Zolfo in Emilia-Romagna

La distribuzione dei siti a livello territoriale

Nella fig.1a è mostrata la distribuzione territoriale, articolata a livello comunale, dei 21 siti di estrazione dello zolfo tutti concentrati di provincia di Forlì-Cesena [1], la cui localizzazione topografica è riportata in fig. 1b.


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[1] Come già ricordato in questa sede non sono state considerate le 3 concessioni del gruppo di Perticara, attualmente in provincia di Rimini ma storicamente in quella di Pesaro-Urbino (Marche).

Fig. 1a - Distribuzione territoriale a livello comunale dei siti di estrazione dello zolfo in Emilia-Romagna

Fig. 1b - Giacimenti di zolfo nel Cesenate


Geologia e giacimentologia

I giacimenti di zolfo nella provincia romagnola di Forlì-Cesena costituiscono un bacino estrattivo importante che, insieme a quello marchigiano, ha rappresentato il bacino solfifero italiano più grande dopo la Sicilia.

Nel Cesenate lo zolfo si trova associato a un banco calcareo riconosciuto sia in superficie, sia in vaste parti del sottosuolo, di spessore intorno al metro e, nei casi più favorevoli, anche di qualche metro.

Il cristallo di zolfo “la pedra”, usando un termine dialettale dei minatori, o la pedra di zolfo, come veniva indicata nel sec. XVII dal naturalista bolognese Luigi Ferdinando Marsili, giace alla base della Formazione “gessoso-solfifera” del Miocene superiore (Messiniano), depostasi in un ambiente marino-lagunare tra 6.6 e 5.1 milioni di anni fa durante la cosiddetta "crisi di salinità del Mediterraneo".

A letto e a tetto della Formazione “gessoso-solfifera” sono presenti altre formazioni geologiche messiniane, denominate rispettivamente "tripoli” e "argille a colombacci".

La prima formazione è costituita da sottili sequenze torbiditiche e non torbiditiche caratterizzate, nel primo caso, da arenaria-pelite e, nel secondo caso, da peliti emipelagiche, cioè da fanghi che si deponevano nelle conoidi sottomarine lungo la scarpata continentale tra una sequenza torbiditica e l'altra.

Nella parte più alta di tale successione di strati che soggiacciono alla “gessoso-solfifera”, si ha una netta predominanza della componente marnoso-argillosa (marne di letto), nota nel gergo minerario come ghioli rigati bianchi, spessa alcune decine di metri e corrispondente ai tripoli e alle marne tripolacee della letteratura geologica.

Si tratta di un’alternanza di strati marnoso-argillosi bituminosi e di biosiltiti silicee biancastre fossilifere ricche di resti di alghe (Diatomee) e di altri organismi unicellulari (Radiolari) e di pesci.

L'ambiente di deposizione di questi ultimi terreni non era più di mare profondo, come quello dei terreni sottostanti, ma evolveva, a seguito di una generale regressione marina che aveva interrotto anche le comunicazioni tra il Mar Mediterraneo e l'Oceano Atlantico, a un ambiente marino di tipo neritico sempre meno profondo. Si aveva così una circolazione di acque marine molto ristretta che permetteva la fioritura algale i cui resti, costituiti da frustuli silicei, piovevano sul fondo marino insieme al fango, foraminiferi e pesci. Lo strato di acqua superficiale si isolava sempre più da quello di fondo che non venendo adeguatamente ossigenato diventava anossico, asfittico e quindi riducente (anaerobico).

In tali condizioni, dette anche eusiniche (da Euxinus, nome romano del Mar Nero, in cui si trovano attualmente queste condizioni ambientali), la sostanza organica caduta sul fondo poteva conservarsi ed essere trasformata, in parte, dai batteri anaerobici in una fanghiglia nerastra bituminosa.

I complessi litologici qui sopra indicati vengono pure denominati complessi pre-evaporitici perché precedono l'instaurarsi di un bacino marino-lagunare evaporitico entro il quale si depositeranno prima un gruppo di livelli calcarei (calcare di base o cagnino secondo la terminologia dei minatori) e poi una sequenza di strati di gesso (detti seghe di gesso) alternati da sottili stratificazioni marnoso-argillose con resti di foglie ed altri organismi (ghioli).

Nella Romagna orientale, entro cui si trova il Cesenate, tra il calcare di base e i gessi soprastanti si interpone un banco di calcare solfifero, fenomeno che non si riscontra nella Romagna occidentale, in corrispondenza della caratteristica "Vena del gesso", dove al calcare di base fanno seguito una quindicina di strati di gesso alternati da livelli di peliti o fanghi eusinici, spesso ricchi di impronte di foglie fossili.

Sorge, quindi, il problema della genesi dello zolfo nella “gessoso-solfifera” tra le valli del Montone e del Marecchia e nelle Marche settentrionali dove furono aperte numerosissime miniere di zolfo.

Per quanto riguarda il calcare di base, esso ha una grande estensione areale e si ritrova dalla Romagna alle Marche e alla Sicilia nella stessa formazione del Messiniano.

Al contrario di quanto succede nella Romagna occidentale, la sequenza di strati gessosi che - nel settore cesenate, nella Romagna orientale e nelle Marche - ricopre il calcare di base è formata da un tipo di gesso a grana fine, stratificato, screziato di bianco, bruno o violaceo. Domina, cioè, il cosiddetto gesso balatino ed è quasi assente il gesso selenite in macrocristalli.

Si individuano così due litofacies della “gessoso-solfifera”: la litofacies emiliana, composta in prevalenza da gesso macrocristallino (selenite) e la litofacies romagnolo-marchigiana caratterizzata dalla presenza di gesso microcristallino stratificato (balatino) e da sabbie gessose (gessarenite).

La distribuzione areale delle due litofacies non è molto netta, avendosi nel cesenate anche affioramenti della litofacies emiliana.

E' interessante notare che i giacimenti di zolfo non si trovano nella litofacies emiliana ma in quella romagnolo-marchigiana.

La litofacies romagnolo-marchigiana, che contiene gli stessi intervalli gessosi della "Vena del gesso", può considerarsi una continuazione del bacino evaporitico emiliano, ma occupante una zona dove le acque erano più profonde e quindi una zona più distante dalla costa. La formazione dei banchi di gesso potrebbe in tal caso essere stata in parte originata in posto e in parte risedimentata per arrivo di materiale detritico gessoso dalle aree più costiere mediante il meccanismo delle frane sottomarine, le stesse che regolano le sequenze torbiditiche.

La “gessoso-solfifera” sia emiliana, sia romagnolo-marchigiana, è ricoperta, come detto, dalle "Argille a colombacci" del Messiniano superiore.

Con il termine colombacci si intende una successione di straterelli calcarei marnosi di colore biancastro in strati piano-paralleli dello spessore di pochi decimetri, separati da sottili livelli argillosi. Essi costituiscono un orizzonte guida perché si ritrovano nella stessa posizione stratigrafica su vasti territori e formano un complesso argilloso-marnoso che ricopre a tetto la “gessoso-solfifera”.

La presenza di questi depositi sta a significare che ad un certo momento il bacino evaporitico romagnolo cessa di esistere. Prima viene sommerso da acque dolci, poi da acque salmastre e, infine, da acque marine atlantiche che superano in maniera massiccia lo stretto di Gibilterra.

Finisce così il Messiniano e ha inizio il ciclo del Pliocene durante il quale si manifestano importanti movimenti orogenetici che fanno emergere gran parte dell'Appennino romagnolo.

In questa fase e nelle successive la “gessoso-solfifera” venne sepolta, piegata e dislocata. Non si trattò solo di eventi di natura meccanica ma anche di natura fisico-chimica ai quali si associò l'attività dei batteri solfato-riduttori. Si innescarono così reazioni che liberarono lo zolfo che era contenuto nel gesso, o nell'anidrite, sotto forma di solfato di calcio.

Lo zolfo non si concentrò nei suoi giacimenti per migrazione ma per trasformazione in posto del gesso ad opera dei batteri, secondo le seguenti reazioni chimiche che, a partire da gesso (CaSO42H2O) e metano (CH4), portano alla formazione di calcite (CaCO3) e zolfo nativo (S) dando luogo al calcare solfifero:

2(CaSO42H2O)+2CH4 Ca(HS)2+CaCO3+CO2+7H2O

Ca(HS)2+CaCO3+CO2+7H2O 2CaCO3+2H2S+6H2O

2H2S+O2 2S+2H2O

A quest'ipotesi di genesi dello zolfo (epigenetica) si contrappone quella singenetica, che prevede la formazione di zolfo insieme alla deposizione del gesso.

Anche in questo caso, comunque, è essenziale la partecipazione dei desolfobatteri nella riduzione del gesso, che però sarebbe avvenuta ancora in soluzione facendo precipitare contemporaneamente carbonato di calcio e zolfo.

Successivamente, aumentata la concentrazione salina e diventato l'ambiente tossico per i desolfobatteri, il gesso avrebbe ripreso a depositarsi sopra il calcare solfifero.


Da un punto di vista stratigrafico, nelle miniere cesenati lo strato solfifero si interponeva sempre tra il cagnino a letto e il primo strato di gesso (segoncello) a tetto. Undici strati di gesso (seghe di gesso) con altrettanti strati di marne intercalate coprono ovunque i depositi zolfiferi.

Nel XIX secolo, nella zona di Formignano, sulla base degli studi di Giuseppe Scarabelli, fu seguita in dettaglio la successione stratigrafica in occasione dell'esecuzione di un pozzo.

I terreni, dal basso verso l'alto, avevano le seguenti caratteristiche litologiche:

  1. pietra zolfifera che si univa al basso con il calcare detto cagnino, spessore m 3.00;

  2. undici strati (seghe) di gesso compatto [2] con intercalazioni di marne, spessore complessivo m 13.80;

  3. marne con masse sferoidali di gesso cristallizzato, spessore m 49.50;

  4. gesso in grosso strato (segone), spessore m 1.60:

  5. al di sopra di queste stratificazioni si avevano altri strati marnosi con cogoli di gesso, noduli di zolfo e venature di gesso fibroso (sericolite) per uno spessore totale di m 32.13.


Nelle miniere cesenati lo zolfo, seppure discontinuo, è sempre localizzato nello stesso orizzonte geologico, mentre in quelle marchigiane (Perticara e Ca' Bernardi) si ritrova anche nei gessi soprastanti e in connessione a faglie e a fratture.

Si potrebbe così ipotizzare che a una prima fase singenetica di deposizione dello zolfo (Romagna) sarebbe seguita una seconda fase epigenetica (Marche) indotta dal riattivarsi, attraverso le faglie, di una circolazione di acque ossido-riducenti che, innescando un adeguato ambiente batterico, provocarono una ulteriore trasformazione dei gessi con deposizione di nuovo zolfo.


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[2] I minatori cesenati avevano da a ciascuno strato un nome dialettale, dall'alto in basso: sega morta (2°), sega dei nodi (5°), sega grossa (6°), sega rossa (7°), sega maestra (10°), coperchione (11°).

Cenni storici

Pur se esistono testimonianze, soprattutto di carattere toponomastico [3], che fanno risalire le prime estrazioni dello zolfo in Romagna già ad epoca romana, il più antico documento conosciuto in materia si trova nell’archivio arcivescovile di Ravenna e risale al 1047: «ottobre, Bulgarello, abate del monastero di S. Eufemia di Ravenna dà in enfiteusi a Berardo Saraceno di Oterico "unam curtem Burum" sita in territorio di Cesena nella pieve di S. Pietro in Sulferina».

La pieve di S. Pietro in Sulferina è sicuramente da identificarsi con l’attuale paese di Borello, in comune di Cesena, alla confluenza del torrente omonimo con il fiume Savio, e centro del bacino minerario solfifero del Comprensorio cesenate.

Nel XIV secolo la richiesta di zolfo in Europa aumentò rapidamente in quanto elemento essenziale della polvere da sparo, importata dall’ Estremo Oriente e ampiamente utilizzata per scopi bellici e civili. Si sfruttarono diversi giacimenti di zolfo e numerosi mulini per la produzione della polvere da sparo apparvero vicino alle miniere, lungo il fiume Savio e il torrente Borello.

Dal XV-XVI secolo in avanti i documenti a testimonianza di questa attività divengono più numerosi: tra tutti la Bolla di Papa Paolo III del 1535 con cui si stabiliva che «solo i cittadini cesenati o loro comitati possono estrarre, fondere e commercializzare lo zolfo purché non venga ceduto agli infedeli. Sono abolite tutte le concessioni date dai Papi predecessori», in particolare il privilegio o monopolio che Papa Clemente VII aveva accordato alla famiglia di Bartolomeo Valori di scavare miniere nel territorio Cesenate.

Lo zolfo prodotto nell’alta collina dell’Appennino, seguendo il fiume Savio, confluiva in parte a Cesena e poi al porto di Cesenatico, punto importante per la commercializzazione del prodotto, creando di fatto una “via dello zolfo”. Da qui veniva imbarcato su battelli di piccolo cabotaggio e trasportato al porto di Ancona dove veniva trasbordato su velieri più grandi e prendeva la via della Spagna e delle Fiandre, che si stavano avviando a diventare il motore dell’economia mondiale. Il commercio dello zolfo doveva essere in quegli anni fiorente se si pensa che Leonardo da Vinci nel disegno della pianta del porto di Cesenatico (fig. 2), realizzato nel 1502 su commissione del Duca Cesare Borgia, detto “il Valentino”, prevedeva di progettare il prolungamento di un canale sino a Cesena con l’immissione delle acque del fiume Savio.

Il primo resoconto dettagliato dell’attività nella zona è datato 1676 ed è dello studioso Luigi Ferdinando Marsili, che registrò la sua visita in Romagna, elencando e localizzando tutte le miniere attive e descrivendo il metodo di estrarre zolfo dal minerale attraverso le "olle", vasi in terracotta resistente al fuoco usate per la distillazione dello zolfo (fig. 3).

Nel 1759 lo scrittore e poeta locale Vincenzo Masini pubblicò un poema dal titolo “Il zolfo” (fig. 4), in cui i metodi di estrazione, la localizzazione dei pozzi e la produzione venivano descritti in versi, come era usuale nella letteratura italiana del XVIII secolo, con l’aiuto di dettagliati disegni.

Nonostante quella che sembra un’ampia attività, una legislazione di una certa importanza appare solo nel 1796. Da questa data la licenza mineraria veniva rilasciata dal Prefetto della Provincia di Forlì secondo un’istanza pubblica in cui «si previene il pubblico, che chiunque avesse pretese e diritti per lo scavo della indicata miniera, debba entro il termine prefisso di tre mesi, oggi decorrenti, presentare le proprie istanze al mio ufficio miniere, spirato il quale non si avrà più alcun riguardo a qualunque titolo di anteriorità o diritto».

Alla fine del XVIII secolo lo zolfo iniziò ad essere impiegato per produrre acido solforico, uno degli elementi base più importanti della "rivoluzione chimica", richiesto dal mercato in quantità sempre maggiore .

Oltre all’industria chimica, le frequenti guerre in Europa richiedevano una costante fornitura di zolfo per le armi.

La produzione di zolfo nazionale decollò a partire dal XIX secolo, quando l'Italia assunse un ruolo dominante nella produzione mondiale, di cui la Sicilia deteneva ben il 75% e l’area Romagna-Marche il 5%, occupando il 1° e il 2° posto. L’esportazione era diretta verso paesi europei come Francia, Regno Unito, Germania e Stati Uniti.

Nell’area Romagna-Marche ebbe un forte impatto sull’economia locale, che era basata principalmente sull’agricoltura: all’inizio del XIX secolo c’erano approssimativamente 135 pozzi minerari nell’intera area.

In Sicilia come in Romagna e nelle Marche, l’industria solfifera era considerata come la ‘nuova’ industria in cui investire e aveva provocato una vera e propria “corsa allo zolfo”, che prima attrasse imprenditori locali e poi, a causa degli alti finanziamenti necessari, Società per azioni con investitori stranieri, inizialmente dalla Francia e, dopo il 1870, dal Regno Unito.

Ciononostante, i costanti alti e bassi del prezzo dello zolfo sul mercato portarono a un susseguirsi di momenti di ottimistica sovrapproduzione, seguiti da improvvise chiusure di miniere che pure avevano prosperato l’anno precedente.

Il problema principale delle miniere dell’area Romagna-Marche era la competizione con lo zolfo siciliano, che era più economico sul mercato nazionale e internazionale poichè:

  • i depositi di zolfo siciliano erano più numerosi e più estesi;

  • l’escavazione in Sicilia era più facile, spesso con il sistema “a cielo aperto”, mentre in Romagna-Marche le vene di minerale erano sparse, sottili, profonde e inserite tra strati di minerale fragile che rendevano l’escavazione un processo lungo e costoso;

  • la media delle paghe era più bassa per i minatori siciliani, molti dei quali erano bambini sottopagati;

  • in Sicilia i costi di trasporto per mare erano molto più bassi che in Romagna, dove la mancanza di infrastrutture di comunicazione influenzavano il prezzo di vendita.


I produttori in Romagna decisero quindi di investire nella qualità del prodotto e di esportarlo raffinato, per attrarre nuovi mercati ed essere in grado di competere con lo zolfo siciliano.

Le diverse norme che nelle varie regioni italiane regolavano l’attività mineraria ebbero naturalmente un forte impatto sull’industria mineraria in Sicilia e in Romagna.

Nella prima la superficie e il sottosuolo appartenevano al proprietario terriero che poteva decidere se coltivare la miniera o affittarla.

Questa situazione, che finì per favorire la frammentazione del capitale e dei siti minerari, gestiti spesso da piccole compagnie a basso budget che dovevano utilizzare metodi produttivi tradizionali e antieconomici, si protrasse fino al 1927, anno in cui fu emanato il regio decreto n. 1443 che ancora oggi regola l’attività estrattiva in Italia.

In contrasto con ciò che succedeva in Sicilia, in Romagna la legislazione, il cui principio ispiratore sin dal XVI secolo prevedeva che il sottosuolo fosse proprietà dello Stato, a cui solo spettava il diritto di concedere in licenza il suo uso, favoriva la concentrazione di capitali e siti minerari e il costituirsi di grandi compagnie in grado di tenersi aggiornate con la modernizzazione dei metodi e delle tecniche di lavorazione.

Nel 1870 la maggioranza delle miniere in Romagna era esercita da due gruppi principali: la “Società anonima delle miniere di zolfo di Romagna”, e la “Società Natale Dell’Amore & C.”.

Un’altra importante società era la “Cesena Sulphur Company ltd”, con sede a Londra.

La competizione a livello mondiale, già alimentata dalla crescente domanda di zolfo per l'industria chimica, fu sempre più difficile da sostenere soprattutto quando, all’inizio del XX secolo, l’impiego del processo Frasch (fig. 5), un metodo di estrazione messo a punto da poco e più economico, portò ad un irreversibile mutamento nel mercato mondiale [4], in quanto particolarmente adatto ai grandi, ricchi e integri bacini solfiferi di Texas e Louisiana, che potevano anche disporre di grandi quantità di acqua e combustibile a basso costo.

Nel 1912 gli Stati Uniti divennero il primo fornitore mondiale con 788,000 tonnellate, superando per la prima volta la fornitura italiana e provocando un forte calo del prezzo dello zolfo, grazie all'economicità del processo di estrazione Frasch.

Nel 1917, durante la Prima Guerra Mondiale, per il costante aumento delle richieste di zolfo a causa della guerra, la Montecatini decise di dedicarsi allo zolfo, acquisendo tutte le miniere dell’area romagnola e chiudendole in pochi anni, tranne quella di Formignano.

Nel lungo periodo lo zolfo americano avrebbe significato la fine dell’industria solfifera italiana, ma ancora tra le due guerre mondiali l’industria dello zolfo fu una di quelle favorite dalla politica protezionista del governo fascista.

Fig. 2 - Disegno di Cesenatico e del suo porto nel Codice L di Leonardo da Vinci (1502)

Fig. 3 - Il sistema di olle per la distillazione dello zolfo nelle Marche e in Romagna

Fig. 4 - "Il zolfo" Poema in tre libri di Vincenzo Masini (1759)

Fig. 5 - Schema del metodo Frasch di estrazione dello zolfo per dissoluzione direttamente dai pozzi

Negli anni 1938-1940 la produzione in Marche e Romagna fu mediamente tra 110,000 e 120,000 tonnellate, superando il 30% della produzione nazionale, il massimo realizzato fino ad allora.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, la competizione con lo zolfo americano divenne insostenibile per i produttori italiani.

Le miniere principali rimasero aperte sino al 1984 in Sicilia e fino al 1962-64 in Marche e Romagna.


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[3] La miniera detta “Sulfaranaccia”, ubicata nella valle alla confluenza del rio Boratella nel fiume Savio, era certamente conosciuta dai Romani ed è attestato l’utilizzo di schiavi.

[4] Per approfondimenti sul processo Frash e le politiche adottate per fare fronte alla concorrenza americana e sostenere lo zolfo italiano vedere il capitolo relativo alla Regione Sicilia.

Evoluzione temporale dell'attività estrattiva

L'istogramma di fig. 6, che riporta il numero di concessioni attive dal 1870 al 2019, mostra come lo sviluppo della coltivazione dello zolfo inizi tra 1870 e il 1875, si mantenga tra un minimo di 13 concessioni attive, nel 1875, e un massimo di 18 tra il 1915 e il 1925, dopo di che il numero si riduce, sia per abbandono delle coltivazioni sia per accorpamento delle concessioni (gruppi Boratella e Formignano), per chiudere definitivamente nella prima metà degli anni '60.

Fig. 6 - Evoluzione temporale delle concessioni attive di zolfo in provincia di Forlì-Cesena