Miniere di Cavriglia in Valdarno

Geologia e giacimentologia

Il Bacino di Santa Barbara è parte del Bacino plio-quaternario del Valdarno Superiore, di cui rappresenta la prima di tre fasi di sviluppo tettonico-sedimentario, localizzata nel settore occidentale caratterizzato da depositi continentali di età pliocenica medio-superiore.

Tale bacino è caratterizzato dai depositi del primo subsintema del Bacino del Valdarno Superiore (Subsintema di Castelnuovo), sui quali poggiano in discordanza stratigrafica angolare i depositi del secondo subsintema (Subsintema di Montevarchi) e del terzo (Subsintema di Monticello-Ciuffenna).

In particolare, i depositi del Subsintema di Castelnuovo sono organizzati in una successione di ambiente continentale, di età riferibile al Pliocene medio-superiore (3.5÷3.0 Ma), che comprendono dal basso:

  • Ciottolami e sabbie di Spedalino: conglomerati monogenici, derivanti esclusivamente dalla formazione del Macigno, fortemente eterometrici e con abbondante matrice sabbiosa, riferibili ad apparati di conoide alluvionale/delta-conoide lacuale, poggianti sul substrato rappresentato appunto dal Macigno e da termini liguri strutturati in un potente livello olistostromico, con forte discordanza angolare, distribuzione E-W e immersione verso E.

  • Argille di Meleto, con spessori fino a 150 metri nella parte centrale del deposito, costituite da argille siltose grigie cineree ben stratificate, localmente in alternanza con strati sabbiosi, contenenti resti vegetali.

Nella parte bassa sono presenti i due potenti livelli di lignite oggetto della coltivazione mineraria, con potenze variabili da 10 metri presso i margini del bacino, fino a 40 metri nelle aree centrali di deposizione.

  • Sabbie di San Donato, sovrastanti alla precedente formazione e caratterizzate da sedimenti prevalentemente sabbiosi e sabbioso-limosi, contenenti abbondanti resti vegetali da riferire a un ambiente di delta-conoide alimentato dai settori occidentali, che passa verso l’alto a un sistema fluvio-deltizio; in alto sono delimitate da una superficie di troncatura erosiva.


Dal punto di vista della tettonica, il Bacino di S. Barbara è delimitato a S (Cavriglia) e a N (Gaville) da faglie anti-appenniniche, trascorrenti e distensive, a O dal versante chiantigiano in cui si osservano faglie dirette appenniniche (faglia del Vignale) che ribassano verso oriente, mentre a E, all’interno del bacino, si riconoscono l’alto strutturale di Meleto, delimitato da faglie dirette, e una depressione nell’area di Bomba.

In fig. 1 è mostrato lo schema geologico del bacino lignitifero, articolato, da N a S, nei giacimenti di S. Donato Gaville, Allori, Castelnuovo dei Sabbioni e Castelnuovo.

Nella zona del giacimento Castelnuovo le Argille di Meleto, sovrapposte al basamento pre-lacustre costituito dalla formazione del Macigno, sono interessate da faglie normali con direzione NO-SE inclinate di 45°-60° e con rigetto di 20-30 m, che attraversano l’Argilla di S. Barbara, il banco principale di lignite, spesso circa 30 metri, e si estendono in profondità fino al basamento pre-lacustre (Fig. 2a). Gli scavi per la coltivazione del banco di lignite hanno asportato l’argilla e messo a giorno le sabbie basali.

Nella zona del giacimento Allori, il basamento pre-lacustre in corrispondenza della sponda occidentale del bacino è costituito in prevalenza dalla formazione delle Argille Scagliose, mente a N lo stesso giacimento è attraversato da una faglia trascorrente destra ad andamento SO-NE (faglia di S. Martino), che interessa sia i depositi pliocenici che il basamento pre-lacustre.

A Nord della zona delimitata da tale faglia non è stata rilevata la presenza di faglie normali paragonabili a quelle osservate nel giacimento Castelnuovo e l’Argilla di S. Barbara è poco disturbata dal punto di vista tettonico.

A ridosso della sponda occidentale il banco lignitifero principale si presentava distorto e con spessori molto maggiori (50 metri ca.) di quelli del giacimento Castelnuovo (Fig. 2b).

Fig. 1 - Schema geologico del bacino lignitifero di Santa Barbara (D’Elia, 2006)

Fig. 2 Sezioni stratigrafiche dei giacimenti di Santa Barbara (a) e Allori (b) (D’Elia, 2006)

Cenni storici

La lignite della Valdarno è conosciuta fin dall’antichità, per via dei tanti affioramenti di quella «cosa» nera che non è pietra, non è legno, brucia ma non fa fuoco.

Fino al XVI secolo non ne era, però, nota la valenza economica; veniva, anzi, considerata poco meno di una calamità, poiché bruciava frequentemente esalando un fumo che «appuzza e vini», vini che all’epoca costituivano l’entrata più rilevante per i proprietari terrieri, che in una lettera di protesta al Granduca scrivevano «hora no si trova chi ne vogli» [1].

Tuttavia, a partire dal ‘700 la lignite diventò oggetto di studio più approfondito da parte della comunità scientifica dell’epoca.

Quando, a inizio XIX secolo, il Governo napoleonico condusse un’inchiesta nei vari comuni della Valdarno per verificarne le condizioni socio-economiche, i sindaci di Cavriglia e Figline risposero sottolineando che nella zona «vi è molto carbone e legno fossile... ma non se ne fa uso», se non nelle fucine del ferro.

Solo nel decennio successivo all’Unità d’Italia, nonostante il persistere delle lamentele dei proprietari terrieri, cominciò il reale sfruttamento della lignite con la coltivazione a cielo aperto dei principali affioramenti.

Nel 1872 nacque, così, la Società Italiana per l’Industria del Ferro che userà la lignite come combustibile per la ferriera di S. Giovanni Valdarno.

La nuova realtà stravolse i ruoli propri di una società contadina e mise in discussione gli interessi principali fino ad allora presenti nell’area, quelli legati alla proprietà terriera, quasi tutta nelle mani della nobiltà fiorentina; ma nonostante le forti resistenze il processo ormai non poteva essere fermato e per più di un secolo Valdarno e lignite costituiranno un binomio inscindibile.

I contadini diventarono operai, preferendo un’attività che prometteva più autonomia e un guadagno sicuro, seppur modesto, alla dipendenza dal padrone terriero, al servilismo del contadino.

Ma le condizioni di lavoro erano terribili: la lignite veniva sezionata a gradoni senza ricorrere a mezzi meccanici o all’aiuto di animali, si scavava con la sola forza delle braccia, i torsi nudi, la schiena curva.

Esauriti i pochi affioramenti si cominciò, ancora negli anni ‘70 del XIX secolo, la coltivazione in sotterraneo: i contadini diventati operai, si trasformarono ancora, stavolta in minatori a tutto tondo, a lavorare nelle viscere della terra e non era lavoro per tutti, che anche omoni grandi e grossi laggiù non ce la facevano ad andare, provavano come «un senso di vuoto, un desiderio di luce, di sole e di azzurro...» .

Cambiò anche il ruolo delle donne, non più cristallizzato all’interno della casa, ma proiettato all’esterno, nella vita della comunità di cui si condividevano ansie e preoccupazioni [2] .

A fine XIX secolo il Valdarno era diventata la zona più importante in Italia per l’estrazione della lignite, cosicché il 20 giugno 1905 venne costituita la Società Mineraria ed Elettrica Valdarnese (SMEV), con sede a Firenze e avente come scopo «l’estrazione e l’utilizzazione della lignite, la produzione e la trasmissione della forza elettrica».

Le condizioni dei minatori erano però pessime, con turni di lavoro di 10/12 ore a profondità che raggiungevano anche i 120 metri.

In caso di morte sul luogo di lavoro, spettava alla direzione decidere se versare un sussidio alla famiglia e l’unica forma di tutela per i minatori e per le loro famiglie erano le Società di Mutuo Soccorso.

Nonostante ciò, il numero di lavoratori impiegati nelle miniere continuò a crescere, fino ad arrivare a 5,000 unità durante la prima guerra mondiale.

Si diffuse presto una forte sindacalizzazione, prima socialista, ma poi anche anarchica e sindacalista rivoluzionaria; le agitazioni e gli scioperi si susseguirono in un crescendo che raggiunse il suo culmine nel biennio rosso del 1919-20, quando dopo sessantotto giorni di sciopero la SMEV concesse una riduzione dell’orario di lavoro e aumenti salariali.

Come nelle altre realtà minerarie toscane, l’avvento dello squadrismo fascista pose fine alle lotte sindacali per il successivo ventennio.

Nel 1923, da un riassetto della SMEV, nacque la SEV (Società Elettrica del Valdarno) per la produzione e la distribuzione dell’energia elettrica, mente il ramo estrattivo fu affidato alla nuova Società per l’Esercizio delle Miniere del Valdarno (SEMV), diventata nel 1928 Società Mineraria del Valdarno (SMV).

Gli anni del fascismo furono duri in termini di libertà personali e sindacali, ma grazie all’autarchia a Cavriglia si giunse a produrre il 74% della lignite nazionale.

Durante la seconda guerra mondiale le popolazioni del luogo pagarono un pesante tributo di vittime con le terribili stragi naziste del 4 luglio 1944 in cui vennero uccisi 191 civili innocenti.

Con la ricostruzione postbellica e il Piano Marshall l’Italia venne invasa dal carbone estero, più economico e con una resa migliore; le vendite di lignite caddero a picco, crollando dalle 42,940 tonnellate del 1947 alle 10,755 del 1948, e per la SMV fu la spallata definitiva.

Invece di affrontare la crisi attraverso piani di ristrutturazione e diversificazione, la direzione pensò solo ad attuare un forte ridimensionamento del personale, passato da 3,000 unità a 2,000 a fine 1947 e ulteriormente ridotto con altri 660 licenziamenti nel 1948, quando la SMV chiese al Tribunale di Firenze l’amministrazione controllata.

I minatori però non si rassegnarono a quel destino: molti di loro pensavano che il lavoro in miniera si potesse razionalizzare attraverso una selezione qualitativa della lignite e, soprattutto, l’attuazione di una politica concorrenziale dei prezzi.

In questo quadro i minatori, alla ricerca di sostegno e di nuove idee, organizzarono a Firenze, il 17÷18 gennaio 1948, un convegno nazionale delle ligniti cui parteciparono esperti provenienti da ogni parte d’Italia.

Rinfrancati dal successo dell’iniziativa, proposero un loro piano per la gestione diretta alternativo a quello della SMV, cui sostanzialmente aderì il governo che affidò la miniera direttamente ai minatori per i pochi mesi successivi, fino allo scadere dell’amministrazione controllata.

Nell’agosto del 1948 venne, quindi, costituita una Cooperativa di minatori (LAMIVA) con presidente Priamo Bigiandi, deputato ed ex minatore. La situazione dopo mesi di chiusura era difficilissima, ma i risultati della nuova gestione furono sostanzialmente positivi.

Nonostante ciò, alla scadenza dei termini di amministrazione controllata la gestione non venne rinnovata.

Di fronte all’imminente crisi occupazionale i minatori decisero, allora, per la “gestione illegale” (maggio 1949 - aprile 1950), occupando le miniere per evitare la smobilitazione generale e attuando anche forme di protesta singolari, come l’invasione per 52 giorni consecutivi di San Giovanni Valdarno da parte di donne e ragazzi.

«“È stato deciso che vadano le donne a dimostrare a S. Giovanni, mentre noi occupiamo la miniera”, mi aveva annunciato mio marito, senza aggiungere altro come se la decisione di partecipare spettasse solo a me. “Come a dimostrare?" avevo chiesto, allarmata per il fatto che ero incinta di otto mesi e con una figlia da accudire. “Il trenino degli operai vi condurrà fino a Ponte alle Forche; da lì proseguirete a piedi fino a S. Giovanni e sfilerete in corteo per Via Maestra... Se la Mineraria chiude le miniere, saremo alla fame”... “Per quanto tempo dovremo manifestare?”...“Non lo so; quanto sarà necessario. Giorni, forse mesi…La disoccupazione ci aveva tolto ogni certezza. Se la mia presenza a S. Giovanni era necessaria, sarei andata. A qualunque costo. Fu così che la lotta iniziò» .

Di nuovo fu necessario un intervento governativo per trovare un accordo, così, il 22 aprile 1950, venne costituita la cooperativa Ente Ligniti Valdarno (ELV) che subentrò alla LAMIVA.

Ma la situazione non era più come due anni prima, la lunga lotta, pur conclusasi in modo positivo, almeno apparentemente, aveva lasciato strascichi di fatica e sfiducia.

In questo clima, la SMV avanzò un piano innovativo, formulato dal gruppo finanziario milanese “La Centrale”, che prevedeva la chiusura delle miniere in sotterraneo e il ritorno alla coltivazione a cielo aperto con l’uso di grossi escavatori a catena di tazze (fig. 3), previo lo sbancamento della copertura argillosa con l’utilizzo di grossi escavatori meccanici, i motorscrapers.

I minatori, sconcertai, si opposero: scriverà Piovene nel suo Viaggio in Italia (1957) di «…una certa tristezza di fronte al carattere esiguo di alcuni beni di questa affollata Italia: millecinquecento persone che si battono per un buco scavato in mezzo ad un prato, piccola cosa, ma necessaria alla vita», un buco che è anche la storia e l’identità di quei minatori.

Il progetto, denominato Santa Barbara, andò, comunque, avanti, approvato dal Ministero il 15 luglio 1955, e la gestione passò alla SpA Santa Barbara nata dalle ceneri della SMV.

Oltre alla radicale trasformazione dell’attività di coltivazione, fortemente automatizzata e a basso contenuto di manodopera, prevedeva l’utilizzo della lignite estratta direttamente “in loco”, in una centrale termoelettrica (fig. 4) appositamente costruita [3].

Nel territorio d’attività dei motorscrapers si prevedeva l’asportazione di 5 milioni di metri cubi di terra per livellare la zona collinare ad una quota uniforme di 210 metri e creare il luogo per la discarica dello sterile, asportato dai lavori di scoperchiamento della lignite.

Su quel terreno c’era, però, un villaggio, il Ronco, tra i primi ad essere costruito nei primi anni del XX secolo per alloggiare i minatori (fig. 5).

Sarà evacuato nel giro di un anno, in due fasi: prima Ronco di Sotto, poi Ronco di Sopra [4].

Dopo il Ronco toccò al Basi e poi, in successione dal 1961 al 1985, ad altri nuclei abitati (Dispensa, Miniera, Centrale, Bomba, San Donato in Avane), perfino il Castello di Pianfranzese e Castelnuovo dei Sabbioni, tutti fagocitati dall’avanzamento del fronte di scavo della lignite, che a settembre 1968 raggiunse anche l’area della miniera “Le Carpinete”, l’unica gestita dalla Soc An. Miniere delle Carpinete e fuori dal progetto Santa Barbara.


Scomparsi i villaggi, scomparve anche la lignite: nel 1983, dopo l’estrazione di 30 Mton di lignite e 225 Mm3 di sterile, si esaurì il minerale del primo banco, mentre l’attività estrattiva cessò definitivamente il 29 marzo 1994, all’esaurimento del secondo banco da cui vennero estratti altri 13.5 Mton di lignite e 135 Mm3 di sterile, per un totale di 43.5 Mton di lignite e 360 Mm3 di sterile di copertura.


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[1] Le citazioni tra virgolette di questo paragrafo sono tratte da “La valle delle miniere” di Marta Bonaccini, Aska 2015.


[2] «Quando si avvicinava l’ora del rientro, ad ogni fine turno non riuscivo ad applicarmi a lungo in nessuna faccenda domestica. Mi esplodeva dentro un’inquietudine che non sapevo calmare. Il mio sguardo correva continuamente oltre il vetro della finestra per guardare laggiù, verso la miniera, da dove doveva sortire il turno degli operai. Mio marito era uno di loro. Anni e anni di galleria, di turni, e non ci ho mai fatto l’abitudine, forse per il mio carattere ansioso, forse perché lo dimostravo più di altre donne, che in apparenza sembravano attendere il ritorno del loro uomo con maggiore tranquillità. Io avevo paura, anche se non gliel’ho mai detto. Anzi, cercavo di dimostrarmi sempre tranquilla, perché il suo scendere in miniera fosse sereno. Ma ogni volta temevo di udire il suono della sirena che annunciava un sinistro; paura di scorgere il correre affannoso degli uomini e le luci delle lampade ad acetilene muoversi disordinatamente, confuse e tremolanti, verso l’ospedaletto della miniera. Luci che parlavano dolorosamente di qualcuno rimasto sotto il "legno". Da quel momento cominciava per noi donne l’attesa di notizie, sempre troppo lunga e snervante. Nessuna, neppure la più forte, ci ha mai fatto l’abitudine. L’infortunato poteva essere il marito, il padre, il fratello, comunque uno del posto, quasi uno di famiglia. Solo quando mio marito varcava la soglia di casa, mi calmavo, ed era il momento più bello della giornata. Le pareti ci proteggevano e provavo una sensazione di piacevole sicurezza. Il mio uomo non temeva la galleria, anzi preferiva scendere “sotto”. Ci fu un periodo in cui fu incaricato di guidare la “macchina” (il trenino degli operai), ma, appena fu possibile, chiese di tornare in miniera. Forse perché guadagnava qualcosa di più. Lo capivo e non lo capivo: per me quel "qualcosa" non valeva il rischio che ogni volta doveva affrontare. A volte penso che la miniera s’impadroniva dell’anima di quanti la penetravano e si faceva amare ed accettare per quello che era: dura, pericolosa, infida, ma era la propria terra che si donava. Un incomprensibile amore che nasceva nel suo ventre profondo, caldo, oscuro».


[3] Progettata dall’Ing. Riccardo Morandi, con due gruppi da 125 MW alimentati con la lignite estratta nel limitrofo bacino lignitifero di Cavriglia, è entrata in funzione tra il 28 dicembre 1957 (gruppo Nord) e il 2 maggio 1958 (gruppo Sud).

Dapprima proprietà della SpA Santa Barbara, passò all’ENEL all’atto della costituzione della stessa, nel 1962.

Con la cessazione dell’attività di escavazione della lignite, la centrale termoelettrica ha perso definitivamente il rapporto originario con la miniera e si è di fatto integrata con il tessuto produttivo degli insediamenti di fondovalle. Nel marzo 1994, le caldaie sono state riconvertite per il funzionamento a solo olio combustibile denso (OCD), il cui approvvigionamento avveniva sia per via stradale con autobotti, che per ferrovia con ferrocisterne, utilizzando il raccordo ferroviario con la stazione di San Giovanni Valdarno.

La definitiva dismissione delle due vecchie sezioni a olio combustibile è avvenuta nel 2006 per la sezione 2, e nel 2007 per la sezione 1, sostituite con la costruzione e l’esercizio di una sezione di 390 MW a ciclo combinato (turbina a gas di 250 MW e turbina a vapore di 140 MW) alimentata a gas naturale.


[4] «L’esodo cominciò. Una pena infinita e un grido muto nel cuore… Otto, forse nove giorni e tutto cambiò. Alla rinfusa cercando di portarsi dietro tutte le povere cose della nostra casa, radunammo in fretta mobili, vestiario e quant’altro faceva parte della nostra casa. Due famiglie al giorno a partire…. Fummo alloggiati un po’ dappertutto… Stavamo sopportando il peso di un destino amaro, che aveva trasformato la nostra vita in così breve tempo… Il Ronco distrutto. L’identità di un’intera comunità dispersa… eravamo ‘sfollati’, e questa parola diceva tutto».

Fig. 3 – Escavatore Krupp a catena di tazze all’opera nel bacino lignitifero di Cavriglia

Fig. 4 - La Centrale di Santa Barbara

Fig. 5 – Anno 1915: Case operaie al Ronco (Bonaccini, 2015)

Recupero e messa in sicurezza dell'area

Al termine dell’attività estrattiva sono stati eseguiti lavori di messa in sicurezza dell’area, con il riempimento parziale delle cavità di estrazione profonde fino a 100 metri: in queste aree sono stati realizzati i bacini lacustri di Castelnuovo, Allori e San Donato (fig. 6) e si è proceduto alla rinaturalizzazione dei luoghi favorendo lo sviluppo spontaneo di vegetazione ripariale e il ripopolamento ittico e faunistico; nel 2006 è stato stipulato un Protocollo di intesa tra ENEL ed enti locali che definisce gli interventi e gli obiettivi di destinazione d’uso di aree omogenee facenti parte del più ampio ambito di riassetto della miniera Santa Barbara, che copre una superficie molto vasta pari a 1,600 ettari.

Castelnuovo dei Sabbioni è stato ricostruito in parte su una collina sovrastante, mentre l’antico borgo, la cui parte alta con la chiesa il campanile e un gruppo di case abbarbicate alla roccia non subì particolari crolli (fig. 7), diventato una vera e propria ghost town fu acquistato dal Comune di Cavriglia nel 2002.

Dopo dieci anni di lavori di restauro, nel 2012 è stato inaugurato il Museo Mine (dotato di auditorium per corsi, seminari e mostre, aule didattiche, terrazza panoramica per eventi), che racconta la storia di questa terra e di questa comunità arricchita e nello stesso tempo stravolta dalla lignite.

Infine, nel 2017 l’area mineraria è stata inserita nel programma Futur-e dell’Enel, che ha lo scopo di riqualificare i siti di 23 centrali termoelettriche dismesse o in dismissione.

Per Santa Barbara, in particolare, con il supporto del politecnico di Milano e dell’Università di Firenze, saranno definiti i possibili scenari di sviluppo, tenendo conto del contesto economico, dei piani urbanistici e delle aspettative delle comunità.

Fig. 6 - Planimetria generale del comprensorio minerario di Santa Barbara

Fig. 7 - Castelnuovo dei Sabbioni con sullo sfondo la vecchia Centrale ENEL