Zolfo in Campania

La distribuzione dei siti a livello territoriale

In fig.1 è mostrata la distribuzione territoriale, articolata a livello comunale, degli 11 siti di estrazione di zolfo, concentrati principalmente nel territorio di Tufo e comuni limitrofi (9 siti).

Fig. 1 - Distribuzione territoriale a livello comunale dei siti di estrazione dello zolfo in Campania

Geologia e giacimentologia

I giacimenti di zolfo irpini di Tufo e Altavilla Irpina sono impostati nella formazione gessoso-solfifera formatasi in corrispondenza della crisi di salinità del Mediterraneo nel Miocene superiore  (Messiniano, 7÷5 Ma), formatasi in ambiente di sedimentazione evaporitico di acque basse e coeva con le analoghe formazioni della Sicilia, Calabria, Romagna e Marche.

A differenza di quanto accede in queste altre regioni, in cui la formazione gessoso-solfifera si appoggia sui tripoli, alternanza ritmica di strati diatomitici e marnoso-calcarei, l’unità giace sulla formazione delle argille varicolori, con spessore di qualche decina di metri, in lembi discontinui che presentano nell’insieme una geometria lenticolare. 

Alla facies pelitica della formazione, rappresentata da peliti grigie, prive di strutture sedimentarie, con intercalazioni di lenti di gesso selenitico contenenti materia organica o idrocarburi, segue, verso l’alto, un livello di calcari evaporitici di spessore inferiore al metro, al di sopra del quale è presente un livello di gesso microcristallino spesso circa 20 m.

A tetto della formazione gessoso-solfifera si ritrova l’Unità di Tufo-Altavilla (Miocene superiore-Pliocene) composta da alternanze pelitiche, arenacee e conglomeratiche.

La mineralizzazione a zolfo può assumere la forma di ammassi o lenti intercluse in una massa che va da calcarea a marnoso-calcarea e/o a marnoso-argillosa, in cui il minerale si trova disseminato, raggiungendo tenori variabili tra il 25 e il 35%, con punte superiori al 50% e trend in diminuzione da tetto a letto.

La sostanziale caoticità della mineralizzazione ha molto influito, soprattutto nei primi decenni del secolo scorso, sulla mancanza di una strategia precisa dei lavori di sfruttamento, orientati prevalentemente alla coltivazione degli orizzonti che venivano intercettati, spesso casualmente.

L'evoluzione temporale dell'attività mineraria

In fig. 2 è riportata l’evoluzione temporale del numero di concessioni attive di coltivazione dello zolfo in Campania: si osserva un andamento crescente fino a un massimo di 6-7 siti tra gli anni '20 e '30 del XX secolo, seguito da un trend in diminuzione determinato dalla chiusura delle concessioni minori nel secondo dopoguerra.

Oltre alle due miniere principali irpine Bosco della Palata Di Marzio (comune di Tufo) e Isca della Palata S.A.I.M. (comune di Altavilla Irpina), dalla metà degli anni '40 rimane attiva solo la concessione "Stretto di Barba" nel comune di Chianche, confinante con i comuni di Tufo e Altavilla Irpinia.

L'attività estrattiva cessa definitivamente all'inizio degli anni '70, anche se la certificazione ufficiale della rinuncia arriverà solo alla fine degli anni '80.


I dati [1]  di produzione e occupazione delle miniere di zolfo irpine sono riassunti in tab. 1 e fig. 3, dal cui esame risulta:


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[1] I dati sono ricavati dalle Relazioni annuali del Servizio Minerario (RSM 1878÷1940). Poiché tali dati sono riportati solo episodicamente, le tabelle presentano molte lacune, ma sono comunque utili a descrivere il trend produttivo e occupazionale delle miniere. I dati affidabili per completezza si fermano al 1940.

[2] Valore medio calcolato sulla base delle corrispondenti produzioni negli anni in cui sono registrati entrambi i valori (1917÷1937 e 1939).

[3] Fa eccezione il 1922 (26,196 ton), anno che, peraltro, vide una forte riduzione della produzione soprattutto nelle miniere crotonesi (530 ton totali).

Fig. 2- Evoluzione temporale del numero di concessioni vigenti di Zolfo in Campania


Tab. 1 – Produzione di minerale solfifero, zolfo e occupati nelle miniere irpine (Fonte RSM)

Fig. 3 – Grafico della produzione di minerale solfifero, zolfo e occupati nelle miniere irpine

Cenni storici sulle miniere di Tufo/Altavilla Irpina

Nel 1863 Ferdinando Capone di Altavilla Irpina, proprietario dei terreni in località Bosco della Palata, presso un’ansa del fiume Sabato, venne a sapere che i contadini della zona, bruciando le sterpaglie, talvolta vedevano svilupparsi delle fiammate accompagnate da un forte odore.

Bastarono pochi colpi di badile per scoprire, così, il primo filone solfifero e per cominciare, con i pochi contadini a disposizione, l’estrazione del terreno ricco di zolfo, molto richiesto come fertilizzante.

Nel 1866, tre anni dopo l’inizio dell’estrazione e della commercializzazione dello zolfo, la Direzione della Facoltà di Chimica Italiana e il Consorzio Agrario di Avellino incaricarono l’ing. Primo Lattanzi di compiere alcune ricerche nel territorio di Altavilla Irpina.

Alle ricerche, che confermarono la presenza di giacimenti solfiferi, partecipò anche la Famiglia Di Marzo, originaria del territorio vesuviano ma dalla metà del XVII secolo agiata rappresentante della borghesia agraria avellinese, che proprio in località “Bosco della Palata” scoprì un vasto giacimento dalle dimensioni di un vero e proprio bacino minerario.

Compresane la potenzialità economica e produttiva, in poco tempo ne venne avviato lo sfruttamento minerario attraverso la  costituzione di un’apposita società di cui la Famiglia Di Marzo divenne ben presto la sola incontrastata proprietaria e che ne mantenne sempre salda la gestione fino alla rinuncia finale del 1988.

Nel 1868 Ferdinando Capone, con alcuni soci, il barone Giovanni Sellitti e i fratelli D’Agostino, potenziò l’estrazione e il commercio dello zolfo sia grezzo che macinato, mentre il piemontese Conte Cavalli aprì un’altra miniera in zona, poi ceduta all’ing. Francesco Zampari, già appartenente al Reale Corpo delle Miniere e primo progettista dell’Acquedotto pugliese.

L’anno successivo venne costituita la Società Miniere Sulfuree di Altavilla Irpina, allo scopo di coordinare l’estrazione, la lavorazione e la vendita del minerale.

Grazie all’iniziativa imprenditoriale del giovane Federico Capone, succeduto al padre alla guida della miniera di famiglia, nel 1878 le miniere Capone-Sellitti-D’Agostino e Zampari si consorziarono e l’insieme delle cave e degli stabilimenti venne definito Miniera Sociale.

In breve, i Di Marzo da Tufo e i Capone da Altavilla trasformarono completamente il Bosco della Palata in una zona mineraria [1], che nel periodo di maggiore attività recò ai paesi vicini un indiscusso benessere, avviando un processo di sviluppo complessivo dell’area che coinvolse la viabilità stradale, l’edilizia e i trasporti.

All’inizio delle attività minerarie la valle del fiume Sabato e in particolare la zona del bacino minerario era, infatti, un’area di verdeggianti colline dedite alla coltivazione dell’uva, priva di strade d’accesso, tanto che i primi macchinari occorrenti alla nascente industria estrattiva furono trasportati su zattere lungo il fiume.

In una relazione al governo del 21 marzo 1871, la Camera di Commercio di Principato Ultra [2]  metteva in risalto la necessità di attivarsi in modo da far sì che la linea che da Napoli raggiungeva il capoluogo irpino, passando per l’agro nocerino-sarnese, non restasse un’opera monca ma attraversasse «tutta la vallata del Sabato insino a Benevento: ché solo allora, da un capo all’altro, essa acquisterebbe la importanza di una grande arteria incontrando ben ventiquattro stabilimenti industriali, ciascuno dei quali dispone in media di una forza idraulica di cento cavalli, e toccherebbe le miniere zolfifere, da pochi anni aperte, le quali presentemente, malgrado l’assoluta mancanza di strade rotabili, producono annualmente dalle quindici alle ventimila tonnellate di materiale esportabile».

Nonostante ciò, i lavori per l’esecuzione della linea ferroviaria, fortemente voluta da Federico Capone e dai Di Marzo, andata in appalto nel 1881, furono ben presto interrotti suscitando la reazione del deputato Donato Di Marzo che, nel discorso alla camera sul finanziamento delle opere, protestò vivacemente esortando una celere ripresa dei lavori.

Superate le difficoltà  che avevano causato l’interruzione [3], l’opera fu portata a termine consentendo la costruzione di uno scalo comodo ed efficace in adiacenza all’impianto dei mulini, a breve distanza dalla stazione.


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[1] L’area estrattiva si si articolava in tre nuclei principali: la miniera S.A.I.M., la miniera Di Marzo e la sua area estrattiva.

La miniera S.A.I.M. si sviluppava in un’ansa del fiume Sabato, dove si ritiene che fossero collocati i resti di un antico mulino.

A differenza di quella della S.A.I.M., che aveva al loro interno anche la discesa alle gallerie per l’estrazione del minerale, la miniera Di Marzo aveva la propria area estrattiva delocalizzata rispetto alla zona dedicata alla lavorazione e all’insaccaggio dello zolfo.

[2] Il Principato Ultra era una divisione amministrativa del Regno delle Due Sicilie, praticamente corrispondente alle attuali province di Avellino e Benevento 

[3] Difficoltà principalmente connesse alle modifiche richieste al progetto originario per consentirne il passaggio in vicinanza delle miniere di zolfo irpine, che avrebbero richiesto una maggiore spesa a causa della realizzazione di due gallerie e due ponti di ferro.

Inaugurata l’8 marzo 1891, la ferrovia sostituì il trasporto fluviale su chiatte che, oltre ad essere lento, soffriva del problema dell’umidità, nociva per gli zolfi ventilati.

Il treno era largamente usato dagli operai per raggiungere le miniere, ma soprattutto serviva per immettere sul mercato i sacchi di zolfo e acquisire le materie prime come il carbone, necessario per le caldaie del crescente stabilimento industriale.

Realizzata la ferrovia, i Di Marzo costruirono un edificio minerario che doveva evidenziare in primis la maestosità della miniera Di Marzo ai viaggiatori.

La facciata principale (fig. 4) era rivolta non all’ingresso delle miniere, ma al piazzale della stazione ferroviaria, distante solo pochi metri dall’insediamento minerario. Il portale di ingresso e l’arco in bugnato in pietra lavica, incorniciavano il gigantesco busto in bronzo di Francesco Di Marzo, sotto il quale una lapide commemorativa in marmo recitava “Francesco Di Marzo scoprì le miniere di zolfo nell’anno 1866”.

Il minerale fu riproposto in facciata sulla parte superiore dell’ingresso principale, in corrispondenza dell’architrave in pietra, sotto forma di pepite di zolfo.

A tale proposito è significativa la testimonianza del Prof. Federico Biondi, viaggiatore sulla linea Avellino-Benevento: “In prossimità della stazione di Tufo, quelli che ancora si servono del treno che viaggia sulla linea tra Avellino e Benevento, con un tracciato che, per volontà dello stesso Di Marzo, venne a costeggiare la zona mineraria, possono oggi osservare, forse anche un po’ incuriositi, una modesta ma armonica costruzione di stile ottocentesco, esempio di buona architettura industriale, con le belle merlature del cornicione, al di sopra del quale un arco in bugnato protegge dalle intemperie un piccolo busto di pietra. Eppure sono soltanto pochi quelli che sanno anche di dovervi riconoscere l’effigie del primo scopritore di questa ricchezza della terra irpina a lungo rimasta nascosta. Gli eressero questo omaggio gli eredi e le maestranze sulla sommità dell’edificio che fino a qualche decennio fa ancora ospitava gli uffici della Direzione della miniera, dove però oggi non si va più a cavare lo zolfo, un po’ perché la vena si è andata esaurendo, ma anche perché la chimica ha fatto tanti progressi e quell’elemento un tempo così prezioso è stato messo ora un po’ da canto”. 

Nel 1906, all’esposizione agricola di Salerno, lo zolfo di Altavilla Irpina ottenne il gran premio e la medaglia d’oro.


Contemporaneamente, lo stabilimento Capone di Altavilla Irpina (fig. 5) si ampliò progressivamente sulla riva opposta del fiume, interessando l’area pertinente il Molino Pannone, impiegato della Società Miniere Sulfuree per la macinazione del minerale allo scopo di creare un anticrittogamico, ancora oggi assai richiesto nella viticoltura perché ottimo rimedio contro l’oidio e la peronospora.

Nel 1919 la Società Miniere Sulfuree e il Molino Pannone si fusero nella Società Anonima Industrie Meridionali (S.A.I.M.).

Lo zolfo estratto in questo periodo copriva circa il 3% del fabbisogno mondiale e l’azienda iniziava un periodo di grande splendore.

Nel secondo dopoguerra però, a causa di una minore richiesta del prodotto dovuta anche alla scoperta di importanti giacimenti in Siberia e in America Meridionale, nei quali l’estrazione veniva compiuta con tecniche molto più moderne e meno dispendiose, una crisi progressiva colpì le miniere di zolfo irpine, come anche le altre miniere di zolfo italiane, con conseguenti licenziamenti e proteste sindacali, che in Irpinia culminarono con il drammatico sciopero del Maggio 1955.

Fig. 4 - Facciata della miniera Di Marzo a Tufo

Fig. 5- Stabilimento minerario S.A.I.M. di Altavilla Irpinia

A ciò si aggiunse il catastrofico alluvione del 19 ottobre del 1961 (figg. 4a e 4b), evento non così raro in questo tratto del fiume Sabato, che danneggiò notevolmente gli stabilimenti, fortunatamente senza provocare perdite umane.

Di conseguenza, l’attività estrattiva si ridusse drasticamente, fino alla definitiva chiusura delle miniere tra il 1972 (Bosco della Palata) e il 1983 (S.A.I.M. – Isca della Palata), chiusure confermate solo molti anni dopo con l’accettazione delle rinunce alle concessioni mediante Decreti Ministeriale del 7 dicembre 1987 in GU 67/1988 (Isca della Palata) e del 27 aprile 1988 in GU 19/1989 (Bosco della Palata).

Attualmente lo stabilimento della S.A.I.M. è ancora in attività limitatamente alla lavorazione dello zolfo proveniente da operazioni di desolforazione di combustibili fossili.

Lo sciopero del maggio 1955 e l’alluvione del 1961


È l’altavillese Emilio Tartaglia a raccontare i giorni del drammatico sciopero del maggio 1955: «Fu uno sciopero lungo… C'era la Celere. Volevano licenziare 153 persone. Io ero caporale e volendo, avrei potuto non partecipare allo sciopero, come facevano altri caporali. Ma da vecchio socialista, non potevo tirarmi indietro. Mi misi contro tutti per mantenere le posizioni a fianco degli scioperanti. Pure la polizia era contro di noi. Ci fu un'assemblea e venni ai ferri corti con quelli che volevano farci scendere a lavorare. Lo sciopero si inasprì e facemmo l'occupazione della miniera. La miniera era luogo privato, non suolo pubblico. Eppure, un giorno ci fu la carica dentro la miniera, carica che non si poteva fare. C'erano anche le donne di Altavilla con noi. Vennero tutte. Ce n'era una che aveva molto coraggio, nota come 'a mbriaca. Il maresciallo dei carabinieri con il quale ero in confidenza mi chiamò in disparte e disse: Tartaglia, voi vi guardate il pane vostro, noi il nostro. Avevano già il piano pronto carabinieri e poliziotti: poco dopo ci caricarono con i manganelli. Quella donna entrò in azione come una furia: afferrò i genitali di un poliziotto e glieli tirò gridando improperi. Mirava, evidentemente, a bloccarlo con il dolore che gli procurava la stretta improvvisa. E visto che la resistenza continuava, dovettero essere i padroni a sollecitare la carica che non si poteva fare, ripeto, perché eravamo su suolo privato e non si bloccava il traffico stradale. In questa occasione non stavamo insieme con gli operai di Tufo. La nostra era una lotta interna, tutta nostra. Lo sciopero finì per consumazione... Non ci fu concesso l'aumento che volevamo. Restammo tutti scontenti». [G. Troisi, 2003]

La crisi del settore non lasciava spazio alle speranze, nel Texas lo zolfo saliva in superficie sotto la spinta di getti di vapore (metodo Frasch), non si poteva competere sui mercati sempre più internazionali. 

Il lavoro continuava, anche se il numero di minatori, che nel momento di maggiore espansione aveva raggiunto le 800÷850 unità, andava sempre più diminuendo, poiché quelli che andavano in pensione non venivano sostituiti dai nuovi assunti.

Finché, nell’ottobre del 1961, arrivò il colpo di grazia.

Dopo molti giorni di pioggia un'enorme quantità di materiale di accumulo si era ammassata davanti all'arco del ponte di Prata fino a formare un lago immenso che arrivava fino ad Arcella.

Quando il ponte di Prata cedette, un’ onda gigantesca iniziò ad avanzare con velocità devastante travolgendo tutto ciò che incontrava (figg. 6-7) e dirigendosi verso gli imbocchi minerari.

Per oltre dieci minuti da un cantiere minerario all’altro risuonò l’ordine dell’ing. Galeotti di abbandonare la miniera, ma nelle viscere della terra non si avvertiva il pericolo e l’uscita dei minatori non avvenne con la sollecitudine che la situazione richiedeva.

Il fiume continuò a salire e i “tavoloni" messi a protezione degli imbocchi non riuscirono più a trattenere l’acqua che scese impetuosa lungo le gallerie e che, nella disperazione generale, andò ad aggiungersi a quella che da qualche minuto non era più aspirata dalle pompe, poiché anche la centrale elettrica si era arresa alla furia devastatrice del fiume. 

Alla fine i soccorritori cedettero all’impeto della piena, ma in miniera erano rimasti ancora una trentina di minatori che non erano riusciti a guadagnare l’uscita. 

Cominciarono ore d’angoscia.

Una squadra di soccorso riuscì a individuare una quindicina di minatori radunati in fondo al pozzo di areazione e a trarli in salvo, tirandoli in superficie mediante una corda calata nel pozzo.

Mancavano, però, all’appello ancora i 18 minatori di una squadra che, risalendo dal sesto livello, avevano tentato tutte le strade per raggiungere l’esterno, ma inutilmente, bloccati al primo livello dal franamento totale delle gallerie provocato dall’onda di piena che era ormai defluita.

Fig. 6 - L’alluvione del 19 ottobre 1961 ad Altavilla Irpina

Fig. 7 - Il ponte sul fiume Sabato distrutto dall’alluvione del 19 ottobre 1961

Quando tutto sembrava perduto, soccorritori e dispersi riuscirono a comunicare battendo sul tubo dell’aria compressa rimasto intatto sotto la frana.

Individuatane la posizione, in breve tempo fu scavato un passaggio e tutti i minatori mancanti poterono uscire all’aperto.

Fu l’unico momento di gioia di una giornata terribile. Quella piena travolse proprio tutto, anche i sogni e le speranze di centinaia di famiglie che furono sradicate dalla propria terra per disperdersi in ogni angolo del mondo.