Lotte sindacali

in Piemonte

Lo sciopero di 40 giorni a Balangero nella descrizione di Italo Calvino (1954)


Nel 1950 il pacchetto azionario della Società Cave San Vittore, concessionaria della miniera di Balangero, venne ceduto dall’I.R.I. ai gruppi “Manifatture Colombo” ed “Eternit”, con conseguente cambiamento di proprietà nel 1951, quando, con Delibera del 29 marzo, venne costituita la nuova società ”Amiantifera di Balangero S.p.A.”, guidata da un abile industriale bergamasco, Rinaldo Colombo, che la presiedette per oltre trent’anni e la portò a vertici mai raggiunti prima.

A tale società venne trasferita e intestata la concessione con DM 8 luglio 1952 (GU 234/1952), mentre la Cave San Vittore, inizialmente destinata a una funzione puramente commerciale, andò rapidamente verso la messa in liquidazione, avvenuta nel 1954.

All’inizio di quello stesso anno, l’Amiantifera decise di sopprimere il premio di produzione, suscitando la forte protesta sindacale, che si concretizzò in uno sciopero di 40 giorni e nell’apertura di una vertenza, descritta da Italo Calvino su "L'Unità" del 28 febbraio 1954 sotto il titolo "La fabbrica nella montagna".

«L’auto girò l’ultima curva tra i castagni e davanti ebbe la montagna d’amianto con le cime e le pendici scavate a imbuto, e la fabbrica compenetrata in essa. Quelle erano le cave, quelle gradinate grigie, lucide ad anfiteatro tagliate nella montagna rossiccia di cespugli invernali; la montagna scendeva pezzo a pezzo nei frantoi della fabbrica e veniva risputata in enormi cumuli di scorie, a formare un nuovo, ancora informe sistema montuoso grigio opaco. Tutto era fermo, in quel grigio: da trentacinque giorni sui gradini delle cave non salivano gli "sgaggiatori" armati di pala, picco e palanchino, né le perforatrici ronzavano contro la parete, né gli uomini delle mine gridavano accendendo la miccia :"Oooh la mina ! Oooh brucia !", né quelli dei carrelli facevano il carico sul piano di frantumazione, e poi via per i ripidi binari scavati nella montagna, né quelli delle "bocchette" manovravano le leve per scaricare i materiali nei condotti della fabbrica, né nessun altro in nessun reparto lavorava a trasformare quella pietra in duttile fibra d’amianto: c’era lo sciopero, dal 18 gennaio, e quell’automobile che adesso usciva dal castagneto portava su i dirigenti dell’Amiantifera a discutere con la Commissione Interna.

Gli operai erano sul piazzale, a gruppi, a mani in tasca. Venivano lì come prima per l’orario di lavoro, presidiavano la fabbrica ferma, facevano i turni per la notte e la domenica. Loro e la fabbrica lassù in cima, lontano dal resto del mondo, come era stato sempre. Lontano dal mondo dei pacchetti azionari, dei dividendi, dei consigli di amministrazione. Ogni fabbrica è così, a vederla con le sue macchine ed i suoi operai, pare un mondo a sé, remoto dagli intrighi finanziari che pure presiedono alle sue sorti; ma le città che le stringono dappresso danno il senso di quel contraddittorio universo nelle cui orbite si muovono. Qui invece siamo sopra gli ottocento metri di altitudine, l’aria frizza, e nel cortile crescono i pini. All’ora in cui monta un nuovo turno, gli operai vengono su dai sentieri del bosco, quelli di Balangero, quelli di Coassolo, quelli di Corio, con la loro aria di montagnini, con le giacche di fustagno, gli scarponi, i berretti col passamontagna. E paiono cacciatori che vadano per lepri; o soltanto per funghi, visto che non hanno il fucile. Ma non ce n’è di lepri nel bosco, non crescono funghi nella terra rossa dei ricci di castagno, non cresce frumento nei duri campi dei paesi intorno, c’è solo il grigio polverone d’asbesto della cava che dove arriva brucia, foglie e polmoni, c’è la cava, l’unica così in Europa, la loro vita e la loro morte. Prima era dell’IRI, a un certo punto è venduta ad un gruppo di società private, si parla di guadagni di centinaia di milioni alle spalle dello Stato, ma chi ne sa niente? Sono cose che si decidono laggiù a valle, nelle città; gli uomini di Balangero continuano ad andare tutti i giorni a pozzo Bellezza, (i pozzi si chiamano coi nomi del cavatori morti nella cava) e quel mezzo miliardo all’anno di profitto netto che l’Amiantifera ricava, che importa dove va a finire? Chi li ha mai visti lassù, i padroni? Chi sa chi sono? Era morto senza saperlo Barotello, che una pietra di mina colpì e lasciò esanime e così Bellezza che di in cima al pozzo scivolò e d’un volo, senza che il ciglio di un gradino lo fermasse, precipitò sul fondo frantumandosi anche lui come l’asbesto diroccato dal suo piccone, e così gli altri quindici morti di infortunio in trentacinque anni di storia della cava. Quel che contava era strappare via dalla montagna quelle centomila tonnellate di materiale al mese e portare la busta del salario alle mogli che li aspettavano nelle affumicate cucine dei casolari. E quando la Direzione, da un giorno all’altro, abolì il "premio di produzione" - in media mille lire di meno al giorno nella busta - allora fu lo sciopero che ancora adesso continuava, e i fianchi della montagna da più di un mese non pativano la ferita della perforatrice e del piccone.

Ora gli uomini della direzione non capivano come facesse quella gente montanara, che era rimasta sempre lassù e non sapeva nulla dell’amministrazione di un’industria, a resistere tanto tempo senza prendere un soldo, cocciuta, sperando di poter tenere testa a loro. Colpa di quei sindacati - pensavano - , che imbottiscono loro il cranio con chissà quali discorsi. Potessimo trattare con tutti loro, direttamente e non con quei cavillatori dei sindacati e della Commissione Interna, li convinceremo subito che è un vantaggio per loro accettare le nostre proposte e tornarsene al lavoro.

Negli uffici, quelli della Commissione Interna erano già ad aspettarli, con Batistini, quello della Camera del Lavoro, detto Papandrea.

- Allora siete disposti a trattare? - chiese Papandrea. - - dissero quelli della direzione, - ma non vogliamo che alle maestranze voi riferiate le nostre proposte tutte per storto. Noi vi abbiamo dimostrato cifre alla mano che diamo già di più di quello che potete pretendere. Siamo disposti a discutere ancora, ma a patto che le trattative si svolgano alla presenza delle maestranze riunite.

Quelli della Commissione si guardarono; negli occhi chiari di Papandrea passò un impercettibile ammicco. - Si, d’accordo - alla presenza delle maestranze.

Nella sala grande della direzione, quelli della Società squadernarono sul tavolo le loro cartelle piene di cifre. Batistini e gli altri erano seduti dall’altra parte del tavolo. E alle loro spalle, a uno a uno entrarono gli operai del turno, con un pesante scalpiccio e si disposero lì in piedi, mani in tasca o a braccia conserte. Certo, la prima impressione per quelli della Società, a sentirsi tutti quegli occhi puntati addosso, fu di disagio; ma era facile superarla; c’erano le cifre, e chi può opporsi al linguaggio delle cifre? Non certo dei badilanti montanari. L’importante era far capire a loro che non tutto era semplice come nei discorsi dei comizi, che erano questioni tecniche complesse, in cui bisogna rimettersi agli esperti, a chi ha le mani in pasta. Concentrarono la loro attenzione sui fogli, senza alzare gli occhi.

Il portavoce della Società cominciò la sua relazione: tutto quello che la Società dava agli operai, direttamente e indirettamente, e come andava calcolato il salario base e come le percentuali e tutto il resto. Davanti a lui erano quelle file di facce cotte dal sole, cespugliose di barba, con i tesi sguardi tra le palpebre rugose, quelle spalle vestite di cuoio e di fustagno. Lui parlava in fretta, accumulava conti e termini tecnici, pensando: "Ecco, ora li ho attirati nel mio terreno, ora li ho disarmati, ora non ce la fanno più a tenermi dietro", ma ogni volta che alzava gli occhi se li ritrovava lì attenti, che alzavano o scuotevano il capo ad ogni dato che lui diceva, e un sopracciglio che si alzava, lo sbuffo di un vecchio, una bocca che si torceva lo avvertivano che aveva toccato un tasto sbagliato e allora si sentiva in dovere di precisare, di mitigare in qualche modo quello che aveva detto. Erano loro, a condurre il gioco, non lui.

I rappresentanti degli operai cominciarono a ribattere, a opporre cifre a cifre, argomenti a argomenti. Il pubblico dei cavatori, muto, muoveva gli sguardi come seguendo una palla invisibile che passasse da un giocatore all’altro, e tendeva l’orecchio quando il discorso si faceva interessante, restava con l’occhio assente quando gli uomini della direzione ripetevano per la decima volta lo stesso ragionamento, approvavano o scrollavano il capo. Il portavoce della Società cincischiava i fogli con la matita rossa e blu, sottolineava cifre, faceva calcoli a margine.

Insomma, - saltò su, - c’è il salario differito, non la volete capire! Tu, - disse puntando l’indice su un operaio in prima fila, - lo sai cosa vuol dire salario differito? L’interrogato era uno lungo e magro, coi baffetti, uno venuto dal meridione.

Me? - disse, guardandosi intorno. Sì, te! Salario differito... - e rise, scosse il capo, e poi tutto d’un fiato : - ma è le ferie la gratifica natalizia le festività infrasettimanali...

...Ecco, - fece quello della Società, - allora dicevo... - e rimise il naso nei suoi fogli ; aveva perso il filo. S’era fatta sera. Accesero le luci. Continuare le trattative era sempre più faticoso, con questo pubblico che ora aveva cominciato a bisbigliare, a commentare, e che più ci si addentrava in particolari tecnici, più pareva aver tutto previsto ed essersi fatta un’opinione sua. Sfido che se l’erano fatta! Papandrea con la testa bianca sulle alte grosse spalle, sorrideva: quante volte aveva discusso con gli scioperanti riferendo l’andamento dell’avvertenza punto per punto.

Ma insomma, - fece Papandrea, - leva e metti, leva e metti ma l’operaio quando prende la busta ce n’ha di più o di meno?

Le teste degli operai s’alzarono come a uno schiocco di frusta e tutti i loro occhi si posarono sull’uomo della Società.

Be’, di meno... - disse lui, a denti stretti, - però ... - e tacque ; un lungo : - Aaah ! - era uscito da tutte quelle bocche.

Perdeva terreno. Ricominciò i calcoli. Mollava da una parte, e ripigliava dall’altra, ma adesso era più quel che mollava.

Un momento! - disse Papandrea - si prende l’impegno di farci avere quello che sta dicendo?

L’uomo sollevò il capo. Si vide di fronte tutte quelle facce dure tra le cui rughe stava per sprizzare fuori un sorriso. Cosa aveva detto ? Riguardò i fogli : s’era confuso, era andato troppo in là con le concessioni, ora finiva per darla vinta a loro su tutta la linea.

Sospendiamo la seduta un momento per consultarci tra noi, - disse. - Anche gli operai saranno stanchi e vorranno andare a casa; possiamo continuare noi da soli.

No, no, - fecero gli operai, - se è per noi, aspettiamo volentieri.

E aspettarono. Dopo un quarto d’ora, la riunione riprese. Gli operai si rimisero a fianco del tavolo, buoni buoni, a sentire. Gli uomini della Società, presero tempo. Dettero delle assicurazioni di massima: dovevano sentire i vari azionisti, l’Unione Industriali, si sarebbe fatta un’altra riunione .

A Torino, - dissero, - un’altra riunione a Torino. Avvertiremo la Camera del Lavoro.

L’auto scendeva per la via del bosco con i vetri un po’ abbassati perché l’aria della notte alleviasse l’emicrania che avevano scoperto d’aver tutti loro, dopo tante ore di riunione. Agli sbocchi delle scorciatoie, gruppi di operai attraversavano la carrozzabile, altri scendevano con le mani strette ai freni delle bici. Alla fabbrica brillava qualche luce: sul piazzale, avvolti nelle mantelline, quelli del turno di notte montavano la guardia».