Argentiera della Nurra

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«La miniera dell’Argentiera è situata in prossimità del Capo omonimo sulla costa nord-occidentale dell’isola e sul limite occidentale dell’oasi di scisti antichissimi che occupa parte della vasta regione denominata Nurra. Dalla vicina punta Argentiera (m.228) si apre un esteso panorama sulla varia e dirupata costa da Porto Conte e Capo Caccia al Capo Falcone. Vi si accede da Porto Torres mediante la nuova ferrovia della miniera Nurra (20 km) e da detta miniera su strada carrareccia che verrà prossimamente riattata (15 km), ma tutti i servizi della miniera si fanno per via di mare», così, nel 1916, l’allora direttore della miniera, l’ingegnere piemontese Ottavio Garzena, descriveva per il Touring il sito della miniera dell’Argentiera della Nurra (fig. 1).

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[1] Gran parte del contenuto di questa pagina è tratto e rielaborato da Ruju, 2008 e Ottelli, 2014.

Fig. 1 - L’area della miniera dell’Argentiera della Nurra vista dall’alto (luglio 2020, da GoogleEarth)

Geologia e giacimentologia

«Lo scisto di questo distretto è intersecato al capo dell’Argentiera da un filone della stessa denominazione, il quale ha la direzione nord-nord-est e passa poco lontano dal seno di mare detto porto di San Nicolò; la sua inclinazione è di 45° a 50° verso ponente. Questo filone assai interessante è diviso in due zone, denominate l’una filone del muro o filone di San Rocco, l’altra filone del cadente o filone Sotto l’Acqua, le quali sono sensibilmente parallele fra loro e separate da una terza zona intermedia pressoché sterile. Una sezione fatta attraverso la giacitura, nel gennaio 1869, dà per composizione della medesima, a partire dal muro, ossia dalla parete inferiore, le seguenti suddivisioni:

I Filone di San Rocco: blenda e quarzo con poca galena argentifera, spessore 2 m

II Scisto duro, 1 m

III Argilla con noccioli di minerale, 1 m

IV Scisto in decomposizione con minerale, 2 m

V Scisto duro, 0.70 m

VI Filone Sotto l’acqua: blenda, galena argentifera, quarzo e Fahlerz, 3 m

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Spessore totale 9.70 m

... La parte metallifera del Filone San Rocco consta essenzialmente di blenda, la galena non figurandovi che allo stato di rare impregnazioni o di sottili vene senza continuità. Il Filone Sotto l’Acqua presenta in generale un miscuglio intimo di blenda, galena, quarzo e Fahlerz, nel quale però presentansi qua e là concentrazioni del minerale piombifero quasi scevro di blenda. La galena di questa giacitura è molto argentifera. Un saggio fatto alla zecca di Genova ha dato 218 grammi di argento per cento chilogrammi di minerale, contenente 49 di piombo, ossia 444 grammi per cento chilogrammi di piombo contenuto. Un campione del filone San Rocco ha dato 22 per cento di piombo, contenente 105 grammi di argento. Gli antichi hanno coltivato questo filone, evidentemente per estrarne i minerali argentiferi, come la denominazione di Capo dell’Argentiera e quella di Rocca della Plata rimaste a quelle località indicano bastantemente. Vi si osservano gli spaziosi scavi mediante i quali venne estratta la porzione della giacitura più ricca in piombo, e lasciata invece la parte essenzialmente blendosa. Questi scavi scendono sino al livello della valle, cioè circa a 60 metri sotto le sommità dei due pozzi ivi aperti dall’affioramento del filone. Lo scolo delle acque veniva procurato mediante un cunicolo che spingevasi dal piano di essa valle fino all’incontro della massa metallifera per una lunghezza di 80 metri...» (Quintino Sella, 1871).

I metodi adottati per la coltivazione della miniera furono diversi ma sempre con “con ripiena”, date le caratteristiche di estrema fragilità e franosità delle rocce incassanti.

Scaricata dall'alto attraverso un apposito fornello, la ripiena, oltre a riempire i vuoti e a sostenerne le pareti, veniva utilizzata come base d’appoggio da cui si realizzavano verso l'alto dei gradini che venivano poi abbattuti con le mine (fig. 2).

Il minerale abbattuto, sempre mediante fornello, veniva scaricato nella galleria di carreggio, munita di binario per essere trasportato all'esterno.

Quando il giacimento non fu più raggiungibile mediante gallerie scavate attraverso il fianco della montagna, si realizzarono pozzi di estrazione profondi, di cui il principale fu il Pozzo Podestà (fig. 3) dal nome del barone Andrea Podestà, Presidente del Consiglio di Amministrazione della Società Correboi.

Il pozzo, scavato dalla superficie (+30 m slm) al livello -220 m slm, aveva una sezione circolare con un diametro di 3.60 metri, era completamente rivestito in muratura e servito da un macchina di estrazione a vapore di 50 HP di potenza, costruita dalla ditta bolognese Calzoni.

La velocità di estrazione era di 4 metri al secondo per i materiali e un metro al secondo per il personale.

Dal pozzo [2], che metteva in comunicazione l'esterno con il sotterraneo, si staccavano a varie profondità i diversi livelli, attrezzati con binari su cui potevano scorrere i carrelli che, carichi di materiale, venivano portati all'esterno.

Fig. 2 -Coltivazione a gradino rovescio per tagli longitudinali montanti e ripiena al piede (Ottelli, 2014)

Fig. 3 - Pozzo Podestà all'Argentiera

A fine coltivazione, i livelli scavati erano 15, indicati con la loro quota al livello del mare:

  • 4 sopra il livello del mare (+50, +45, +30, +5)

  • 11 serviti dai vari pozzi della miniera:

    • Pozzo Alda (-35, -75, -105, -140);

    • Pozzo Podestà (-5, -75, -125, -175, -220);

    • Pozzo Umberto (-250, -285 e -325), che partiva dal livello di base del pozzo Podestà (-220) e arrivava alla profondità massima di coltivazione (-325 m slm).


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[2] Il pozzo Podestà rappresentava il meridiano zero della miniera, che divideva la stessa in due zone a ponente (P) e a levante (L) del pozzo stesso.

[3] Questo pozzo partiva dal livello di base del pozzo Podestà (-220) e arrivava alla profondità massima di coltivazione (-325 m slm).

Cenni storici

Si tratta di una miniera antichissima: la scoperta di una necropoli con suppellettili della prima età del cristianesimo e di primitivi forni di fusione fa presumere che anche i romani vi abbiano trovato e trattato la galena ricca in argento che doveva abbondare negli affioramenti del giacimento; tornò ad essere coltivata a fine XIII secolo durante l’occupazione pisana.

In tempi moderni, dopo uno sfortunato tentativo di valorizzazione da parte dello scrittore Honoré de Balzac [4], la miniera fu riavviata da una imprenditrice sassarese, la nobildonna Caterina Angela Tola, cui fu rilasciato RD di concessione il 22 settembre 1867, per passare nel 1870 sotto il controllo della Societé Anonyme Minière et Metallurgique Sardo-Belge.

Quindi, dopo una serie di passaggi intermedi nel 1872 alla Ditta belga De Laminne e nel 1873 alla Compagnia Generale delle Miniere con atto di cessione in data 5 febbraio 1895 fu una compagnia ligure, la Società di Correboi, ad assumere il controllo del giacimento e a dare un assetto stabile al sito minerario.

Il giacimento fu per alcuni decenni caratterizzato da un’elevata redditività e veniva segnalato come “isolato ma importantissimo”.

Agli inizi del ‘900 i costi di gestione corrispondevano a meno della metà del valore della produzione, con utili dichiarati che sfioravano il 40% dell’attivo e una manodopera di 255 unità. Di conseguenza i livelli salariali all’Argentiera erano più elevati rispetto a quelli praticati nelle altre miniere sarde.

Tuttavia, la situazione peggiorò nel giro di pochi anni a causa delle difficoltà generali del mercato internazionale e di alcuni problemi specifici nella coltivazione del giacimento. Anche la 1a guerra mondiale e il ritardo nell’introduzione di innovazioni tecnologiche nelle attività mineraria contribuirono alla decadenza della miniera.

I primi anni ’20 del XX secolo furono anni di grande crisi generale, che investì anche il settore minerario sardo.

Tale crisi, che nel 1921 aveva ridotto la manodopera della miniera a un minimo relativo di 117 addetti, provocò nel 1924 il passaggio della miniera al gruppo Penarroya [5], che aveva già assorbito la Malfidano e la Pertusola e controllava, quindi, anche le miniere di Gennamari e Ingurtosu.

L’allora direttore della miniera, ingegner Giovanni Sgarbi, originario di Mirandola (Modena), contrario all’accordo dichiarò acutamente: «La Pennaroya vede nell’Argentiera una cassaforte, ha studiato il modo di impossessarsene e, come logica conseguenza, di levarne il contenuto nel più breve tempo possibile per impiegarlo in altre imprese e speculare sul capitale circolante. La Correboi invece ha tutto l’interesse di considerare la sua unica miniera come un utile impiego del denaro proprio ed avrà sempre il tornaconto di farla durare il più a lungo possibile. Si tratta quindi di due forze contrarie, ben difficilmente uguali e di cui non sarà facile prevedere l’effetto risultante» (Società di Correboi, Copialettere – Vol. 19 pag. 118, 9 gennaio 1924.).

Di fatto, all’interno della strategia del gruppo Penarroya, attivo nella costituzione di un trust nel settore dello zinco, la miniera del nord Sardegna assumeva una posizione marginale.

Così la chiusura del 1928, originariamente programmata per ragioni di adeguamento tecnologico, si protrasse a lungo, fino al 1936, mentre l’ingegner Sgarbi lasciò la direzione della miniera già nel 1929.

Con gli incentivi introdotti a sostegno della politica autarchica fascista, la produzione crebbe fino ad arrivare, all'inizio degli anni '40, a un valore medio giornaliero di grezzo pari a circa 175 tonnellate, con un tenore medio del 10,5% in Blenda e dell'1,6% in Galena.

Analogamente a quanto avvenne in altre imprese controllate da capitali francesi, il sopraggiungere della 2a guerra mondiale determinò la requisizione del giacimento da parte del Governo fascista che ne affidò la gestione a un Commissario.

Oltre alle difficoltà strettamente legate alla guerra, cominciarono anche a sorgere preoccupazioni direttamente connesse con le riserve ancora coltivabili: queste, valutate a circa 120,000 tonnellate, garantivano un periodo di vita residuo di soli 4 anni, se non si fossero individuate nuove mineralizzazioni.

Le ricerche precedentemente intraprese non avevano dato esito positivo, né erano sufficienti i recuperi di minerale, ottenuti dalle vecchie coltivazioni e perfino dalle ripiene, trattate con le nuove tecnologie disponibili.

Nell’agosto del 1943 i lavori di coltivazione vennero sospesi, mentre continuarono senza sosta i lavori di ricerca, oltre a quelli di manutenzione delle gallerie.

Finita la guerra riprese l’attività estrattiva, ma nel 1946, nonostante le ricerche, le riserve accertate erano solo di 100,000 tonnellate, che garantivano poco più di 3 anni di vita alla miniera, in cui la manodopera era scesa a 150 addetti, di cui solo 39 minatori.

Le nuove ricerche, che garantirono anche una ripresa dell’occupazione arrivata al massimo di circa 500 addetti nel 1951, dettero qualche piccolo risultato, così le riserve salirono a 160,000 tonnellate a fine anni ’40, quando la produzione era di 250 ton/giorno di grezzo con una resa di mercantile al 12% di cui 2.4 di galena al 60% in Pb e 9.6 di blenda al 58% in zinco.

Negli anni ’50, a partire dal pozzo Umberto, cominciarono le coltivazioni nei livelli più profondi della miniera, fino al livello -325 iniziato nel 1956.

Nel 1957 gli addetti alla miniera erano calati a 320 unità, di cui 170 all’interno, 120 all’esterno e 30 impiegati tecnici e amministrativi, mentre nel 1960 si erano ancora di più ridotti a 238, di cui 138 minatori.

In quello stesso anno, le coltivazioni si limitarono principalmente ai livelli più superficiali, da -5 a +50 m slm, mentre nei livelli profondi erano disperse nelle diverse aree, costringendo, quindi, a tenere aperte numerose gallerie la cui manutenzione diventava sempre più onerosa, senza, peraltro, ottenere una significativa estrazione di minerale.

Si arrivò, così, alla chiusura avvenuta con DA n. 365 del 21 settembre 1963, prima tra le principali miniere storiche della Sardegna a subire tale sorte.

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[4] Nel marzo del 1838 Balzac si imbarcò da Marsiglia alla volta della Sardegna, dove sognava di risollevare le proprie finanze, gravate da una quantità ingente di debiti, attraverso lo sfruttamento dei giacimenti argentiferi della zona dell’Argentiera. L’impresa fallì sia perché tarda nei tempi (la miniera era stata già concessionata) che nei modi (mancanza di adeguate capacità tecniche).

[5] Pur rimanendo la concessione intestata alla Società anonima di Correboi

Il villaggio minerario nel contesto della Nurra

Rispetto alle altre miniere storiche sarde, l’Argentiera era molto lontana dai centri abitati: fu giocoforza, quindi, il formarsi di un villaggio minerario vicino alla miniera.

Il villaggio (fig. 4) era completamente in mano alla Società di Correboi, che era proprietaria di diverse centinaia di ettari e che aveva tra i suoi dipendenti anche il medico [6], il cappellano e, fin quando non arrivò la scuola pubblica, anche la maestra.

Uno dei fulcri sociali della borgata era lo spaccio (detto “cantina”), gestito direttamente dall’azienda, presso il quale si recavano i minatori e i loro familiari che potevano prelevare i prodotti necessari alla vita quotidiana attraverso il sistema dei libretti.

Una corretta gestione non consentì la diffusione di forme di truck-system così spinte come quelle rilevabili invece in altre miniere sarde.

Nella cantina, anzi, si praticavano prezzi inferiori a quelli correnti non solo nei Comuni, ma anche nelle Cooperative principali della Sardegna.

Il direttore della miniera era una sorta di governatore, con poteri molto ampi e a lui si rivolgevano ripetutamente gli operai e le loro famiglie.

Tutti gli operai dipendevano direttamente dall’azienda e venivano retribuiti generalmente a giornata.

Il nuovo agglomerato andò assumendo un ruolo importante anche rispetto al particolare contesto sociale di una vasta porzione della Nurra pastorale esterna alla miniera, riuscendo a svolgere, quindi, un ruolo di stimolo e di progresso per un’area, la Nurra, per altri versi totalmente abbandonata a sé stessa.

Unico villaggio dotato di servizi essenziali in una vasta zona quasi spopolata, l’Argentiera andò configurandosi, almeno a partire dagli inizi del XX secolo, come una realtà in qualche modo accogliente, a differenza di altri villaggi minerari, strutturalmente molto più precari e provvisori.

Fig. 4 - Il villaggio dell'Argentiera a inizio XX secolo

Il confronto con la miniera di ferro di Canaglia, anch’essa nella Nurra a una quindicina di km dall’Argentiera, sfruttata a partire dal secondo decennio del ‘900, è in questo senso esemplare: questa borgata non andò oltre l’edificio della direzione e poche case, perché gran parte della manodopera arrivava da Porto Torres, con un trenino a scartamento ridotto che serviva anche per il trasporto del minerale.

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[6] Dagli inizi del ‘900 all’Argentiera era presente un’efficiente infermeria, capace di effettuare alcuni ricoveri, una specie di piccolo “ospedale”.

L'Argentiera come simbolo identitario e di integrazione tra diverse culture


La Commissione parlamentare d’inchiesta, insediata nel 1908 dal 3° governo Giolitti, segnalò l’Argentiera come la miniera sarda con la percentuale più consistente di lavoratori non isolani (12% ca.): si trattava in prevalenza di piemontesi che, presenti in maniera consistente già nel 1870, costituivano ancora l’ossatura dello staff aziendale sotto la guida del conterraneo ingegner Ottavio Garzena [7].

Oltre ai piemontesi, lavorarono e vissero all’Argentiera toscani, emiliani, siciliani e veneti, spesso richiamati dalla presenza di un direttore o dirigente loro conterraneo.

Il personale sardo, oltre che dai centri del NO dell’isola, proveniva dalla Barbagia, dal Logudoro, dal Meilogu, dal Sarrabus e dal Campidano, mentre raro ed episodico era l’impiego di personale della Nurra, i cui abitanti erano dediti prevalentemente alla pastorizia e gelosi della propria autonomia e indipendenza.

La storia dell’Argentiera è stata, quindi, storia di integrazione tra uomini e culture diversi: nel corso degli anni questo crogiolo di lavoratori eterogenei riuscì a creare una comunità compatta in cui era frequente la tendenza a mettere radici [8], a differenza di quanto avveniva in altri importanti centri minerari sardi.

Chi si stabiliva all’Argentiera si considerava un pioniere e “le famiglie che riuscirono a risiedervi stabilmente assunsero l’atteggiamento tipico di chi, sentendosi parte attiva di un processo di fondazione, poteva rivendicare ed ottenere dall’azienda un trattamento particolare, in base a consuetudini che assunsero il valore di norme non scritte” (Ruju, 2008).

Tutto ciò favorito, agli inizi del XX secolo, dalla politica aziendale volta a stanzializzare gli operai favorendo e promuovendo la ricongiunzione familiare.

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[7] Altro elemento caratteristico che differenziava la manodopera della miniera dell’Argentiera era la totale assenza di donne e, almeno dagli inizi del ‘900, dei minori sotto i 12 anni.

[8] Tra il 1910 e il 1959 furono celebrati 381 matrimoni e 2234 battesimi.

Fig. 5 - L'ing. Ottavio Garzena, direttore della miniera a inizio XX secolo