Lotte sindacali

in Toscana

Le lotte sindacali in Valdarno

Miniere di Cavriglia (1948-1955)


Con la ricostruzione postbellica e il Piano Marshall l’Italia venne invasa dal carbone estero, più economico e con una resa migliore; le vendite di lignite caddero a picco, crollando dalle 42,940 tonnellate del 1947 alle 10,755 del 1948, e per la Società Mineraria del Valdarno (SMV) fu la spallata definitiva.

Invece di affrontare la crisi attraverso piani di ristrutturazione e diversificazione, la direzione pensò solo ad attuare un forte ridimensionamento del personale, passato da 3,000 unità a 2,000 a fine 1947 e ulteriormente ridotto con altri 660 licenziamenti nel 1948, quando la SMV chiese al Tribunale di Firenze l’amministrazione controllata.

I minatori però non si rassegnarono a quel destino: molti di loro pensavano che il lavoro in miniera si potesse razionalizzare attraverso una selezione qualitativa della lignite e, soprattutto, l’attuazione di una politica concorrenziale dei prezzi.

In questo quadro i minatori, alla ricerca di sostegno e di nuove idee, organizzarono a Firenze, il 17÷18 gennaio 1948, un convegno nazionale delle ligniti cui parteciparono esperti provenienti da ogni parte d’Italia.

Rinfrancati dal successo dell’iniziativa, proposero un loro piano per la gestione diretta alternativo a quello della SMV, cui sostanzialmente aderì il governo che affidò la miniera direttamente ai minatori per i pochi mesi successivi, fino allo scadere dell’amministrazione controllata.

Nell’agosto del 1948 venne, quindi, costituita una Cooperativa di minatori (LAMIVA) con presidente Priamo Bigiandi, deputato ed ex minatore. La situazione dopo mesi di chiusura era difficilissima, ma i risultati della nuova gestione furono sostanzialmente positivi.

Nonostante ciò, alla scadenza dei termini di amministrazione controllata la gestione non venne rinnovata.

Di fronte all’imminente crisi occupazionale i minatori decisero, allora, per la “gestione illegale” (maggio 1949 - aprile 1950), occupando le miniere per evitare la smobilitazione generale e attuando anche forme di protesta singolari, come l’invasione per 52 giorni consecutivi di San Giovanni Valdarno da parte di donne e ragazzi.

«“È stato deciso che vadano le donne a dimostrare a S. Giovanni, mentre noi occupiamo la miniera”, mi aveva annunciato mio marito, senza aggiungere altro, come se la decisione di partecipare spettasse solo a me. “Come a dimostrare?" avevo chiesto, allarmata per il fatto che ero incinta di otto mesi e con una figlia da accudire. “Il trenino degli operai vi condurrà fino a Ponte alle Forche; da lì proseguirete a piedi fino a S. Giovanni e sfilerete in corteo per Via Maestra. Resterete in paese per tutto il giorno e, se vi chiedono il perché, spiegatelo. Tutti devono sapere il motivo della lotta. Se la Mineraria chiude le miniere, saremo alla fame” ... “Per quanto tempo dovremo manifestare?” avevo aggiunto, facendo implicitamente intuire che accettavo. Neppure mi ponevo l’alternativa se partecipare o meno: ero la compagna del mio uomo, nel bene e nel male e presto sarebbero stati due i figli a cui pensare. Dovevo garantire la mia presenza, anche se poteva costarmi fatica e disagio. “Non lo so; quanto sarà necessario. Giorni, forse mesi…”, l’espressione grave di mio marito, le spalle curve come sotto un peso più grande di lui, mi avevano stretto il cuore... “Vedrai, ce la faremo” lo avevo rincuorato. “Non preoccuparti per me; in fondo sarà come andare a spasso” avevo concluso, cercando di minimizzare la realtà che avrei dovuto affrontare nelle mie condizioni. Dovevo essere forte: per lui e peri miei figli. “Se te la senti, fai bene a partecipare”, la voce del mio uomo, sollevata, “ognuno deve fare la sua parte. Dobbiamo essere tutti solidali” … La disoccupazione ci aveva tolto ogni certezza. Se la mia presenza a S. Giovanni era necessaria, sarei andata. A qualunque costo. Fu così che la lotta iniziò» [1].

Di nuovo fu necessario un intervento governativo per trovare un accordo, così, il 22 aprile 1950, venne costituita la cooperativa Ente Ligniti Valdarno (ELV) che subentrò alla LAMIVA.

Ma la situazione non era più come due anni prima, la lunga lotta, pur conclusasi in modo positivo, almeno apparentemente, aveva lasciato strascichi di fatica e sfiducia.

A ciò si aggiunse l’atteggiamento mai risolutivo del governo e l’opposizione della SMV, contraria alla sua esclusione dalla gestione mineraria.

In questo clima, la SMV avanzò un piano innovativo, formulato dal gruppo finanziario milanese “La Centrale”, che prevedeva la chiusura delle miniere in sotterraneo e il ritorno alla coltivazione a cielo aperto con l’uso di grossi escavatori a catena di tazze, previo lo sbancamento della copertura argillosa con l’utilizzo di grossi escavatori meccanici, i motorscrapers.

I minatori, sconcertai, si opposero: scriverà Piovene[2] di «…una certa tristezza di fronte al carattere esiguo di alcuni beni di questa affollata Italia: millecinquecento persone che si battono per un buco scavato in mezzo ad un prato, piccola cosa, ma necessaria alla vita», un buco che è anche la storia e l’identità di quei minatori.

Il progetto, denominato Santa Barbara, andò, comunque, avanti, approvato dal Ministero il 15 luglio 1955, e la gestione passò alla SpA Santa Barbara nata dalle ceneri della SMV.

Oltre alla radicale trasformazione dell’attività di coltivazione, fortemente automatizzata e a basso contenuto di manodopera, prevedeva l’utilizzo della lignite estratta direttamente “in loco”, in una centrale termoelettrica appositamente costruita.

«Forse il futuro del territorio era veramente nel Progetto, ma era reale anche lo spettro della disoccupazione. Centinaia e centinaia di lavoratori avrebbero dovuto cercare altrove una nuova attività. Mutava il volto anagrafico della zona e iniziava il dilagante fenomeno del pendolarismo. La cultura dei minatori si sgretolava».


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[1] Le citazioni tra virgolette sono tratte da “La valle delle miniere” di Marta Bonaccini, Aska 2015

[2] Guido Piovene: Viaggio in Italia – Mondadori (1957)


Miniera delle Carpinete (1968)


Nel settembre 1968 l’avanzamento del fronte di scavo della lignite raggiunse l’area prossima alla miniera delle Carpinete, l’unica della zona non gestita dall’ENEL, subentrata alla SpA Santa Barbara nel 1962, e ancora con coltivazione in sotterraneo.

Gestita dalla Soc An. Miniere delle Carpinete, occupava 50 minatori non più giovani ed era destinata fatalmente ad essere assorbita nel progetto Santa Barbara o a scomparire. I minatori, che pure la gestivano in cooperativa, si resero conto che la loro miniera era obsoleta e di essere fuori dai giochi se non fossero stati assorbiti nel progetto della coltivazione a cielo aperto.

Due sono gli elementi che sembrano ostacolare tale conclusione: la qualità della lignite, definita “grassa”, cioè troppo umida e con minore potere calorifero, e la vicinanza del giacimento alle colline che, in seguito all’asportazione del terreno di copertura, avrebbero potuto franare e seppellire i macchinari di scavo.

Per spingere verso una conclusione positiva, i minatori decisero di intraprendere un’azione di protesta, occupando le gallerie sotterranee per un giorno e organizzando per l’indomani, sabato 19 ottobre 1968, una marcia silenziosa a S. Giovanni Valdarno, con la partecipazione dei familiari. In questo modo riuscirono a coinvolgere l’opinione pubblica, locale e nazionale, facendo uscire la loro vicenda dal cono d’ombra in cui era relegata. Si trattava, ormai, di una questione di umanità, di giustizia sociale e di sicurezza, stante la vicinanza del fronte di scavo della lignite alle gallerie sotterranee, che cominciavano ad essere oggetto di problemi di stabilità.

A Natale i minatori e le loro famiglie decisero di portare la loro protesta fino al capoluogo provinciale.

Con l’accompagnamento del Consiglio Comunale di S. Giovanni Valdarno, il corteo si mise in marcia verso Montevarchi, da cui in pullman arrivò alla periferia di Arezzo. Di nuovo in marcia verso il centro della città, dove i manifestanti si prepararono a passare la notte di Natale all’addiaccio, sotto le tende montate per l’occasione e scaldandosi con la “loro” lignite.

La singolare manifestazione di protesta coinvolse la cittadinanza e il vescovo di Arezzo li invitò a partecipare alla messa di Natale in Duomo.

Il nuovo anno, però, iniziò ancora con molte incertezze. La soluzione non era alle porte, alle porte era, invece, un’escavatrice dell’ENEL e nelle gallerie cominciano ad apparire profonde crepe.

Pur se l’escavatrice venne allontanata, giustamente i minatori delle Carpinete non si assunsero il rischio di scendere nelle gallerie. Seguì un periodo di incontri, di colloqui, di burocrazia, di incertezza che sembrò non finire mai.

Le proteste e i cortei dimostrativi si ripeterono. «La Betta, l’enorme scavatrice della S. Barbara protende i suoi enormi tentacoli fin quasi sopra i tetti dei capannoni delle Carpinete. Il contrasto è stridente: da una parte fa tutto la macchina, dall’altra uomini e bestie continuano a scavare lignite con il piccone e a trasportarlo con le vecchie chiatte» [La Nazione, 12 marzo 1969].

Finalmente l’ENEL cominciò a prendere in considerazione la possibilità di acquisire la vecchia miniera, ma le lungaggini burocratiche ritardarono fino a Luglio la firma dell’accordo, con cui la Carpinete smantellata in attesa dell’arrivo dell’escavatrice, entrò a far parte del progetto S. Barbara.

Con la sua scomparsa finì un’era, quella delle coltivazioni in sotterraneo, in fondo la fine delle miniere.

Monte Amiata: le lotte sindacali nel 2° dopoguerra (1948-1960)


I guasti della guerra, il problema della disoccupazione dilagante, la profonda contrapposizione politica scaturita dagli esiti delle elezioni del 18 aprile 1948, la notizia dell’attentato a Palmiro Togliatti furono tutti elementi che contribuirono a incendiare gli animi in un momento assai difficile sul piano economico e sociale per le zone amiatine.

Ad Abbadia, il 15 luglio 1948, operai comunisti occuparono la centralina telefonica e aggredirono esponenti della Dc e del Msi, devastando le sedi dei due partiti e quella delle Acli; i minatori decretarono lo sciopero e insieme con gli altri dimostranti bloccarono le principali vie d’ingresso al paese.

Negli scontri con la polizia che seguirono vi furono un agente morto e alcuni feriti per lo scoppio di una bomba a mano, mentre la sera fu ucciso a coltellate dalla folla dei dimostranti il maresciallo dei carabinieri.

Il 16 luglio il Ministro dell’Interno dichiarò lo stato d’emergenza e il paese fu assediato dalle forze dell’ordine, coadiuvate dai militari del 78° reggimento “Lupi di Toscana” che eseguirono rastrellamenti e retate: 264 arresti con 337 rinvii a giudizio (fig. 1)

Le società minerarie fecero la loro parte licenziando in massa oltre un migliaio di operai fra i più politicizzati, più di 300 solo ad Abbadia S. Salvatore.

La situazione migliorò agli inizi degli anni ‘50, in particolare con lo scoppio della guerra di Corea (1952), quando vi fu un nuovo rilancio della domanda di mercurio che stimolò un aumento di produzione, ulteriormente accresciuta nel 1956 con l’installazione, al posto degli ormai venerandi forni Cermak-Spirek, di due forni rotativi Gould che accrebbero la capacità dell’impianto a 900 tonnellate di grezzo al giorno.

La ripresa fu però di breve durata e la produzione di bombole di mercurio per l’intero comprensorio amiatino tornò a scendere già dal 1957.

Nel maggio del 1959 gli operai occuparono la miniera di Abbadia San Salvatore per 24 giorni in seguito a una lunghissima protesta durata per tutti i cinque mesi precedenti; i sindacati e le Società trovarono un accordo sui cottimi, ma 228 dipendenti dovettero dare le dimissioni in cambio di un’indennità, mentre cento operai vennero licenziati.

Negli anni ‘60 la produzione si mantenne costantemente sopra le 50,000 bombole/anno, facendo dell’Italia la maggiore produttrice al mondo prima di Spagna e URSS, mentre l’occupazione andò, invece, riducendosi sull’intero territorio amiatino, passando dalle 2,063 unità del 1957 alle 1,470 del 1964, con un calo del 28.74%.


Fig. 1 - Luglio 1948: perquisizioni ad Abbadia S. Salvatore

Naturalmente tale riduzione provocò forti proteste sindacali, che si spinsero fino all’occupazione delle miniere.

Ma il destino del mercurio era ormai segnato: da un lato le ricerche di inizio anni ’70, che confermarono la tossicità del mercurio, causarono un forte calo delle applicazioni industriali con conseguente crollo del valore di mercato della bombola, passato dai 490 $ di gennaio 1970 ai 218 $ di dicembre 1971, dall’altro la crisi petrolifera con il conseguente aumento dei costi di produzione.

Le miniere amiatine non ressero alla crisi, ormai di carattere strutturale più che congiunturale, anche se molte furono le resistenze di carattere politico-sindacale, motivate dal fatto che l’attività mineraria rappresentava, allora, la principale, se non l’unica, attività economica della zona.