  le ceste di zolfo scavato dai picconieri fino alla zona dei calcaroni in superficie. Con una eccezione nelle miniere meccanizzate e con pozzi verticali, in cui ai carusi era almeno evitato il trasporto in salita lungo le discenderie.

Molto schematicamente l'attività estrattiva era così organizzata:


«I fanciulli lavorano sotto terra da 8 a 10 ore al giorno, dovendo fare un determinato numero di viaggi, ossia trasportare un dato numero di carichi dalla galleria di escavazione fino alla basterella che vien formata all’aria aperta. I ragazzi impiegati all’aria aperta lavorano 11 a 12 ore. Il carico varia secondo l’età e la forza del ragazzo, ma è sempre molto superiore a quanto possa portare una creatura di tenera età, senza grave danno alla salute, e senza pericolo di storpiarsi. I più piccoli portano sulle spalle, incredibile a dirsi, un peso di 25 a 30 chili; e quelli di sedici a diciotto anni fino a 70 e 80 chili... visitammo una galleria di 44 metri di profondità verticale sotto il livello della bocca d’entrata. Per portar fuori il minerale i ragazzi percorrono 100 metri sotto terra, e 50 metri all’aria aperta. La discesa è in alcuni punti ripidissima, la galleria stretta, e gli scalini dei più incomodi. Un ragazzo fa in media 29 viaggi al giorno. La miniera essendosi incendiata, il calore dell’aria nel punto dove si raccoglie lo zolfo è di 38° Réaumur (circa 50°C, NdR)... Il guadagno giornaliero di un ragazzo di otto anni sarà di L. 0.50, dei più piccoli e deboli L. 0.35; i ragazzi più grandi, di sedici e diciotto anni, guadagnano circa L. 1.50, e talvolta anche L. 2 e 2.50... I picconieri... nell’impegnare i ragazzi anticipano loro spesso una trentina di lire che vengono prese dalle famiglie, le quali... non sono mai in grado di restituirle, onde il ragazzo rimane nelle mani del picconiere in una vera condizione di schiavitù. Se scappa, vien ripreso e riconsegnato al suo padrone, il quale può farne quello strazio che crede. Di quello che accade poi d’immoralità e di turpitudini in condizioni siffatte... non diciamo parola, perché ci ripugna fermarci sopra il pensiero...Alcuni ragazzi sono figli degli zolfatari: sono questi i meglio trattati, e guadagnano più degli altri. Molti sono orfani o figli naturali, e sono i peggio trattati, perché privi di ogni difesa. Gli altri sono figli di contadini.... un gran numero di bambini si ammala, e molti crescono su curvi e storpi: vanno specialmente soggetti alle ernie, e non è da meravigliarsene, visti i pesi che portano.... Naturalmente di scuola o d’istruzione elementare di qualsiasi specie, non vi è il più lontano sentore, e non più nelle zolfare grandi che nelle piccole...

Per queste ragioni ci sembra che anche considerata la questione dal solo punto di vista industriale... una legge che determinasse il minimum dell’età a cui si possano impiegare i bambini nelle zolfare, e regolasse le ore di lavoro in modo da costringere gl’industriali a introdurre per i ragazzi il sistema inglese del lavoro alternativo (lavoro di mezza giornata, 2 minori per ogni posto di lavoro, NdR), non produrrebbe gravi sconcerti nell’industria siciliana... Non vi è poi ragione alcuna per cui non si abbia ad imporre, almeno alle amministrazioni delle grandi zolfare, l’istituzione di scuole che i ragazzi dovrebbero frequentare per un dato numero di ore al giorno... Quanto poi alla ragione umanitaria... che gli stessi genitori dei fanciulli si opporrebbero ad ogni intromissione dell’autorità a tutela di questi, la quale potesse diminuire i loro guadagni, non sappiamo annettervi nessuna importanza. I genitori non hanno il diritto di rovinare la salute fisica e morale delle loro creature per guadagnare di più, e nemmeno per campare: se si ammettesse una tal massima si sovvertirebbe ogni principio morale, poiché si dovrebbe ammettere pure che genitori facciano qualunque più turpe mercato o strazio dei loro bambini, se ne possono ricavare un guadagno, e il legislatore non dovrebbe mai averci che vedere...» (Franchetti,-Sonnino, 1876).


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[3] «Pioveva su tutte le Langhe, lassù a San Benedetto mio padre si pigliava la sua prima acqua sottoterra. Era mancato nella notte di giovedì e lo seppellimmo Domenica...Io ero ripartito la mattina di mercoledì, mia madre voleva mettermi nel fagotto la mia parte dei vestiti di mio padre, ma io le dissi di schivarmeli, che li avrei presi alla prima licenza che mi ridava Tobia... mentre facevo la mia strada a piedi ero calmo, sfogato... Ma il momento che dall'alto di Benevello vidi sulla langa bassa la cascina di Tobia la rassegnazione  mi scappò tutta.  Avevo appena sotterrato mio padre e già andavo a ripigliare in tutto e per tutto la mia vita grama, neanche la morte di mio padre valeva a cambiarmi il destino...» (dall'incipit di "La Malora" di Beppe Fenoglio, 1954)