Zolfo in Calabria

La distribuzione dei siti a livello territoriale

In fig.1 è mostrata la distribuzione territoriale, articolata a livello comunale, dei 17 siti di estrazione dello zolfo in Calabria, tutti in provincia di Crotone.

Geologia e giacimentologia

Anche in Calabria i giacimenti di zolfo sono localizzati all’interno degli strati gessosi del gruppo gessoso-solfifero formatosi in corrispondenza della crisi di salinità del Mediterraneo nel Miocene superiore (Messiniano, ca. 6 Ma), che in regione è localizzato nella provincia di Crotone, nell’area individuata dai comuni di San Nicola dell’Alto, Strongoli, Casabona e confinanti.

La formazione solfifera che interessa queste miniere è rappresentata, in particolare nella miniera di S. Maria al Comero, da una successione di strati concordanti a ganga calcarea, separati da straterelli di gessi microcristallini laminati (balatini), argille bituminose [1] e arenarie, per uno spessore complessivo medio di 35 m ca, racchiuso tra i gessi di tetto e il tripoli a letto.

Gli strati solfiferi si succedono, dall’alto in basso, come segue:

  1. strato di spessore variabile tra 0.5 e 3 m, denominato “la nave”;

  2. strato con potenza tra 1 e 6 m, di forma lenticolare e tenore non sempre sufficiente alla coltivazione, denominato “il riporto”;

  3. strato, articolato in due straterelli della potenza complessiva di ca. 1.50 m non sempre sufficientemente ricchi da essere coltivati, denominato “il cugno”;

  4. strato generalmente a tenore basso della potenza media di 1.25, denominato “la bastarda”;

  5. strato, articolato in due cugni dello spessore di 1.5 m, separati da un sottile strato di gesso palatinato di 40 cm con tenori in zolfo variabili.


Nell’area delle miniere di zolfo del Crotonese, la presenza di una struttura di particolare evidenza tettonica come la grande faglia trascorrente di S. Nicola, che corre in direzione E-O da Strongoli fino alla Sila, è all’origine delle discontinuità e della complessa situazione geometrica delle mineralizzazioni e ha notevolmente influenzato sia le tecniche di coltivazione che la stessa redditività delle miniere.

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[1] Nei primi decenni del ‘900 la miniera di zolfo del Comero produceva fino a 20 kg di petrolio grezzo al giorno, che veniva raccolto per gocciolamento e utilizzato per il funzionamento delle pompe.

Fig. 1 - Distribuzione territoriale a livello comunale dei siti di estrazione dello zolfo in Calabria

L'evoluzione temporale dell'attività mineraria

In fig. 2 è riportata l'evoluzione temporale del numero di concessioni vigenti di zolfo: si osserva un andamento in continua ascesa fino al massimo di 14 negli anni ’20 del XX secolo, cui segue un’improvvisa caduta a 8 concessioni vigenti nel 1930 in progressiva e lenta diminuzione fino alla totale chiusura dell’estrazione di zolfo nella seconda metà degli anni ’80.

Come è avvenuto in maniera assai più cospicua in Sicilia (Premessa al relativo capitolo), la scomparsa delle concessioni nella seconda metà degli anni ’20, più che all’esaurimento dei giacimenti va fatta risalire all’emanazione di quella che ancora oggi può essere considerata la legge quadro dell’attività mineraria in Italia, il Regio Decreto n. 1443 del 29/07/1927.

Tale RD, infatti, ha introdotto nella legislazione italiana il principio di “demanialità” per i beni del sottosuolo, da cui il regime della concessione, poiché «…La scienza ha condannato, e per sempre, la concezione formale e manifestamente irrazionale del diritto di proprietà, posto a fondamento del sistema fondiario. La proprietà, oltre che come un diritto, è sempre più intesa come un dovere sociale. Le facoltà del proprietario possono e debbono armonizzarsi con le esigenze crescenti della consociazione civile. D’altro canto le necessità della pubblica economia consigliano, oggi più che in passato, di svincolare la disponibilità del sottosuolo da quella della superficie. Il superficiario raramente possiede le capacità tecnica ed economica che sono indispensabili per condurre le complesse aziende minerarie. Il più delle volte, il suo intervento è puramente negativo, con pretese smodate di fronte alle quali cadono le iniziative più ardimentosi.

Tali gravissimi inconvenienti sono irrefutabilmente confermati dalla lunga esperienza fatta nelle regioni ove vige tuttora il sistema fondiario. Forme dell’attività mineraria, che la natura del sottosuolo e lo sviluppo della tecnica consentirebbero con profitto e forse con fortuna, vivono tristemente o non sorgono affatto. Nella Toscana e in Sicilia abbondano, purtroppo, gli esempi.

Di fronte a tali necessità manifeste, il Governo non poteva rimanere incerto, e, ripudiando la concezione fondiaria, al pari dell’ibridismo proprio delle forme intermedie, informò il nuovo sistema legislativo al principio della demanialità, perché, meglio d’ogni altro, consente la razionale disciplina delle attività rivolte alla valorizzazione del sottosuolo…» [2].

All’epoca, in Calabria, vigeva ancora la legge Napoletana 27 ottobre 1826 che attribuiva al proprietario del terreno la disponibilità delle sostanze minerali esistenti nel sottosuolo, dietro pagamento di un estaglio o gabella stabilita in una certa percentuale per ogni quintale di zolfo estratto.

Di conseguenza, molti siti minerari coltivati originariamente per diritto di proprietà non furono ufficializzati mediante il rilascio di una concessione e di loro non c’è più traccia nelle Relazioni del servizio Minerario successive al 1927.

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[2] Dalla Relazione di presentazione del RD 1443/1927 del Ministro Segretario di Stato per l’economia nazionale (Giuseppe Belluzzo) al Re.

Per quanto riguarda più specificatamente i dati [3] di produzione e occupazione delle miniere di zolfo crotonesi, riassunti in tab. 1 e fig. 3, da loro esame risulta:

  • a differenza di quanto è avvenuto in quelle irpine (vedi cap. su Regione Campania), in queste miniere non è stato prodotto zolfo molito ma solo zolfo fuso, in proporzione media rispetto al minerale solfifero pari al 10% [4];

  • nel periodo 1878÷1894, in cui si hanno solo i dati relativi allo zolfo fuso, la produzione varia tra un minimo stimato di 1,035 ton (1878) a un massimo di 18,892 ton (1888). Dal 1882 al 1894 gli occupati sono sempre maggiore di 380 unità con un massimo di 939 nel 1888;

  • nel periodo 1896÷1907 la produzione di minerale è sempre superiore alle 30,000 ton con massimo pari a 62,930 nel 1897. Contemporaneamente l’occupazione è maggiore di 300 unità con una punta massima di 661 nel 1899;

  • tra il 1913 e il 1940 la produzione di minerale supera quasi [5] costantemente le 13,000 ton, con un massimo di 42,646 nel 1914.

Nello stesso periodo:

    • lo zolfo fuso va da un minimo di 58 ton (1922) a un massimo stimato di 3,903 nel 1939;

    • escluso il triennio 1922÷1924, l’occupazione supera le 100 unità con massimo di 216 nel 1920;

    • nel biennio 1951-1952 è segnalata una produzione di minerale solfifero tra le 40,000 e le 50,000 ton, con una produzione stimata di zolfo fuso di 6,949 ton nel 1952.


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[3] I dati sono ricavati dalle Relazioni annuali del Servizio Minerario (RSM 1878÷1940). Poiché tali dati sono riportati solo episodicamente, le tabelle presentano molte lacune, ma sono comunque utili a descrivere il trend produttivo e occupazionale delle miniere. I dati affidabili per completezza si fermano al 1940, con un appendice nel biennio 1951-1952, relativamente al solo minerale estratto.

[4] Valore medio calcolato sulla base delle corrispondenti produzioni negli anni in cui sono registrati entrambi i valori (1917÷1937).

[5] Fa eccezione il 1922, che fu un anno di forte diminuzione di produzione di zolfo in tutta Italia, con particolare riferimento alle regioni meridionali, Sicilia compresa, dove la produzione di zolfo scese da 299,527 a 156,271 tonnellate. Il fenomeno, che il Servizio minerario fece risalire principalmente a difficoltà relative alla manodopera, fu particolarmente grave nel Crotonese dove le miniere furono sostanzialmente inattive (530 ton di minerale e 58 di zolfo fuso) e la manodopera ridotta a 2 unità.

Fig. 2 – Evoluzione temporale delle concessioni vigenti di zolfo in Calabria

Tab. 1 - Produzione di minerale solfifero, zolfo e occupati nelle miniere del Crotonese (Fonte RSM)

Fig. 3 - Grafico della produzione di minerale solfifero e zolfo e occupati nelle miniere del Crotonese (Fonte RSM)

Cenni storici


Non si hanno precise notizie circa l’epoca in cui furono praticati i primi lavori minerari per l’estrazione dello zolfo nel crotonese, sebbene durante i lavori sotterranei nelle miniere di Strongoli, siano stati ritrovati diversi oggetti (vasi di terracotta, monete, cesti, pezzi di legname) che farebbero risalire all’epoca greco-romana le prime estrazioni.

Anche se il grande sviluppo dell’industria solfifera si è avuto nel XIV secolo con l’invenzione della polvere pirica, già dai tempi di Catone, infatti, lo zolfo veniva utilizzato ampiamente per la coltura della vite, per sbiancare le lane, per il trattamento del vino e altre attività, come la realizzazione di fili impregnati di zolfo per accendere il fuoco o la fabbricazione di fiaccole.

L’attività mineraria, nel territorio crotonese, ha dovuto affrontare sin dalla sua nascita molte difficoltà, tra le quali la più seria è stata la mancanza pressoché assoluta di viabilità.

Fino ai primi del ‘900, infatti, il trasporto dello zolfo veniva effettuato a schiena di mulo o con i carri e i buoi sino alle stazioni ferroviarie di Strongoli e Torre Melissa.

La malaria infieriva in tutta la zona solfifera e ai lavoratori mancavano le forme più elementare di assistenza, l’acqua, la luce. Di conseguenza la manodopera risultava inefficiente e scarsamente qualificata.

Solo dal 1933 le miniere poterono disporre dell’energia elettrica erogata dalla rete nazionale, che veniva utilizzata per il sollevamento delle acque e il trasporto del minerale, oltre ad aiutare nei lavori di coltivazione, permettendo gli scavi a profondità elevate.

Nonostante queste difficoltà, i primi risultati promettenti si ebbero nel comune di Strongoli nel 1880, dopo un ventennio di ricerche senza grande successo nei comuni di Melissa e San Nicola.

Nel 1885 in località Quercia (miniera del Comero), si scoprì un importante ammasso di ottimo minerale, in gran parte già coltivato in passato, stante la presenza di grandi vuoti parzialmente riempiti di acqua.

Questo non impedì l’estrazione e con gli anni le buche crebbero in numero e dimensioni, con comprensibile impatto sulla sicurezza del lavoro e l’integrità del giacimento stesso.

In tali condizioni le lavorazioni divennero sempre più caotiche fino a sfociare in disastri, con crolli nei sotterranei e incendi.

Gli operai impiegati nei lavori di estrazione, che erano quasi tutti di provenienza del comprensorio di Strongoli, Melissa, San Nicola dell'Alto, Pallagorio e Verzino, raggiunsero il numero massimo di 939 unità nel 1888, anno in cui fu massima anche la produzione di zolfo fuso, che ammontò a 18,892 tonnellate (tab. 1, fig. 3), soprattutto grazie allo “straordinario rapido incremento acquistato durante l’anno da un lembo del giacimento solfifero di eccezionale potenza e ricchezza in contrada Quercia, Pietre Bianche e Granatello, circondario di Crotone...” (RSM 1888 pag. 277).

Come risulta dai dati riportati in tab. 1 e fig. 3, negli ultimi anni del XIX secolo la produzione ebbe un andamento assai variabile su cui pesarono almeno quattro fattori:


  • un sistema di coltivazione improvvisato e caotico, senza riferimenti tecnici e professionali riconosciuti;

  • la scoperta di nuovi giacimenti e il contemporaneo abbandono di cantieri non ancora adeguatamente sfruttati;

  • la ricaduta sulla produzione della forte variabilità del prezzo di mercato dello zolfo, come già avveniva in Sicilia;

  • l’impatto delle difficili condizioni di viabilità dell’area, dovendosi il trasporto eseguire su strade cattive “a schiena di mulo o con barrocci a buoi”, il che rendeva assai costoso portare il minerale estratto a Crotone.


Fu l’opera assidua e intelligente del perito minerario Antonio Nardi, che portò in Calabria l’esperienza acquisita in Sicilia, a contribuire dal 1901 al risanamento dei lavori sotterranei.

Nonostante il miglioramento delle tecniche di coltivazione, tuttavia, nel XX secolo la produzione andò diminuendo, in particolare dal primo dopoguerra, attestandosi, se si esclude il biennio 1922-1923, intorno a valori compresi tra 15,000 e 25,000 tonnellate annue di minerale grezzo e 1,500÷4,000 di zolfo nel periodo 1917-1939.

Si tratta di un andamento conforme a quello verificatosi, su scala ben più ampia, anche in Sicilia, soprattutto a causa della forte concorrenza dello zolfo americano, prodotto con il metodo Frasch a costi troppo bassi per essere sostenibili dall’industria solfifera italiana, quella meridionale in particolare, ché quella marchigiano-romagnola, pur subendo una diminuzione contenuta sotto il 10%, si riprese nei decenni successivi raggiungendo la produzione massima alla fine degli anni ’30.

Con l’entrata in vigore del RD 1443/1927 cessarono l’attività i 7 siti aperti per diritto di proprietà che non furono confermati da successivo rilascio di concessione.

Nel secondo dopoguerra, mentre i siti S. Domenica, Promiscui e Prato degli Arnagi furono sostanzialmente unificati rimanendo in attività insieme a S. Maria Comero e Comero, la produzione riprese fino a valori stimabili intorno alle 40÷50,000 tonnellate di minerale grezzo (1951-1952).

Ma nel 1957 il settore ripiombò in crisi a causa dello scoppio di grisù nella miniera di S. Domenica che provocò la morte di un operaio e il ferimento di altri.

Per prevenire altri incendi la parte della miniera dove c’era il grisù venne chiusa ma la ditta Vetta, che eserciva la miniera, non poté tenere più fede agli impegni presi con la società Montecatini per la vendita dello zolfo.

Per la sopravvivenza dell’attività estrattiva sarebbero stati necessari ingenti capitali che l’esercente non poté ottenere e così, nel 1959, si giunse alla chiusura dell’attività anche se i relativi DM di decadenza dei concessionari saranno emessi solo il 7 ottobre 1965 (Promiscui in GU 305/1965) e il 15 giugno 1970 (S. Domenica e Prato degli Arnagi in GU 212/1970).

Nel frattempo con DM 5 ottobre 1964 (GU 296/1964) era stata dichiarata la decadenza dei concessionari della miniera S. Maria Comero, eredi del defunto concessionario Sig. Francesco Massara.

Così all’inizio degli anni ’70, ma di fatto già negli anni ’60, rimase in attività la sola concessione Comero, trasferita con DM 5 ottobre 1964 (GU 296/1964) alla S.p.A palermitana Meridionale Mineraria.

L’attività estrattiva continuò stancamente fino al 1979 e nel 1980 fu autorizzata una prima sospensione annuale dei lavori, confermata negli anni successivi con richiesta di decadenza dei concessionari del 1982, accordata con DM 26 maggio 1988 (GU 226/1988).

Finì così la storia dello zolfo crotonese e quei paesi che dalla fine del XIX secolo erano diventati luoghi di immigrazione si trasformarono nel loro contrario: di emigrazione verso il Nord Italia e l’estero, spesso per lavorare in miniera.

Non è un caso se tra le 136 vittime italiane di Marcinelle in Belgio, circa 40 provenivano dai paesi del circondario dello zolfo crotonese: S. Giovanni in Fiore, Strongoli e S. Nicola dell’Alto.

Metodi di coltivazione


I metodi di coltivazione praticati, furono essenzialmente due: camere e pilastri e trance montanti con ripiena.

Nel primo, a partire da gallerie orizzontali si estraeva il minerale lasciando grandi vuoti con pilastri che mantenevano stabile lo scavo.

Tali lavorazioni, seguite in modo caotico ebbero effetti disastrosi causando spesso il crollo dell’intero sotterraneo.

Per forza maggiore, si dovette adottare un nuovo metodo di coltivazione, importato dalle miniere siciliane, tracciando livelli di estrazione a 25 m in verticale l’uno dall’altro, con un livello intermedio che nasceva in seguito alla coltivazione, che veniva fatta per fette lunghe 50 metri, abbattute trasversalmente da un livello al soprastante e da questo al livello superiore (trance montanti). All’abbattimento seguiva un riempimento con materiale ricavato da cave di prestito interne o con materiale di risulta della raffinazione dello zolfo (genisi).

Fino agli anni ’40 del secolo scorso l’abbattimento del minerale avveniva con il semplice uso di picconi (fig. 4a) e trasportato alla bocca della miniera a spalle dai “carusi”, giovani operai che svolgevano tale mansione nelle miniere e che furono al centro di molte contestazioni di piazza.

Solo successivamente il trasporto venne meccanizzato tramite vagonetti che correvano su rotaia e per l’abbattimento si usarono martelli pneumatici ad aria compressa, prodotta da motori a gasolio posti all’esterno (fig. 4b).

Fig. 4 - Coltivazioni nelle miniere del Crotonese negli anni ’40 (a) e ’60 (b)