Storia dello zolfo in Sicilia

Si è già sottolineata in Premessa l’incontrollata proliferazione delle miniere di zolfo in Sicilia, all’interno di un regime fondiario (legge di Ferdinando di Borbone del 17 ottobre 1826) che lasciava sostanzialmente mano libera ai proprietari dei latifondi, attraverso l'estensione della proprietà terriera al sottosuolo (art. 1).

In effetti, erano strettissimi i nessi che legavano l’industria dello zolfo a quella agricola delle campagne, in cui frumento e zolfo erano l’espressione di uno stesso sistema economico. Le due forme economiche si nutrivano di comuni reti di scambi commerciali e relazioni sociali, di medesimi modelli di produzione e organizzazione del lavoro e identici scambi contrattuali.

Il sistema politico che sottendeva all’organizzazione della campagne e delle miniere si materializzava nell’identificazione tra barone del grano e proprietario delle zolfare.

Nonostante ciò, tuttavia, l’industria solfifera siciliana di fine Ottocento e inizio Novecento riuscì a svolgere un importante ruolo economico non solo locale, ma di respiro europeo.

Dall'antichità all'Unità d'Italia

L’estrazione dello zolfo siciliano risaliva già ai tempi dei primi insediamenti greci nell’isola (XVI secolo a.C.), quando veniva utilizzato soprattutto per scopi rituali e farmaceutici.

Mentre non si hanno notizie documentali di coltivazioni in epoca romana [1], documenti del periodo arabo (IX÷XI secolo d.C.) parlano di estrazione dello zolfo fatto da picconieri che, a causa del forte calore, perdevano capelli e unghie.

I giacimenti affioranti venivano coltivati a vista, spesso dagli stessi contadini, seguendo la mineralizzazione e abbandonando la coltivazione non appena le vene si esaurivano.

La tecnica di separazione dello zolfo dalla roccia incassante era già quella della calcarella, rimasta in vigore fino a metà del XIX secolo quando fu sostituita dai calcaroni (vedi riquadro a fianco).

Molto più avanti, nel XV secolo, si registrò un maggiore interesse per il minerale in conseguenza della diffusione della polvere da sparo.

Questo sistema molto poco strutturato e assolutamente non industriale si protrasse fino al 1791, anno in cui fu brevettato il metodo ideato dal chimico francese Nicolas Leblanc per la fabbricazione della soda (carbonato di sodio, Na2CO3), attraverso le seguenti reazioni :

2NaCl + H2SO4 →2HCl + Na2SO4

Na2SO4 + CaCO3 + 4C → Na2CO3 + CaS + 4CO

Aumentando la richiesta di zolfo per produrre l’acido solforico (H2SO4), la nuova scoperta catapultò la Sicilia e le sue miniere nel mercato internazionale del minerale. Tra le più importanti realtà figuravano le miniere di Grottacalda, Trabonella e Iuncio (Caltanissetta), Floristella e Gallizzi (Enna) e Gallitano (Mazzarino), mentre i porti dell’area sud-occidentale, Licata, Porto Empedocle e Siculiana, diventarono importanti centri di spedizione.

Nonostante i problemi strutturali già più volte ricordati, nella prima metà del XIX secolo, dopo la fine dell’esperienza napoleonica, lo zolfo rappresentò il settore trainante dell’economia siciliana, che per lungo tempo godette di una sorta di monopolio del mercato solfifero mondiale, superando il 90%.

Le miniere attive, che nel 1830 erano 83 con un’occupazione di 1,300 operai per una produzione annua di 15,000 tonnellate, nel 1837 erano già 182 con una produzione di 65,000 tonnellate.

I maggiori importatori erano, allora, le industrie chimiche europee, in particolare inglesi e francesi, mentre per i fabbisogni nazionali si ricorreva al minerale proveniente dalla Romagna e dalle Marche.

La possibilità di guadagni facili portò, in un sistema disorganizzato quale quello dello zolfo siciliano, a un incremento incontrollato dell’estrazione, con la diretta conseguenza di uno sfruttamento eccessivo di risorse e uomini e di una sovrapproduzione che fu all’origine della prima grande crisi del settore nel 1836.

Per contrastare tale crisi, il governo borbonico di Ferdinando II, nel 1838, offrì un accordo vantaggioso alla compagnia francese Taix-Aycard & C. che comprendeva:

  • il monopolio del commercio degli zolfi per dieci anni, durante i quali la compagnia si impegnava ad acquistare un quantitativo di zolfo pari ai 2/3 di quello estratto dalle miniere siciliane nell’anno precedente a quello della firma del contratto, con un limite di 600.000 cantara (1 cantaro siciliano = 80 kg ca.), considerato il massimo assorbibile dal mercato internazionale;

  • il prezzo di acquisto poteva variare tra 112 e 134 lire/ton secondo la qualità dello zolfo prodotto, mentre quello di vendita avrebbe potuto raggiungere un massimo di 240 lire/ton, di cui poco circa 105 erano tasse di esportazione;

  • a titolo di indennizzo per il terzo di produzione mancata, la compagnia avrebbe versato circa 20 lire per tonnellata non prodotta;

  • inoltre, la compagnia si impegnava a:

    • fornire gratuitamente zolfo raffinato all’amministrazione militare di Girgenti (Agrigento);

    • realizzare, entro 4 anni, una moderna raffineria di zolfo con due camere di sublimazione e un impianto industriale per la produzione di acido solforico e soda solforata;

    • addestrare manodopera locale;

    • costruire, per tutto il periodo di validità del contratto, venti miglia di strade carraie all’anno e a versare, annualmente, al sovrano la somma di 400,000 ducati da utilizzare per la realizzazione di opere di pubblica utilità.


Se l’accordo mirava a ridurre il peso economico inglese, che gravava anche sul commercio dello zolfo, e a rilanciare l’industria estrattiva siciliana oltre a mettere le basi per lo sviluppo di quella chimica, ottenne il risultato contrario favorendo il formarsi di un cartello contrario che agli inglesi associò i “baroni” siciliani proprietari delle miniere e gli esercenti delle stesse.

Gli inglesi protestarono contro l’accordo, prima diplomaticamente, poi con la forza assediando con la flotta britannica, comandata dall’ammiraglio Robert Stepford, il porto di Napoli e catturando alcune navi francesi.

Con la mediazione dei francesi si arrivò a un’intesa, mediante cui gli inglesi restituirono le navi catturate e fu dichiarato che, pur non essendo stato violato alcun trattato, l’accordo stipulato con la Taix-Aycard non era conforme al sistema di buona economia (secondo gli inglesi).

Pertanto, con il decreto del 21 luglio 1840, il governo borbonico fu costretto a revocare l’accordo per il commercio dello zolfo, oltre a risarcire sia i francesi che gli inglesi.

Il calo del prezzo dello zolfo che seguì a questa vicenda fu pagato dai minatori che si videro ridurre il salario.

Nel decennio 1850-60 si registrò una nuova crescita della domanda, quando la diffusione in Europa dell’Oidium provocò la devastazione di numerosi vigneti in Europa e l’uso di zolfo macinato si rivelò necessario per il trattamento dei tralci ammalati.

Ciò mutò l’assetto dei mercati: l’esportazione nel decennio passò da 80,000 a 114,000 tonnellate e il prezzo da 70 a 120 lire/tonnellata, Stati Uniti, Germania, Olanda, Russia e Austria-Ungheria crebbero d’importanza tra i paesi acquirenti, mentre il peso delle esportazioni verso Inghilterra e Francia scese al 39% e 27%, rispettivamente.

La produzione si avvantaggiò delle migliorate condizioni di viabilità, in seguito all’ampliamento della rete ferroviaria siciliana e alla costruzione di strade rotabili comunali e provinciali, oltre che di innovazioni tecnologiche, quale la sostituzione delle calcarelle con i calcaroni, a loro volta sostituiti parzialmente, a partire dal 1880, dai forni Gill (vedi riquadro) che garantivano un aumento del rendimento di fusione variabile tra il 12 e il 25%.


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[1] Anche se nuove ricerche hanno portato alla scoperta di numerosi siti di estrazione e lavorazione dello zolfo riferibili all’età romana (Zambito, 2021)

Calcarelle, olle e calcaroni

Lo zolfo fonde a temperatura di 112-114°C, molto bassa rispetto alle altre rocce. È naturale, pertanto, che i primi metodi di estrazione dello zolfo furono utilizzarono la fusione dello stesso per separarlo dalla ganga e ottenere minerale puro.

Già in antichità e fino alla metà del XIX secolo per estrarre lo zolfo per fusione si ricorreva alla calcarella, un forno circolare di 1.5-2 metri di diametro, col fondo inclinato verso un apertura (detta morte dell’olio), in cui veniva accatastato in forma conica il minerale solfifero, per un volume di circa 3-4 m3 per carica.

Il minerale veniva acceso alla sommità e bruciava a cielo aperto per un giorno o due, finché lo zolfo fuso colando in basso fluiva dalla “morte dell’olio” e veniva raccolto in forme di legno, chiamate “gaviti”.

Si trattava di un metodo semplice, ma con due importanti difetti: un’efficienza molto bassa, perché i due terzi dello zolfo si perdeva in aria sotto forma di anidrite solforosa (SO2), e gravi danni all’ambiente e all’agricoltura causati proprio dell’anidride solforosa dispersa in aria (*).

Per estrarre lo zolfo, in particolare in Romagna e nelle Marche, si usavano anche le olle, pignatte in terracotta (in ghisa dal 1800) a diretto contatto con il fuoco in cui veniva posto il minerale frantumato.

Lo zolfo fondeva ed evaporava, il vapore passava ad altre olle in cui condensava e colava nelle forme di legno dove condensava (vedi figura).

Anche con questo sistema tuttavia, non si raccoglieva tutto lo zolfo contenuto nel minerale; la parte trasformata in SO2 continuava a perdersi e a inquinare l’ambiente.

Nel 1842, in una miniera di Favara venne dato fuoco dolosamente a una massa di minerale solfifero accatastata; non riuscendo a spegnerla con l’acqua, i minatori provarono con terra e pietre.

L’incendio fu spento e dopo circa un mese dai “rosticci” (residui dell’incendio dei calcari solfiferi) cominciò a uscire zolfo puro, di migliore qualità e in quantità quasi doppia rispetto a quello prodotto dalle calcarelle.

Era stato scoperto il metodo dei “calcaroni” (vedi figura), differenti dalle “calcarelle” per dimensioni (da 5 a 35 m di diametro, altezza del cono da 1/7 a 1/5 del diametro, fondo inclinato di 30°, cariche da 250 a 3500 tonnellate) e per il fatto che la carica di minerale solfifero era ricoperta di terreno o dai “rosticci” e sistemata con pietre grandi al fondo e piccole in cima, in modo da permettere una combustione lenta, da 30 a 90 giorni. Lo zolfo liquido, sfruttando la pendenza del fondo, colava nei “gaviti”, dove si raffreddava e solidificava in pani da 50/80 kg.

Con i “calcaroni” il rendimento saliva fino a 50/65%, perdurando le perdite di SO2 e i conseguenti, seppur minori, inquinamenti.


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(*) I carusi, buttando giù il carico dalle spalle peste e scorticate, seduti sui sacchi, per rifiatare un po’ all’aria, tutti imbrattati dai cretosi acquitrini lungo le gallerie o lungo la lubrica scala a gradino rotto della “buca”, grattandosi la testa e guardando a quella collina attraverso il vitreo fiato sulfureo che tremolava al sole vaporando dai “calcheroni” accesi o dai forni, pensavano alla vita di campagna, vita lieta per loro, senza rischi, senza gravi stenti là all’aperto, sotto il sole, e invidiavano i contadini. «Beati loro!» Per tutti, infine, era come un paese di sogno quella collina lontana.

Di là veniva l’olio alle loro lucerne che a mala pena rompevano il crudo tenebrore della zolfara; di là il pane, quel pane solido e nero che li teneva in piedi per tutta la giornata, alla fatica bestiale; di là il vino, l’unico loro bene, la sera, il vino che dava loro il coraggio, la forza di durare a quella vita maledetta, se pur vita si poteva chiamare: parevano, sottoterra, tanti morti affaccendati.

I contadini della collina, all’incontro, perfino sputavano: «Puh!» guardando a quelle coste della vallata. Era là il loro nemico: il fumo devastatore. E quando il vento spirava di là, recando il lezzo asfissiante dello zolfo bruciato, guardavano gli alberi come a difenderli e borbottavano imprecazioni contro quei pazzi che s’ostinavano a scavar la fossa alle loro fortune e che, non contenti d’aver devastato la vallata, quasi invidiosi di quell’unico occhio di verde, avrebbero voluto invadere coi loro picconi e i loro forni anche le belle campagne. (Luigi Pirandello: Il fumo da Novelle per un anno)

Dal 1861 a fine XIX secolo

Nel 1864, a Caltanissetta, sorse la prima scuola italiana per l’insegnamento di discipline minerarie, la Regia Scuola Mineraria, fondata dall’ingegnere piemontese Sebastiano Mottura e dallo stesso diretta tra 1868 e il 1875, da cui uscirono capi-minatori e periti minerari che migliorarono il livello tecnico del lavoro nelle zolfare.

Le nuove ferrovie causarono la fine della rendita di posizione di cui avevano goduto i porti della costa sud-occidentale per la loro vicinanza con i luoghi di produzione; così, a partire dal 1869, si incrementò il traffico dello zolfo nei porti di Palermo e Catania che se ne contesero l’egemonia, che alla fine spettò a Catania nel cui porto, dopo il 1880, si concentrò la maggior parte del commercio dello zolfo.

Il nuovo mezzo di trasporto, inoltre, fece scendere di circa 10 lire il costo di produzione di ogni tonnellata di zolfo e aumentò notevolmente il volume del minerale spedito per ferrovia verso gli scali marittimi: 82,000 tonnellate nel 1875, 240,000 nel 1881, 302,000 nel 1890, contro le 45,000 avviate su strada rotabile.

I dati di produzione segnalano, a meno di oscillazioni annuali, un aumento costante della produzione di zolfo fuso negli anni successivi all’unificazione della Sicilia con l’Italia, passando da circa 150,000 tonnellate nel 1860 al massimo di circa 395,000 tonnellate nel 1882 con circa 28,000 occupati.

Per un breve periodo i prezzi furono oggetto di rialzo fino al massimo di 142 lire nel 1875, ma già all’orizzonte si stagliavano i fattori che avrebbero condotto il sistema verso una nuova crisi: da un lato la grande depressione economica del 1873, dall’altro nuovi processi di chimica industriale che riducevano l’importanza commerciale dello zolfo nativo.

In quegli stessi anni, gli industriali inglesi che producevano la soda con il metodo Leblanc avevano trovato il modo di riciclare il solfuro di calcio prodotto come scarto, riestraendo da esso lo zolfo con il processo denominato Chance-Claus, dal nome dei due chimici, Alexander Chance e Carl Claus, che lo idearono.

In tal modo, lo zolfo prodotto con il metodo Chance-Claus entrava in concorrenza con quello siciliano riducendone il prezzo di mercato, innescando così un circolo vizioso dato che, a tale prezzo ribassato fino al minimo di 55 lire/tonnellata nel 1895, il nuovo metodo diventava antieconomico.

Gli industriali chimici inglesi e quelli minerari siciliani avevano, quindi, lo stesso interesse all’aumento del prezzo dello zolfo, tanto che si allearono per costituire nel 1896 l’Anglo Sicilian Sulphur Company, che avrebbe acquistato la massima quantità possibile di zolfo siciliano e l’intera produzione dello zolfo rigenerato col processo Chance, in modo da controllare il mercato zolfifero.

La Società si impegnava ad acquistare al prezzo di circa 80 lire/tonnellata l’intera produzione, che era libera il primo anno ma non doveva essere superata negli anni successivi.

Il contratto, della durata di 5 anni con rinnovo per altri 5, fu sottoscritto dal 60% degli imprenditori siciliani e rilanciò l’industria zolfifera siciliana facendo salire il prezzo medio a 95 lire/tonnellata nel 1904, mentre nello stesso periodo l’esportazione aumentò da 364.000 a 507.000 tonnellate.

Tuttavia, non venne raggiunto l’obbiettivo di regolamentare la produzione, anche a causa dell’alta percentuale (40%) degli imprenditori che non aderirono all’accordo, tanto che nel 1906, allo scadere del secondo quinquennio, l’industria zolfifera siciliana era gravata da forti giacenze di merce, che riguardavano in particolare le imprese aderenti, mentre quelli non aderenti avevano potuto sfruttare per intero la situazione migliorata praticando prezzi concorrenziali.

Contemporaneamente, a peggiorare la situazione e a chiudere l’esperienza dell’Anglo Sicilian Sulphur Company, dall’America si materializzò una nuova grave minaccia per lo zolfo siciliano.

In Louisiana, già dagli inizi degli anni ‘90 del XIX secolo, il chimico tedesco Herman Frasch stava brevettando un metodo per l’estrazione dello zolfo con l’acqua surriscaldata (165°C) ad alta pressione (25÷30 bar), ottenendo un prodotto fuso con purezza superiore al 99.5% (fig. 1).

Per lo sfruttamento industriale dello zolfo con il metodo Frasch venne costituita nel 1895 la prima società solfifera di estrazione (Union Sulphur Company), che acquisì importanti giacimenti in Louisiana e in Texas, fino a monopolizzare il mercato nordamericano già nel 1912.

Purtroppo il metodo Frasch, che fu la fortuna per i giacimenti americani, non era ugualmente applicabile allo zolfo siciliano [2], i cui giacimenti erano caratterizzati da forti disturbi tettonici, da tenori bassi di zolfo, frammisto ad alte percentuali di ganga gessosa, oltre che dall’assenza, a tetto e letto delle formazioni solfifere, di terreni sufficientemente impermeabili.


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[2] E, comunque, il carattere non organizzato dell’industria siciliana non consentì di testarlo adeguatamente

Forno Gill

Realizzato dall’ingegnere marsalese Roberto Gill nel 1880, è un perfezionamento del sistema dei calcaroni, consistente in un numero di camere (celle) variabile da 2 a 6, con forme diverse e dimensioni da 10 a 30 metri cubi realizzate in pietrame o mattoni, comunicanti fra loro per la parte superiore.

Le celle potevano contenere da 30 a 40 tonnellate, per riempire le quali occorrevano circa 54 vagoni e si potevano ottenere per fusione circa 120 pani di zolfo.

Il forno più comune era a quattro celle (quadriglie); ogni cella aveva cinque aperture, due per il carico e scarico del materiale e tre per il collegamento fra le varie celle.

L’apertura o porta di carico e scarico del materiale era posta in basso e veniva detta morte mentre un foro circolare posto in alto della cella serviva per completare il carico; c’erano poi tre aperture una in basso e due in alto utilizzate per il collegamento fra le varie celle.

Le aperture per il carico e scarico del materiale venivano chiuse con mattoni mentre le altre con coperchi di ghisa (valvole).

Per un buon funzionamento si dovevano rispettare regole precise ed inderogabili, specie per il caricamento, che avveniva in due fasi: la prima attraverso l’apertura d’accesso in basso (morte), serviva a caricare il minerale di grossa pezzatura con creazione di canali, con la seconda si caricava dall’alto il minerale di pezzatura più piccola, utilizzando un imbuto che lo dirigeva verso le pareti permettendo un riempimento uniforme e regolare.

L’accensione della prima cella, detta motrice, avveniva dall’alto e il calore prodotto dalla combustione dello zolfo che conteneva, raccolto attraverso la morte, veniva completamente utilizzato per la combustione e la fusione dello zolfo della cella seguente.

I fumi e il calore prodotti dallo zolfo della motrice propagandosi attraverso il materiale della seconda cella prima lo riscaldavano e dopo 40÷50 ore ne provocavano l’accensione, cui seguiva la fusione dello zolfo dopo altre 23÷28 ore.

I fumi caldi della seconda cella, ora motrice, erano quindi convogliati verso la terza, in un primo momento nella parte alta e successivamente, quando la fusione aveva prodotto da 10 a 20 pani, verso l’apertura inferiore, agendo sull’apertura e chiusura delle opportune valvole.

Il succedersi di queste manovre permetteva sia il recupero del calore sia dello zolfo in sospensione nei fumi.

Dalla terza cella, azionando le opportune valvole, i fumi e il calore venivano convogliati attraverso il collettore verso il camino; all’estremità del collettore un ventilatore aspirava i fumi e parte delle polveri in essi contenute erano fatte precipitare da una leggera pioggia d’acqua.

In sintesi le 4 celle si trovavano, in un ciclo a rotazione continua, rispettivamente nelle fasi di:

1) Motrice

2) Fusione

3) Preriscaldamento

4) Scarico/Carico


Il controllo del processo di fusione doveva essere costante e attento per evitare inconvenienti e garantire l’afflusso di una quantità di aria in grado di provocare la combustione necessaria a produrre il calore per l’intero processo.

I forni Gill assicuravano un rendimento del 12÷25% superiore a quello dei calcaroni. La temperatura dei gas provenienti dalla cella motrice arrivava a 300°C, mentre nella cella stessa si raggiungevano gli 800°C. L’intero ciclo produttivo di un forno Gill a quadriglia aveva una durata che variava dagli 8 ai 15 giorni, e le quattro celle dello stesso forno potevano produrre da 60 a 160 fusioni in un anno.

Dagli inizi del XX secolo alla fine del Consorzio obbligatorio (1932)

Nei primi anni del XX secolo venne, quindi, stravolto l’assetto tradizionale del mercato internazionale dello zolfo; inoltre, la nuova Legge n. 818 del 10 Novembre 1907 [3] (GU 12/1908), che normava finalmente, 30 anni dopo l’inchiesta di Franchetti e Sonnino del 1876, l’avvio a lavoro dei “carusi” in miniera (vedi riquadro), provocò in un settore gestito in modo arcaico un nuovo aumento del costo del greggio siciliano.

Prese corpo allora la proposta dell’istituzione di un Consorzio obbligatorio per l’industria zolfifera siciliana attraverso la presentazione di un apposito disegno di legge da parte dei ministri Malvezzi e Tedesco.

Il Consorzio fu istituito con la legge 15 luglio 1906 n. 333 [4] (GU 168/1906), che ne stabiliva la durata in 12 anni, poi rinnovata due volte prima della cessazione anticipata che avvenne nel 1932, a causa della crisi del 1929 che aveva inasprito il dissidio tra l’industria zolfifera siciliana e quella del Continente.

Il Consorzio, che aveva la sede generale a Palermo e quattro agenzie nei porti d’imbarco dello zolfo a Catania, Porto Empedocle, Licata e Termini Imerese, riuniva i proprietari e gli esercenti di tutte le zolfare siciliane e aveva funzioni esclusivamente commerciali, fissando il prezzo, gestendo la vendita e il collocamento dello zolfo nei diversi mercati e la conseguente ripartizione del ricavato netto ai produttori.

Ad amministralo era un comitato di delegati composto di 50 membri, cui furono conferiti i poteri dell’assemblea generale nelle Società Anonime, e da un consiglio di amministrazione composto di nove titolari, quattro supplenti e dal direttore generale. Nel comitato dei delegati due membri erano nominati dal Ministro dell'Agricoltura, due dal consiglio generale del Banco di Sicilia, due dal complesso delle camere di commercio di Palermo, Catania, Girgenti e Caltanissetta, mentre gli altri membri erano scelti dai consorziati, metà con votazione per numero e metà con votazione per interesse (un voto ogni 100 tonnellate di zolfo).

Il direttore generale era nominato dal governo, dei 9 membri titolari del Consiglio di Amministrazione uno era nominato dal ministero dell'Agricoltura, uno dal Banco di Sicilia, uno dalle Camere di Commercio siciliane e sei dai consorziati, mentre su quattro supplenti, uno era scelto dal ministro, uno dal Banco di Sicilia e due dai consorziati.

In totale, su quattordici membri, sei erano di nomina pubblica e otto erano scelti dai consorziati; tenendo conto che il direttore generale, vera anima dell’azienda, era di nomina regia, ne derivava una forte impronta governativa sul Consorzio.

L’art. 2 della legge 133/1906 prevedeva, inoltre, la formazione di un fondo perduto di 2 milioni di lire, nelle forme stabilite all’art. 23, per “la costituzione di una Banca Autonoma di Credito Minerario per la Sicilia, che faccia anticipazioni ai produttori al tasso non maggiore del 5 per cento, con garanzia sullo zolfo grezzo, od altra equipollente”, successivamente incorporata nella sezione di credito minerario del Banco di Sicilia, in seguito alla regolamentazione del credito minerario derivata dal RD n. 1443 del 29 luglio 1927.

Sul Consorzio si esercitò, con tre approfonditi articoli sul Corriere della Sera, due a caldo (8 e 9 agosto 1906) e uno a consuntivo di un anno (6 agosto 1907), l’economista e futuro 1° Presidente della Repubblica Italiana, Luigi Einaudi.

Durante il dibattito parlamentare sull’istituzione del Consorzio erano emerse due questioni fondamentali che, a giudizio dei sostenitori del Consorzio, avrebbero dovuto essere risolte per garantire all’industria dello zolfo siciliana un quadro di riferimento in grado di garantire lo sviluppo di un’industria moderna e competitiva sul mercato: la disciplina del lavoro degli zolfatari e il superamento del regime fondiario.

Anche se nei vari comizi minerari, che avevano preceduto l’approvazione della legge, c’erano state precise richieste in merito alla disciplina del lavoro degli zolfatari, la Commissione parlamentare che aveva redatto la relazione di presentazione del disegno di legge, rendendosi conto della complessità dell’argomento, aveva concordato con il governo la presentazione entro sei mesi di un apposito disegno di legge in materia, ma nessuna legge intervenne a disciplinare il contratto di lavoro degli zolfatari durante il periodo del Consorzio obbligatorio.

Per quanto riguarda il regime fondiario del sottosuolo, invece, l’emendamento presentato da socialisti e radicali per la demanializzazione del sottosuolo fu bocciato dall’opposizione congiunta di agrari e industriali.

Dove il Consorzio ben operò fu nel definire, nel 1908, un accordo con l’americana “Union Sulphur Company” che consentì di smerciare lo zolfo siciliano senza essere costretto ad abbassare i prezzi per combattere la concorrenza, mediante una divisione delle quote di collocamento, a prezzi concordati, su tutti i mercati consumatori, di cui 2/3 erano attribuiti al Consorzio e 1/3 agli americani.

L’accordo, che doveva rimanere in vigore fino al 1918, durò solo fino al 1913, quando fu denunciato dalla società americana, ufficialmente perché inosservante la legge Wilson, emanata contro le coalizioni commerciali ed industriali, nella realtà perché erano sorte altre società produttrici di zolfo americano, che avevano tolto il monopolio alla “Union Sulphur Company”.

Dopo quattro anni di vita, il Consorzio venne riformato con Legge 30 giugno 1910 n. 361 (GU 153/1910) che, mantenendone la fisionomia originaria, ne adeguò l’organizzazione alle condizioni del mercato sperimentate nei tre anni di regime consortile.

Allo scopo di controllare la produzione, il valore per tonnellata assegnato allo zolfo registrato nelle ricevute (fedi) di deposito, «che dovrà sempre essere fissato in una cifra inferiore al prezzo medio di vendita conseguito nell’anno precedente, sarà determinato dalla somma disponibile divisa per il numero delle tonnellate di zolfo consegnato al Consorzio nel detto anno» (Art. 18) «... al netto dell’intero ammontare delle spese di trasporto anticipate dal Consorzio, nonché dell’ammontare del contributo a favore del Sindacato obbligatorio di mutua assicurazione per gli infortuni degli operai sul lavoro» (Art. 24).

In questo modo, essendo il prezzo unitario pagato ai consorziati inversamente proporzionale a quanto consegnato al consorzio, l’eccedenza produttiva non avrebbe procurato guadagni ma solo la diminuzione di tale prezzo, mentre gli istituti di credito minerario non avrebbero più dovuto pagare tale eccedenza.

Pur rimanendo in vigore il regime fondiario, l’art. 7 stabiliva che «L’apertura di nuove zolfare nell’isola sarà concessa soltanto a coloro che dimostrino di avere i mezzi finanziari occorrenti per una razionale lavorazione della zolfara e provvedano ad una adeguata direzione tecnica. La concessione sarà data dal ministro di agricoltura, industria e commercio, sentito l’ufficio minerario di Caltanissetta, che fisserà, caso per caso, le norme per tale lavorazione», introducendo di fatto un nuovo regime che, però, riguardava solo le nuove miniere e non modificava i rapporti giuridici esistenti.

Pur con i suoi limiti, la nuova legge riuscì a stabilire un equilibrio tra domanda e offerta che, però, nel freno alla produzione scontava anche uno stato di disagio oggettivo dell'attività estrattiva, a causa dell’approfondirsi dei livelli di lavorazione dei giacimenti che ne rendevano sempre più difficile e costoso lo sfruttamento.

Pesavano anche le conseguenze della nuova legge n. 818/1907 sul “lavoro delle donne e dei fanciulli”, che avevano spinto le famiglie ad avviare i ragazzi verso mestieri che permettessero di farli guadagnare presto, con ricadute non solo numero di carusi (meno 200 l’anno circa), ma anche sulla disponibilità futura degli addetti all’abbattimento del minerale solfifero (picconieri), che in genere provenivano dai ranghi dei carusi.

Un aumento del prezzo dello zolfo avrebbe potuto ridare vigore alla produzione gravata dagli aumenti dei costi di produzione, ma ciò era impedito dalla fine dell’accordo con la “Union Sulphur Company” e dal conseguente nuovo regime concorrenziale, anche se dal punto di vista dell’uso in agricoltura, maggiore comparto di impiego dello zolfo siciliano, quello si dimostrava meno adatto, richiedendo costi di trattamento che sommati ai costi di trasporto transcontinentale lo rendevano meno competitivo di quanto appariva dai costi di produzione.

Lo scoppio della 1a Guerra Mondiale cambiò lo scenario, in particolare dopo l’entrata in guerra degli Stati Uniti nel 1917.

La crescita dei bisogni interni americani, soprattutto ai fini bellici, le difficoltà di trasporto, le misure protezionistiche delle potenze in guerra fecero cessare le importazioni di zolfo americano, ridando fiato alla produzione siciliana che riprese a salire nel 1918 dopo 10 anni di ininterrotto calo, mentre i prezzi salivano da 100 lire/tonnellata del 1914 alle 431 del 1918.

Poiché la favorevole congiuntura rappresentata dall’aumento del prezzo dello zolfo non fu colta per i necessari ammodernamenti tecnologici, organizzativi e logistici, la qualcosa ritardò anche il rilancio della produzione che, come detto riprese ad aumentare timidamente dal 1918, in pochi anni lo zolfo siciliano si trovò ad affrontare una nuova crisi causata della concorrenza americana.

Proprio nel 1918 andava in scadenza il Consorzio e con l’occasione ci fu un dibattito tra i produttori, la maggior parte dei quali ne chiese la proroga, e i raffinatori che puntavano alla creazione di un consorzio libero sotto il controllo della Montecatini, che aveva rilevato l’esercizio delle miniere Bosco, Gallitano e Grottacalda oltre alla gestione del sistema delle raffinerie avendo acquisito la maggioranza dell’Unione Raffinerie Siciliane, che dal 1915 riuniva tutti i raffinatori dello zolfo siciliani, con una capacità produttiva di 80,000 tonnellate annue.

La proposta dei raffinatori, appoggiata tra gli altri dall’economista Luigi Einaudi, fu bocciata e prevalse la proroga fino al 1930 del Consorzio.

Alla proroga della durata del Consorzio si accompagnarono alcune importanti disposizioni:

  • i compiti della Banca di Credito Minerario si estendevano ai prestiti e mutui agli esercenti e ai lavoratori che intendessero aprire nuove miniere o riprendere lo sfruttamento di giacimenti abbandonati;

  • il Consorzio si sarebbe occupato di organizzare di posti di soccorso presso le miniere;

  • gli esercenti avevano l’obbligo di rifornire gratuitamente l’acqua potabile ai minatori e di costruire spogliatoi e alloggi debitamente ventilati e arredati per gli operai le cui abitazioni distavano più di 5 km dalla miniera.


Rimaneva, invece, ancora insoluta la questione del superamento del regime fondiario, che sarà risolta solo con il RD n. 1443 del 29 luglio 1927.

Tornando all’immediato primo dopoguerra, si ripresentò presto lo spettro della concorrenza americana, il cui zolfo era ormai controllato da una triade di compagnie: la ”Texas Gulf Sulphur Company”, la ”Freeport Sulphur Company”, la ”Union Sulphur Company”.

Favorite da un legislazione americana, severa all’interno ma fortemente permissiva all’esterno, le tre compagnie, nell’ottica di favorire le esportazioni, fecero cartello costituendo una nuova società, la SULEXO (Sulphur Export Corporation), che esportava fino a 1 milione tonnellate di zolfo all’anno prodotte a basso costo, 5 volte superiori alla produzione media di zolfo siciliano di quegli anni.

Poiché gli americani esportavano zolfo greggio, le stesse raffinerie siciliane trovarono conveniente approvvigionarsi in America, innescando così una spirale perversa, senza che il Consorzio fosse in grado di intervenire, essendo il suo compito istitutivo solo quello di commercializzare lo zolfo greggio.

In questa situazione, gli esercenti con disponibilità finanziarie si associarono alle raffinerie, mentre i piccoli andarono irreversibilmente verso la chiusura.

Nel 1922 si toccò il minimo della produzione con 129,535 tonnellate, gli esercenti tagliarono del 20% i salari dei minatori scatenando le giuste proteste sindacali, gli istituti di credito, tranne la Banca di Credito Minerario, chiusero i rubinetti dei finanziamenti.

Si arrivò alla serrata delle miniere da parte degli esercenti, le proteste operaie si moltiplicarono minacciando esplosioni di violenza, il Consorzio venne commissariato affidando l’incarico a Ernesto Santoro, che rimase in carica fino al 1930.

Nel marzo del 1923 il commissario governativo del Consorzio riuscì a trovare un accordo con la SULEXO per la ripartizione dei mercati:

  • il mercato italiano ai produttori italiani e quello nord-americano alla SULEXO;

  • per il resto, il 75% delle vendite annuali alla SULEXO e il 25% allo zolfo italiano (inclusa la produzione continentale);

  • al Consorzio spettavano, inoltre, 65,000 [5] tonnellate annue fuori quota, a prezzi ridotti per la produzione di acido solforico.


L’accordo sarebbe rimasto in vigore fino al 30 settembre 1926, con rinnovo automatico per altri 4 anni, salvo la denuncia di uno dei contraenti; di fatto l’accordo rimase in vigore per tutta la durata della vita del Consorzio.

Con tale accordo la produzione risalì ai livelli precedenti al crollo del 1922, rimanendo comunque sempre intorno al valore di 200,000 tonnellate annue, molto basso rispetto alle 500,000 tonnellate dei primi anni del XX secolo.

L’integrazione verticale della filiera dello zolfo, associando all’attività estrattiva quella di raffinazione, come già avveniva per lo zolfo estratto nelle Marche e in Romagna che avevano sempre goduto di condizioni più floride, era considerata dai più una soluzione da praticare.

Il Governo intervenne adottando questa soluzione con il RD n. 648 del 7 maggio 1925 (GU 118/1925) che modificava le Legge 361/1910 aggiungendo all’Art. 2 il seguente capoverso: «Il Consorzio è autorizzato a lavorare direttamente od a far lavorare per proprio conto lo zolfo predetto, a vendere direttamente od a far vendere per proprio conto lo zolfo lavorato, nonché a partecipare ad aziende che abbiano per oggetto la produzione o la vendita di zolfi lavorati».

Nel frattempo, il 20 aprile 1925 si era costituita a Catania la Federazione Opifici Raffinerie Zolfi Affini (F.O.R.Z.A.), che raggruppava tutte le raffinerie di zolfo siciliano, per 3/5 controllate da industriali continentali.

Essa stipulò un accordo con il Consorzio in cui avrebbe avuto l’esclusiva della lavorazione degli zolfi italiani, mentre al Consorzio spettava la metà degli utili netti derivanti annualmente dalla vendita degli zolfi lavorati dalla F.O.R.Z.A., che invece si sarebbe accollate le eventuali di perdite.

L’accordo, in vigore dal 1° agosto 1925, aveva la durata di 5 anni e alla scadenza (31 luglio 1930) non fu rinnovato per disaccordo tra le parti.

Nel 1926 la Società Generale Elettrica della Sicilia iniziò i lavori per l’elettrificazione delle zolfare.

L’opera, che avrebbe abbassato i costi di produzione e ridotto il fabbisogno di manodopera, venne portata a termine nel 1931 aumentando notevolmente la capacità produttiva delle miniere, tanto che nel 1935 quelle elettrificate, in minoranza per numero (solo il 20%), rappresentavano ben il 90% della produzione.

Tutto ciò, però, non bastò a far uscire definitivamente dalla crisi il comparto zolfifero siciliano, tanto più che proprio il 1926 fu l’anno di quota 90, come fu detta la rivalutazione della lira, con le conseguenze che essa ebbe sul prezzo dello zolfo.

Poiché, infatti, il prezzo dello zolfo stabilito nell’accordo con la SULEXO era in dollari, la rivalutazione significò una brusca diminuzione, tra il 30 e il 40%, del prezzo dello zolfo in lire e inutili furono i tentativi di ottenere un aumento del prezzo concordato con la SULEXO, che intendeva mantenere la competitività del suo zolfo rispetto alle piriti.

Poiché alle vicende del 1926 seguirà la grande depressione mondiale del 1929, la crisi dell’industria zolfifera siciliana era ancora in atto al momento dello scioglimento del Consorzio, avvenuto, come detto, nel 1932.

Intanto nel 1927, con RD n. 1443 del 29 luglio 1927 (GU 194/1927), era stata approvata la legge (Norme di carattere legislativo per disciplinare la ricerca e la coltivazione delle miniere nel Regno) che unificava la legislazione mineraria in Italia, in cui le Disposizioni transitorie stabilivano, tra le altre cose, che nei territori in cui era vigente il regime fondiario «le miniere che, al giudizio insindacabile del Ministro per l’economia nazionale risultino in normale coltivazione alla data di pubblicazione del presente decreto, sono date in concessione perpetua a chi dimostri di esserne il legittimo proprietario. È parimenti trasformata in concessione la proprietà, comunque acquisita in altri territori, di miniere in normale coltivazione alla data di pubblicazione del presente decreto.» (art. 54) e «le miniere, delle quali la lavorazione sia rimasta per qualsiasi causa sospesa o abbandonata, sono date in concessione perpetua al proprietario rispettivo che si impegni di riattivarle entro il termine di un anno dalla data del decreto di concessione, o nel termine maggiore che potrà essere stabilito dal Ministro per l’economia nazionale, sentito il Consiglio superiore delle miniere.» (art. 56)

In questo modo, però, si perpetuavano tutti problemi che erano derivati dal regime fondiario e da una gestione dell’industria estrattiva antiquata, che avrebbe necessitato urgentemente di un autentico rinnovamento.

Ad aggravare la situazione, la concessione era confermata per il proprietario che però non aveva più la disponibilità di concedere l’esercizio, dovendosi trasformare esso stesso in imprenditore minerario, sebbene nella maggior parte dei casi non ne avesse le competenze tecniche e, spesso, neanche la capacità finanziaria.

Raramente, inoltre, il proprietario era uno soltanto o un gruppo ridotto, più spesso si trattava di centinaia di micro-proprietari (condomini), che non avrebbero potuto che rivolgersi a un tecnico.

E così fecero, eludendo la legge attraverso l’escamotage di nominare a rappresentante del condominio dei proprietari quello che precedentemente era stato il gabellotto (da gabella = affitto) o esercente.

Paradossalmente, per quanto riguarda la situazione siciliana, la nuova legge non ne cambiava la sostanza, ma ciò che prima era legale, ora continuava a esistere ma in forma occulta e, comunque, più difficilmente controllabile.

La successiva crisi economica mondiale del 1929, che come già sottolineato seguì la crisi valutaria del 1926, portò allo scioglimento del Consorzio, che per gli industriali zolfiferi siciliani rappresentava ormai più un vincolo che un’opportunità.


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[3] Articolo unico: È approvato l’unito testo unico di legge sul lavoro (Legge 7 luglio 1907 n. 416, in GU 163/1907, ndr) delle donne e dei fanciulli, visto, d’ordine Nostro, dal ministro proponente...

(Art. I della legge 7 luglio 1907, n. 416): Non saranno ammessi al lavoro negli opifici industriali, nei laboratori, nelle costruzioni edilizie e nei lavori non sotterranei delle cave, miniere e gallerie i fanciulli dell’uno e dell’altro sesso che non abbiano compiuto l’età di 12 anni. Per l’ammissione ai lavori sotterranei delle cave, miniere e gallerie, l’età minima dovrà essere di 13 anni compiuti dove esiste trazione meccanica, di 14 dove non esiste; ne sono escluse le donne di qualsiasi età...Nelle solfare di Sicilia potranno essere ammessi al lavoro di carico e scarico dei forni i fanciulli che abbiano compiuti i 14 anni.


[4] I relativi Regi Decreti applicativi del Consorzio furono:

    • RD 378 che fissa le norme da seguirsi durante la gestione provvisoria del Consorzio (GU 175/1906)

    • RD 560 per disposizioni transitorie durante la gestione provvisoria (GU 258/1906)

    • RD 561 riguardante la convocazione del Comitato dei delegati (GU 262/1906)


[5] La quantità poteva anche essere superiore, ma con il beneplacito della SULEXO.

Dall'autarchia al secondo dopoguerra

Lo scioglimento avvenne con il RD n. 945 del 20 luglio 1932 (GU 187/1932), convertito con la legge n. 48 del 12 gennaio 1933, mentre già nel dicembre 1932, nell'ottica della logica corporativa del governo fascista, fu creato l’Ente Nazionale dello Zolfo, che includeva tutti gli industriali zolfiferi italiani, eliminando le disparità precedentemente esistenti tra Sicilia e Continente.

Inoltre, nel 1933 per fronteggiare la concorrenza americana, avvantaggiata dalla rivalutazione della lira, fu costituito l’Ufficio Vendite per lo zolfo italiano (ITALZOLFI), che firmò un nuovo accordo con la SULEXO, promosse un sistema di contingentamento produttivo per ciascuna miniera, introdusse prezzi minimi garantiti.

Gli industriali della raffinazione riuscirono a ottenere un’integrazione di prezzo per i raffinatori di greggio e l’attribuzione alla Montecatini del mercato italiano, mentre il mercato estero, più difficile e aleatorio, venne lasciato ai siciliani.

Con il lancio della politica economica autarchica del 1936, con cui il governo fascista rispose alle sanzioni della Società delle Nazioni per l’aggressione italiana all’Etiopia, sanzioni, invero, di limitata applicazione e scarsamente efficaci, nell’aprile del 1940 venne creato l’Ente Zolfi Italiani (EZI), che sostituì l’ITALZOLFI.

Le misure adottate dal nuovo ente miravano a limitare la rendita dei latifondisti e a stimolare la meccanizzazione degli impianti produttivi, con conseguente diminuzione dei costi, attraverso un abbassamento dei canoni di affitto e norme più rigide sulla decadenza delle concessioni minerarie.

L’EZI non fece in tempo ad iniziare la sua politica che la guerra, scoppiata nel 1939 e in cui l’Italia entrò il 10 giugno 1940, dette un colpo sostanzialmente mortale all’industria zolfifera siciliana, che passò dalle 208,896 tonnellate di zolfo prodotte nel 1940 con 14,043 occupati alle sole 32,841 del 1944 con 4,786 occupati, con un trend di discesa costante, aggravatosi dal 1943 (vedi produzione e occupati).

Gli anni del dopoguerra segnarono una leggera ripresa, ma la produzione superò a stento le 150,000 tonnellate annua solo nel biennio 1952-1953 in concomitanza con la Guerra di Corea.

C’era ormai troppa disparità tra i costi di produzione dello zolfo americano, che si poteva vendere in Europa a 20,000 lire/tonnellata, e quello siciliano che non poteva andare sotto le 40,000 lire/tonnellata, senza contare lo zolfo proveniente dalla desolforazione dei prodotti petroliferi, vendibile a 10,000-12,000 lire/tonnellata.

Nonostante l’art. 14 comma 1 lettera h) dello Statuto della Regione Autonoma Siciliana stabilisse che «l’Assemblea, nell’ambito della Regione e nei limiti delle leggi costituzionali dello Stato, senza pregiudizio delle riforme agrarie e industriali deliberate dalla Costituente del popolo italiano, ha la legislazione esclusiva sulle seguenti materie: ...h) miniere, cave, torbiere, saline ...», le competenze in materia, ma non ancora le miniere e le loro pertinenze, furono trasferite dallo Stato alla Regione solo a metà degli anni ‘50, quando ormai la produzione di zolfo italiano rimaneva stabilmente sotto le 150,000 tonnellate annue, rappresentando meno del 2% del mercato mondiale.

Naturalmente la crisi produttiva era anche crisi dell’occupazione, che dalla seconda metà degli anni ‘50 scese sotto le 10,000 unità.

Dal piano quinquennale (1959-1964) della Regione Sicilia alla chiusura delle miniere

La Legge regionale n. 23 del 4 aprile 1959, tentò di ristrutturare il settore con un piano quinquennale (1959-1964) che:

  • prevedeva la tanto attesa verticalizzazione del settore con la produzione di acido solforico e l’incentivazione dell’impiego dello zolfo in agricoltura;

  • stabiliva la costituzione di un fondo per le sovvenzioni all’industria, agevolazioni e contributi per l’ammodernamento degli impianti, indennità di disoccupazione e corsi di riqualificazione professionale per gli operai;

  • chiedeva agli imprenditori la presentazione di un piano di ristrutturazione delle singole miniere che, se approvato, sarebbe stato sovvenzionato con un prestito regionale a un tasso di interesse del 4% per 10 anni, la cui restituzione sarebbe iniziata allo scadere dei 5 anni del piano;

  • impegnava gli stessi imprenditori a mantenere un certo livello programmato di occupazione, pena la cessazione dei finanziamenti.

Come si vede, tutte misure sacrosante ma arrivate con qualche decennio di ritardo.

Dopo che nel 1961 si tenne a Palermo un convegno sullo zolfo organizzato dall’EZI per discutere e formulare proposte sull’opportuno inserimento dell’industria zolfifera italiana nella Comunità Economica Europea (CEE) che si era costituita nel 1957, nel 1962 la Regione istituì l’Ente Minerario Siciliano (EMS), cui una nuova legge regionale assegnava le concessioni delle miniere inadempienti agli obiettivi del piano quinquennale.

Poiché nel 1964, allo scadere del piano, quasi tutti i concessionari erano inadempienti, le concessioni passarono in blocco prima all’EMS, poi dal 1967 alla nuova SO.CHI.MI.SI, società collegata all’EMS.

Infine, il DPR 31 maggio 1965, n. 1713 “Elenco delle miniere, cave e torbiere esistenti nel territorio della Sicilia, che vengono trasferiti alla Regione siciliana” (GU 151/1966), approva «l’unito elenco delle miniere, cave e torbiere sottratte alla disponibilità del proprietario del suolo, che vengono trasferite dal patrimonio indisponibile dello Stato a quello della Regione autonoma della Sicilia nello stato di fatto e di diritto in cui si trovano, con tutti gli oneri e pesi inerenti, le servitù attive e passive sia apparenti che non apparenti, dalla data del presente decreto» (Art. 1).

«Entro un mese dalla data di pubblicazione del presente decreto si procederà alla formale consegna dei beni di cui all’art. 1, mediante appositi verbali da redigersi dagli Uffici tecnici erariali di Agrigento, Caltanissetta, Enna, Palermo, Ragusa e Trapani, rispettivamente per i beni compresi nel territorio delle singole Province, con l’intervento dei delegati delle Intendenze di finanza di dette città e della Regione autonoma della Sicilia». (Art.2 )

Considerando solo le miniere di minerali solidi, oggetto del Censimento ISPRA, e tendo conto che nella lista, in alcuni casi, vengono considerate separatamente cantieri di una stessa concessione [6], con il DPR 1713/1965 vennero trasferite alla Regione Sicilia 373 siti (319 di zolfo), di cui 183 (157 di zolfo) in provincia di Agrigento, 71 (68) a Caltanissetta, 58 (54) a Enna, 42 (40) a Palermo, 18 a Ragusa, 1 a Messina (Bolo) che però all’epoca della concessione era in provincia di Caltanissetta.

Né il piano quinquennale né il trasferimento delle miniere e delle loro pertinenze alla Regione Sicilia riuscirono a frenare il declino dell’industria zolfifera siciliana che nel 1969 contava ormai solo una ventina di miniere attive con circa 3,000 addetti.

Si andava, quindi, verso la liquidazione del settore, favorita da importanti incentivi al pensionamento, sia dal punto di vista della liquidazione che dei contributi pensionistici figurativi riconosciuti.

Un tentativo di rilancio dell’economia dei bacini zolfiferi siciliani fu fatto con la L.R. n. 42 del 6 giugno 1975 (Provvedimenti per la ripresa economica delle zone ricadenti nei bacini minerari zolfiferi siciliani, GURS 7 giugno 1975 n. 25) che prevedeva la predisposizione da parte della Regione Sicilia di «un progetto-obiettivo, diretto al sostegno del reddito e dell’occupazione nelle zone interessate dai bacini minerari zolfiferi, finalizzato allo sviluppo industriale, agricolo, turistico, delle infrastrutture pubbliche e dei servizi sociali, territorialmente ricadenti nei seguenti comuni:

Provincia di Agrigento: Aragona, Casteltermini, Cianciana, Favara, Racalmuto, Grotte, Comitini, Campobello di Licata e Ravanusa; Provincia di Caltanissetta: Caltanissetta, Riesi, Sommatino, San Cataldo, Serradifalco, Montedoro, Campofranco; Provincia di Enna: Enna, Villarosa, Pietraperzia, Piazza Armerina, Valguarnera, Agira e Assoro; Provincia di Palermo: Lercara» (Art. 1).

«L’Ente minerario siciliano, a mezzo gestione separata, assume in proprio la conduzione delle miniere di zolfo di cui già è concessionario, nonché delle miniere Cozzodisi e Muculufa di cui è concessionaria la società Sochimisi [7] e che saranno trasferite all’EMS entro 30 giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge» (Art. 2).

«L’Ente... è autorizzato a proseguire l’esercizio delle miniere Cozzodisi, Lucia e Ciavolotta in provincia di Agrigento; Gessolungo, con annesso impianto di flottazione [8] di Trabonella, e La Grasta in provincia di Caltanissetta; Floristella, Giumentaro e sezione Giangagliano della miniera Zimbalio-Giangagliano in provincia di Enna, che presentano caratteristiche giacimentologiche più favorevoli e struttura tecnica più efficiente tra quelle attualmente in esercizio.

È altresì autorizzato il mantenimento in esercizio dello stabilimento di Dittaino per la produzione di zolfo ventilato e la costituzione di un centro operativo per il coordinamento della gestione presso l’ufficio di Caltanissetta dell’EMS.

Nelle restanti miniere, e precisamente Gibellini, Stretto Cuvello, Muculufa, Trabia, Trabonella (esclusa la flottazione), Zimbalio-Giangagliano, limitatamente alla sezione Zimbalio, dovrà procedersi alla cessazione dell’attività produttiva con chiusura dei relativi sotterranei, entro il termine massimo di sei mesi dall’entrata in vigore della presente legge» (Art. 4).

«La gestione delle miniere e dello stabilimento di cui ai primi due commi del precedente art. 4 deve essere improntata a criteri di assoluta economia con divieto di assunzione di personale a qualsiasi titolo, di installazione di nuovi impianti ad eccezione di quelli prescritti dal competente distretto minerario per la sicurezza dei lavoratori e di quelli necessari per il potenziamento degli stabilimenti di purificazione e di ventilazione, nonché di disporre spese non strettamente connesse all’attività mineraria...» (Art.11).

«Per fare fronte agli oneri derivanti dalla gestione, per gli anni dal 1975 al 1978, delle miniere di zolfo indicate ai precedenti artt. 4 e 8 è istituito presso l’EMS un fondo a gestione separata di lire 57,230 milioni...» (Art. 12).

Quello stesso anno, tuttavia, l’EMS andò in grave crisi per vicende giudiziarie che coinvolsero pesantemente il Presidente Graziano Verzotto per una gestione oscura dei fondi dell’EMS.

Secondo le accuse della Magistratura, i soldi pubblici dell’EMS producevano fondi neri, incassati e utilizzati dal presidente per le più svariate operazioni.

L’inchiesta sollevò il coperchio sulla disinvolta gestione del più grosso ente regionale, Verzotto fu costretto alle dimissioni, emersero altre irregolarità nell’amministrazione di società collegate, come nel caso della Realmonte-Sali e della SO.CHI.MI.SI., saltarono fuori i dieci miliardi depositati dall’EMS nella Banca Privata di Sindona.

Messo alle strette il senatore scappò all’estero, prima nella Beirut dilaniata dalla guerra civile e poi a Parigi. Vi rimarrà per diciassette anni, fino al 1992 quando un indulto lo mise al riparo dalla galera.

La vicenda mise sostanzialmente la parola fine alla storia secolare dell’estrazione dello zolfo siciliano.

Nonostante il titolo, la successiva L.R. n. 27 del 9 maggio 1984 (Nuovi provvedimenti per il settore dello zolfo e per la ripresa economica delle zone ricadenti nei bacini minerari zolfiferi, GURS 12 maggio 1984 n. 20) prevedeva, infatti, un graduale smantellamento dell’attività estrattiva ancora in essere, attraverso un decreto dell’Assessore regionale per l’industria, da emanarsi entro 180 giorni dall’entrata in vigore della legge, in cui «saranno identificate tre delle unità minerarie indicate nell’art. 4, primo comma, della L.R. 6 giugno 1975, n. 42, delle quali sarà assicurato l’esercizio dell’attività produttiva. Del pari sarà assicurato l’esercizio degli stabilimenti per la ventilazione dello zolfo di Ciavolotta, Dittaino e Trabonella. Nelle altre unità minerarie l’attività produttiva sarà sospesa e le medesime saranno poste in stato di potenziale coltivazione con il personale strettamente indispensabile a garantire la manutenzione dei relativi sotterranei e dei servizi esterni. In relazione alla graduale riduzione degli organici conseguente all’applicazione della presente legge, una o più miniere tra quelle indicate nel secondo comma del presente articolo (le tre ancora in attività, NdR) saranno progressivamente poste in stato di potenziale coltivazione. E’ fatto assoluto divieto di nuove assunzioni di personale nel settore» (Art. 1).

«Per gli operai e impiegati addetti al settore zolfifero... che alla data di entrata in vigore della presente legge abbiano compiuto il cinquantesimo anno di età o che compiano il cinquantesimo anno di età entro il 31 dicembre 1986, si procederà alla risoluzione del rapporto di lavoro con effetto, rispettivamente, dal primo giorno del mese successivo alla data di entrata in vigore della presente legge o dal primo giorno del mese successivo al compimento dell’età sopra indicata» (Art. 5).

«Gli operai e gli impiegati, indicati all’art. 5, che abbiano compiuto o compiranno 45 anni di età entro il 31 dicembre 1986 o che abbiano 25 anni di contribuzione presso l’I.N.P.S. o 20 anni per gli addetti in sotterraneo con 15 anni di versamento di contributi speciali, possono richiedere la risoluzione anticipata del rapporto di lavoro con il trattamento a carico del fondo di cui all’art. 11, secondo comma, fino al compimento dell’età massima pensionabile in base alla legislazione del settore e comunque per un periodo non superiore a quello utile per conseguire la corresponsione della pensione di anzianità» (Art. 6).

Infine, con L.R. n. 34 dell’8 novembre 1988 (Interventi per lo sviluppo industriale, GURS 12 novembre 1988 n. 49) «L’EMS, entro ventiquattro mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, provvederà alla chiusura delle miniere di zolfo ancora in esercizio o in stato di potenziale coltivazione, curando il recupero dei beni e delle attrezzature utilmente asportabili» (Art. 8).

«L’EMS è autorizzato ad alienare gli stabilimenti di Dittaino e Trabonella per la lavorazione di zolfi o concedere in locazione gli stessi ad operatori privati, che assicurino il mantenimento della destinazione industriale» (Art. 9).

«L’EMS è autorizzato ad alienare i beni mobili e immobili, le pertinenze, gli impianti e quant’altro recuperato delle attrezzature minerarie» (Art. 10).

Lo stesso EMS verrà soppresso e messo in liquidazione con l’Art.1 comma 1 della L.R. n. 5 del 20 gennaio 1999 (Soppressione degli Enti economici regionali, GURS 23 gennaio 1999 n. 4).


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[6] Si tratta di pochissimi casi: Figliola I e II; Gessolungo Lenza Piccola e Grande; Juncio Tumminelli Est e Ovest; Zubbi Trabonella Grande e Piccola; Giulfo Santalessi sez. II-III, IV, V-VI. Inoltre, Sacchitello e Sacchitello Cardillo sono la stessa miniera, come Patti Cannella e Sei Mondelli.


[7] In virtù dell’Art. 3, la Sochimisi sarebbe stata sciolta e posta in liquidazione da un’Assemblea straordinaria convocata entro 15 giorni dall’entrata in vigore della L.R. 42/1975.


[8] La flottazione venne introdotta nelle miniere di zolfo siciliane solo nel secondo dopoguerra, quando già l’industria zolfifera era in fase di smantellamento, rappresentando un notevole passo avanti nell’evoluzione tecnologica. Con tale sistema si riusciva a raggiungere un arricchimento pari al 99.5% in zolfo, con notevoli vantaggi ambientali essendo state eliminate quasi totalmente le esalazioni di anidride solforosa e i relativi effetti.


Produzione e occupati dal 1860 al 1960

Produzione annuale in Sicilia di zolfo (tonnellate) e numero di occupati (Fonte: Lo zolfo in Italia – Atti del Convegno Nazionale dello zolfo. Palermo 1961; per gli occupati ante 1878, F. Scardina: Produzione e Commercio dello Zolfo in Sicilia nel XIX secolo )

Istogrammi della produzione annuale siciliana di zolfo e numero di occupati (Fonte: Lo zolfo in Italia – Atti del Convegno Nazionale dello zolfo. Palermo 1961)

Processi chimici-industriali che hanno ridotto il peso commerciale dello zolfo nativo


Processo Solvay vs Processo Leblanc

Il processo Leblanc per la produzione della soda del 1791 richiedeva l’uso di salgemma (NaCl), acido solforico (H2SO4) e calcite (CaCO3) secondo le reazioni:

2NaCl + H2SO4 → 2HCl + Na2SO4

Na2SO4 + CaCO3 + 4C → Na2CO3 + CaS + 4CO

producendo come scarti indesiderati acido cloridrico (HCl), solfuro di calcio (CaS) e monossido di carbonio (CO).

Nel 1861 il chimico belga Ernest Solvay ideò un nuovo processo per la produzione della soda tramite l’uso di salgemma, calcite e ammoniaca (NH3) secondo una successione di reazioni:

decomposizione per calore della calcite: CaCO3 CaO + CO2

combinazione dell’anidride carbonica (CO2) prodotta con salgemma e ammoniaca: NaCl + NH3 + CO2 + H2O NaHCO3 + NH4Cl

Il bicarbonato di sodio (NaHCO3), solubile in acqua, per riscaldamento fa precipitare il carbonato di sodio (Na2CO3) e libera anidride carbonica: 2NaHCO3 Na2CO3 + CO2 + H2O

mentre il cloruro di ammonio (NH4Cl) trattato con calce viva (Ca(OH)2) rigenera l’ammoniaca: CaO + H2O Ca(OH)2 | Ca(OH)2 + 2 NH4Cl CaCl2 + 2NH3 + 2H2O

Poiché l’ammoniaca viene riciclata nel processo, l’unico prodotto di scarto è il cloruro di calcio (CaCl2) che può essere commercializzato come reagente chimico, antigelo, additivo alimentare.

Dal 1863, anno di entrata in vigore in Inghilterra dell’Alkali Act che aveva l’obiettivo di controllare le emissioni di acido cloridrico, il processo Solvay andò via via rimpiazzando il processo Leblanc.


Processo Chance-Claus

Il solfuro di calcio (CAS) prodotto dal Processo Leblanc trattato con acqua produce idrogeno solforato (H2S) secondo le reazioni:

CaS + H2O Ca(SH)(OH) | Ca(SH)(OH) + H2O Ca(OH)2 + H2S

Nel 1882, il chimico inglese di origine tedesca Carl Claus inventò un processo per trasformare l’idrogeno solforato in zolfo, che consisteva nell’ossidazione di parte dell’idrogeno solforato con ossigeno e nel successivo trattamento dell’anidride solforosa così formata con il restante idrogeno solforato in modo da ottenere zolfo:

2H2S+ 3O2 2SO2 + 2H2O | 2SO2 + 4H2S 6S + 4H2O

L’anno successivo (1883), il chimico Alexander Chance visitò l’officina in cui era utilizzato il processo di Claus, ne ottenne la licenza e si dedicò a perfezionarlo e ad applicarlo industrialmente dal 1888 all’idrogeno solforato liberato dal solfuro di calcio.

La produzione dell’acido solforico col metodo di contatto tramite l’arrostimento della pirite

La produzione di acido solforico (H2SO4) attraverso l’arrostimento della pirite (FeS2), il minerale solfuro più diffuso in Italia, avviene tramite le seguenti reazioni:

4FeS2 + 11O2 2Fe2O3 + 8SO2 (arrostimento della pirite a 700-800°C) | 8SO2 + 4O2 8SO3 |8SO3 + 8H2O 8H2SO4

Fu il francese Michele Perret nel 1835 a creare il primo forno per l’arrostimento delle piriti e, qualche anno dopo, in seguito ai problemi di approvvigionamento dello zolfo siciliano, questo metodo cominciò a soppiantare quello che utilizzava lo zolfo nativo per produrre anidride solforosa (S + O2 SO2)


La raffinazione dello zolfo


La raffinazione serviva a portare il tenore di zolfo, dal 97÷98% del grezzo, ad un valore prossimo al 100%.

Veniva eseguita tramite liquefazione in casse di ghisa, ebollizione in storte di ghisa, riscaldamento dei prodotti di combustione e successiva condensazione in recipienti cilindrici verticali chiusi; da questi lo zolfo passava ad altri recipienti aperti dai quali era versato negli stampi.

I prodotti finali erano i “pani”, forme di 50 kg di peso o i “cannoli”, pezzi di forma cilindrica.

Lo zolfo raffinato poteva, a sua volta, essere sottoposto alle lavorazioni brevemente descritte di seguito:

  • sublimazione: i vapori usciti dalle storte erano immessi in ampie camere in muratura e bruscamente raffreddati, diventando polvere finissima (fiori di zolfo). Il periodo di funzionamento del ciclo durava una settimana con una produzione di circa 12-15 tonnellate;

  • molitura: lo zolfo raffinato o grezzo di alta qualità, sminuzzato in un frantumatore metallico, veniva macinato in un frantoio a pietra e la polvere ottenuta setacciata con un doppio crivello (buratto), di seta all’esterno e metallico all’interno. La polvere che passava entrambi i livelli, costituiva il molito e veniva insaccata; il resto era inviato nuovamente alla macinatura.

La produzione era di circa 6 tonnellate per ciclo, che durava intorno alle 10 ore;

  • ventilazione: lo zolfo raffinato era macinato in un frantoio a cremagliera circolare e ruota dentata che lo riduceva in polvere finissima. Questa polvere veniva inviata mediante una corrente di anidride carbonica in un grande recipiente cilindrico (h = 4 m; Ø = 1.80 m) dove la parte più fine (ventilato) si attaccava alle pareti, mentre la parte meno fine precipitava ed era sottoposta a una nuova macinazione.