Le miniere di pirite e solfuri delle Colline Metallifere

Geologia e giacimentologia

Gavorrano


Localizzata a meno di 1 km a S dell’abitato (fig. 1), la miniera si situa in una zona sollevata delimitata da faglie di distensione, il cui nucleo è costituito da un ammasso intrusivo quarzo-monzonitico pliocenico (5÷2 Ma) delimitato dalle faglie di Gavorrano e Monticello.

La massa magmatica si presenta in forma di un grosso filone granitico della lunghezza di oltre tre chilometri, in direzione grosso modo N-S fra le località Fonte all’Anguilla e l’abitato di Ravi, con larghezza variabile da 500 a 1000 metri, circondato a Est e a Ovest da calcari mesozoici, mentre a N e S affiorano lembi del sottostante complesso metamorfico permiano, costituito da filladi e scisti.

La mineralizzazione a pirite si presenta in forma di lenti o di masse di forma irregolare al contatto tra intrusione magmatica e Calcare Cavernoso, a volte lungo le principali faglie o al contatto tra filladi permiane e Cavernoso.

I calcari sono fortemente carsificati sia in superficie che in profondità, caratteristica che ha giocato un ruolo importante nell’accelerazione del processo di deterioramento delle proprietà geomeccaniche sia delle rocce incassanti che della stessa mineralizzazione.

La fragilità delle rocce incassanti è stata alla base dell’adozione, negli ultimi anni di coltivazione, della ripiena cementata, utilizzando sterili estratti dalle cave vicine alla miniera, con conseguenti forti impatti sul paesaggio, come si osserva dalla fig. 1.

I corpi lentiformi mineralizzati, allineati per 2 km circa da NW a SE (Rigoloccio, Praga, Abetone, Cambi, Unione, Montecatini, Boccheggiano, Montecalvo, Quercetana, Giulio e Valmaggiore in figg. 2, 3), al contatto tra intrusione e calcari e con immersione variabile da 50°W a 60°E, sono stati coltivati per una profondità maggiore di 400 m, da quota 200-250 m s.l.m a quota -240 m s.l.m.

Sin dall’inizio dell’attività, l’estrazione della pirite avveniva per tagli verticali e fette: i tagli erano montanti nel caso di minerale compatto, discendenti per pirite friabile o rotta da tagli precedenti. Il minerale veniva completamente asportato e al suo posto erano introdotti i materiali di ripiena: prima fascine in legno, poi poltiglie acquose, infine una ripiena idraulica con pezzame in granito alterato; solo dalla seconda metà degli anni ‘60 fu introdotta la ripiena cementata, anche per ridurre i fenomeni di subsidenza che, a causa dei vuoti minerari, hanno interessato l’area.

Durante il periodo di attività furono, infatti, estratti più di 10 Mm3 di tout-venant, rimpiazzati con soli 6.5 Mm3 di materiale di riempimento.

La conseguente formazione di vuoti per almeno 3.5 Mm3 ha così provocato i frequenti episodi di subsidenza occorsi durante la storia della miniera, tenendo conto delle già sottolineate scadenti proprietà geomeccaniche delle rocce incassanti e della stessa pirite, oltre che delle prime modalità di riempimento adottate.

Fig. 1 - Immagine da satellite della Miniera di Gavorrano (Fonte GoogleEarth)


Fig. 2 - Distribuzione delle lenti mineralizzate della miniera di Gavorrano (Garzonio, 2013)

Fig. 3 - Ricostruzione tridimensionale del giacimento di Gavorrano (Tesser, 2012)

Niccioleta


La zona di Niccioleta, localizzata a circa 6 km a NE di Massa Marittima (fig. 4), è interessata da affioramenti di calcare cavernoso, poggianti direttamente sulle filladi; queste formano una struttura anticlinale, con asse NNO-SSE e debole immersione verso N, e sono interessate da intercalazioni evaporitiche (dolomia e anidrite) con estensione N-S.

Il fianco orientale dell’anticlinale presenta una serie di faglie con direzione parallela alla struttura, pendenza verso E e rigetti variabili da 10 a 100 m.

Gli ammassi di pirite si sono formati sia in corrispondenza dei contatti di faglia e stratigrafici tra filladi e cavernoso, per sostituzione pneumatolitica-idrotermale di quest’ultimo, sia in corrispondenza delle lenti di evaporiti intercalate nelle filladi, sempre per sostituzione.

Nelle zone profonde del giacimento, di particolare interesse è la presenza di rocce a skarn, che evidenziano l’interazione metasomatica tra sedimenti calcareo-argillosi e masse magmatiche profonde, analoghe a quelle presenti in affioramento a Gavorrano.

Al contatto filladi-cavernoso, la mineralizzazione si estende in direzione N-S per circa 1,200 metri con larghezza variabile tra 50 e 200 metri; la pirite è cristallina (fig. 5), massiva, con minime quantità di blenda, galena e pirrotina.

Per quanto riguarda, invece, gli ammassi nelle filladi in sostituzione delle lenti evaporitiche, la mineralizzazione, associata a skarn, si sviluppa in lunghezza per circa 2,000 m, con larghezza 300 m e potenza 250 m; la pirite è massiva e quasi pura, talvolta associata a tracce di magnetite.

Il metodo di coltivazione adottato è stato prevalentemente a “camere e pilastri”; nell’ultimo periodo le camere erano particolarmente ampie, in superficie e altezza, e i lavori di scavo avvenivano con pale meccaniche comandate a distanza, quindi con presenza di minatori nei vuoti ridotta al minimo, nel numero e nei tempi (fig. 6).


Fig. 6 - Minatore a Niccioleta comanda a distanza una pala meccanica (Foto Montecatini, 1972)


Fig. 4 - Localizzazione della miniera di Niccioleta rispetto a Massa Marittima (Fonte GoogleEarth)

Fig. 5 - Cristalli cubici di pirite estratta a Niccioleta

Boccheggiano (Campiano)


Nella zona di Boccheggiano (Campiano), localizzata a poco più di 3 km a SE dell’abitato di Montieri (fig. 7), sono presenti mineralizzazioni a pirite e a solfuri misti in corrispondenza della faglia omonima (fig. 8).

Dal punto vista geostrutturale l’area mineralizzata è caratterizzata da una monoclinale, con direzione NO-SE e immersione verso SO, interessata da una serie di faglie distensive longitudinali, con immersione verso E e rigetti modesti, serie interrotta dalla grande faglia di Boccheggiano.

La monoclinale è composta dalla serie filladica su cui poggia il calcare cavernoso, con intercalazioni di spessore crescente verso S di livelli evaporitici (dolomia e anidrite), da cui il cavernoso deriva.

La mineralizzazione si è formata per sostituzione nel cavernoso o nelle evaporiti, dove il contatto con le filladi è interessato dal sistema di faglie sopra citate.

La pirite è cristallina, massiccia, associata con poca ganga calcitica o anidritica, del tutto simile a quella di Niccioleta.

Come impurità, mancano la pirrotina e la magnetite ma, a differenza di Niccioleta, sono più frequenti intercalazioni di solfuri nella pirite, prevalentemente blenda.

Riguardo specificatamente alla mineralizzazione a solfuri, temporalmente successiva a quella della pirite, essa è inserita in una formazione filoniana (filone di Boccheggiano), prevalentemente a quarzo con pirite e calcopirite, che si sviluppa da Boccheggiano verso NO per circa 2 km al contatto tra i terreni mesozoici (filladi e/o cavernoso) con il flysch cretacico calcareo-marnoso (Formazione dei Galestri e Palombini).

Il filone di Boccheggiano, di spessore variabile tra 1 e 20 metri e con pendenza di circa 45°E, formatosi per sostituzione metasomatica in corrispondenza di una formazione brecciata, è stato coltivato inizialmente per il rame e solo successivamente al 1914 per la pirite, divenuta nel frattempo importante per la produzione di acido solforico.

Durante il periodo di coltivazione del rame, il minerale estratto veniva arricchito con il Metodo Conedera, messo a punto dal perito della miniera Raimondo Conedera.

Descritto sommariamente, questo metodo consisteva nel formare cumuli di minerale frantumato che venivano “arrostiti” e successivamente lisciviati con acqua. I fanghi di lisciviazione venivano inviati a vasche dove avveniva la separazione elettrolitica del rame, utilizzando ghisa grigia contenente grafite che liberata nelle vasche aumentava la conducibilità della soluzione.

I fanghi residui, denominate “roste” in quanto scarti del processo di arrostimento, venivano accumulati in discariche e abbandonati alle intemperie, che negli anni hanno creato un paesaggio “marziano” di terre rosse scavate in forma di calanchi (fig. 9), diventato ormai meta turistica e che rappresenta un segno fortissimo nel paesaggio, tanto da meritare un intervento puntuale e studiato che le salvaguardi, allo stesso tempo tutelando l’ambiente con interventi di bonifica in grado di conservarne il valore di testimonianza unica di un passato socio-economico di grande importanza per l’area.

Fig. 7 - Immagine da satellite della miniera di Boccheggiano (Fonte GoogleEarth)


Fig. 8 - Miniera di Boccheggiano (Campiano): a) Visione prospettica; b) Sezione geo-mineraria (Gisotti, 2011)

Fig. 9 - Le “Roste” di Boccheggiano

Cenni storici

L’area delle Colline metallifere intorno a Massa Marittima è disseminata di tracce di attività estrattive, risalenti già all’età del bronzo e continuate nel periodo etrusco-romano (Accesa, Serrabottini, Niccioleta, Poggio Montierino).

Ma fu nel Medioevo che Massa Marittima assunse una grande importanza in campo minerario grazie all’estrazione di piombo, argento e rame, metalli utilizzati per la coniazione delle monete, tanto da diventare un riferimento anche legislativo con la pubblicazione nel 1310 dello Statuto denominato “Ordinamenta facta super arte fossarum rameriae et argenteriae civitatis Massae”, con il quale si regolamentavano, per la prima volta in Europa, sia le attività estrattive che quelle metallurgiche.

In questo periodo, l’esecuzione dei lavori minerari già denota, da parte delle maestranze, una grande capacità di lettura delle forme e dei caratteri geologici, volta a individuare giacimenti non solo affioranti ma anche sotterranei, come dimostra la descrizione di pozzi profondi anche centinaia di metri.

Anche la dinamica insediativa fu condizionata dalla presenza delle mineralizzazioni, in vicinanza e per lo sfruttamento delle quali sorsero villaggi fortificati vicino a Gavorrano (Castel di Pietra), Massa Marittima (Rocchette Pannocchieschi), Monterotondo Marittimo (Cugnago), Montieri (Gerfalco).

A differenza di altre miniere dell’area massetana, il principale minerale argentifero del territorio di Montieri era il “rame grigio”, termine riferibile a una combinazioni di minerali di Cu-Ag-Sb-As-S che conteneva fino all’1.75 % di argento.

Come già ricordato, in questa fase storica la principale utilizzazione dei metalli estratti riguardava la coniazione delle monete, seguendo un percorso che andava dalle miniere, alle officine dove il metallo utile era separato degli inerti, alla zecca dove, infine, le monete erano coniate.

Dopo l’abbandono delle attività estrattive nel XV secolo, si ebbe una ripresa dalla seconda metà del secolo successivo, quando Cosimo I de’ Medici, Duca e poi Granduca di Toscana, riattivò numerosi impianti di estrazione e lavorazione dei metalli e la ricerca di nuovi giacimenti.

In questa fase fu particolarmente importante la lavorazione del ferro elbano, lavorazione che trovò un sito di riferimento nella ferriera di Follonica, diventata nei secoli successivi l’impianto siderurgico citato in relazione alla storia delle miniere di ferro elbane.

Anche in questo caso la ripresa delle attività fu di breve durata e, a parte l’esperienza del Perito Pubblico veneziano Giovanni Arduino che, in due tempi successivi tra il 1753 e il 1757, fu chiamato a rilanciare senza grande successo le miniere di rame di Montieri, bisognò attendere sino al XIX secolo per vedere riprendere i lavori minerari.

Per merito di Società estere (belghe, francesi, inglesi e tedesche), furono riattivati i vecchi centri di produzione e rilanciata la ricerca di rame, piombo, zinco, argento e alunite.

Nel 1834 venne costituita a Firenze la “Società per la riattivazione delle miniere di Montieri, Roccatederighi e Massa Marittima”, la prima di molte anonime che si succedettero negli anni successivi.

Le prime ricerche confermarono l’ottimismo degli investitori anche se molte erano le difficoltà da affrontare: prima fra tutte la malaria che infestava la Maremma e che impediva i lavori nel periodo estivo.

Tuttavia, solo lo sfruttamento nella zona dell’Accesa si rivelò veramente proficuo, tanto da spingere alla costituzione di due Società: l’Anonima per lo sfruttamento dei filoni cupriferi della Capanne Vecchie e Poggio Bindo, nel 1846, e l’Anonima per l’escavazione delle miniere denominate Rigo all’Oro, Val Castrucci, Poggio alle Velette, nel 1847, diventata “Società Fenice Massetana” dodici anni dopo.

Con la fine del secolo, questa fase pionieristica dell’attività mineraria della Maremma grossetana ebbe una svolta, che si sarebbe rivelata di stampo monopolistico industriale, quando nel 1899 fece la sua comparsa, acquistando la miniera di Fenice Capanne, la Montecatini, al tempo una piccola società che era sorta nel marzo del 1888 per lo sfruttamento di una modesta miniera di rame a Montecatini in Val di Cecina.

Pochi anni dopo, il 24 maggio 1910, un giovane ingegnere livornese, Guido Donegani, venne nominato amministratore delegato della Società.

Donegani aveva un obiettivo chiaro, fondare un’industria chimica nazionale autonoma, per il cui funzionamento era necessario avere a disposizione le materie prime, in particolare l’acido solforico che era alla base di numerosi processi di lavorazione.

Mentre in tempi antichi l’acido solforico (H2SO4) si produceva per calcinazione del solfato ferroso o per combustione di una miscela di zolfo e salnitro, nel 1835 si scoprì che si ottenevano risultati migliori arrostendo la pirite (FeS2) per ottenere acido solforico secondo la seguente successione di reazioni:

4FeS2 + 11O2 2Fe2O3 + 8SO2

8SO2 + 4O2 8SO3

8SO3 + 8H2O 8H2SO4

Bisognava, quindi, trovare la pirite e la Montecatini la individuò nella zona di Boccheggiano, che dal 1888 era stata oggetto, da parte di una società inglese, di ricerche per la scoperta del rame.

La pirite di Boccheggiano era di ottima qualità, con elevate percentuali di zolfo e scarse impurità, ma ancora insufficiente e la Montecatini acquisì, sempre nel 1910, un’importante partecipazione nell’Unione Italiana Piriti, proprietaria della miniera di Gavorrano.

Ma già alla fine di quello stesso anno, tutto il capitale dell’Unione era passato alla Montecatini, che deteneva ormai il monopolio sulla pirite italiana: da quel momento la storia delle miniere maremmane è stata la storia della Montecatini.

Con lo scoppio della 1a guerra mondiale e la conseguente interruzione delle importazioni dalla Germania, la Montecatini era, quindi, pronta a subentrare ai prodotti chimici tedeschi sfruttando la pirite delle miniere maremmane, che nel 1917 toccarono il massimo relativo di produzione (430,708 ton, +29.38% rispetto al 1916) e manodopera (2,557 unità, +14.97%), anche se nel biennio 1919÷1920 entrambe si ridimensionarono, toccando il minimo relativo di 267,666 ton e 1,887 operai nel 1920 (tab.1).

Con il 1921 riprese la crescita produttiva che proseguì negli anni ‘20, quando alle due miniere sopra citate si aggiunse Niccioleta.

Persino negli anni della grande crisi mondiale (1929-1930) la produzione di pirite maremmana continuò ad aumentare, fino alle 587,947 tonnellate del 1930 (+119.66% rispetto al 1920) con una manodopera di 3,206 operai (+69.90%).

Solo nel 1932 la crisi si fece sentire, anche se produzione e manodopera si mantennero su 449,433 ton (-23.56% sul 1930) e 2,851 unità (-13.66% sul 1931).

«Gavorrano, Niccioleta, Boccheggiano, le tre miniere grosse, tutte e tre della “Montecatini”, potranno essere utilmente collegate fra di loro grazie a un complesso sistema di teleferiche, il più lungo d’Europa. È un’opera completata nel 1931: i vagoncini carichi del minerale già frantumato, umido di laveria, percorrono ininterrottamente la vasta ondulata pianura maremmana, scavalcano fossi, anfratti, botri: da Boccheggiano scende il ramo più lungo, va ad unirsi, sotto Massa Marittima, con il più breve braccio di Niccioleta, poi la teleferica corre al mare, raggiunge Scarlino, dove converge, da sud, il ramo di Gavorrano, ed infine si spinge al Puntone, sotto il bel golfo di Follonica, ed entra in mare: i vapori possono imbarcare il carico prezioso.


Sono più di quarantacinque chilometri di cavo d’acciaio, teso in vetta agli alti tralicci metallici, con le sagome dei vagoncini che sfilano silenziosi, piccoli, visti da basso.

La teleferica è un elemento del paesaggio maremmano, ormai. Teleferiche, decauville, impianti di laveria si inseriscono nell’immagine della campagna brulla e sassosa, di questi paesi scuri, vecchi, anneriti dalla tramontana, coi muri senza intonaco, aggrappati in cima ai colli, paesi duri, anche nei nomi: Tatti, Ravi, Roccatederighi, Montemassi, Roccastrada, Sassofortino, Giuncarico, Tirli. La civiltà industriale non poteva entrare in altro modo nel paesaggio maremmano, se non con questi elementi duri, scabri, grigi» (Luciano Bianciardi, Carlo Cassola: I minatori della Maremma (1956).

A differenza della lignite di Ribolla e del mercurio amiatino, fortemente minacciati dalla concorrenza mondiale e incapaci di reggere le sfide del mercato, la pirite, utilizzata direttamente all’interno dei cicli produttivi dell’industria chimica (raffinazione petrolio, esplosivi, fertilizzanti …), non conobbe crisi e alimentò le fortune della Montecatini, che non era più un’azienda maremmana ma, da quel colosso industriale che era ormai diventata, aveva trasferito la propria sede a Milano.

Il trend di crescita proseguì costante per tutti gli anni ‘30, fino alle 918,485 tonnellate del 1940 utilizzando 4,573 operai: rispetto al minimo del 1920 la produzione era più che triplicata (+243.15%) mentre la manodopera più che raddoppiata (+142.34%).

Nel periodo 1941÷1945, le miniere risentirono delle vicende belliche in generale e di quelle politiche italiane in particolare, con un calo produttivo di circa il 15% nei primi due anni, che si trasformò in un vero e proprio crollo dopo la destituzione di Mussolini il 25 luglio e l’armistizio dell’8 settembre 1943, arrivando a una produzione di 150,726 tonnellate nel 1944 (-83.60% rispetto al 1940) e di sole 71,536 tonnellate del 1945 (-92.21%). Per la manodopera il calo fu minore anche se altrettanto significativo, con un minimo di 1,187 addetti nel 1944 (-74.04%).

Inoltre, come avvenuto in altre miniere (Cavriglia), la ritirata nazifascista del giugno 1944 lasciò dietro di sé una scia di sangue, colpendo in modo particolare i minatori di Niccioleta.

Pur se nell’immediato dopoguerra la produzione e l’occupazione tornarono a crescere, arrivando a 723,134 tonnellate nel 1950 e ai 4,737 occupati l'anno successivo, le lotte sindacali del 1951 furono condivise e partecipate dai minatori delle miniere di pirite maremmane, così come da quelli delle miniere di lignite toscane.

Contemporaneamente, gli anni ‘50 videro vacillare la posizione sostanzialmente monopolistica della Montecatini nel settore della chimica industriale italiana sotto i colpi sia della Edison, alla ricerca di una diversificazione della sua attività in vista della nazionalizzazione dell’energia elettrica, sia dell’ENI, che nel 1958 aveva inaugurato il suo primo impianto petrolchimico a Ravenna.

Tutto ciò, in aggiunta a uno spostamento d’interesse della stessa Montecatini verso la chimica del petrolio [1] e alla ripresa, stante la fine dell’autarchia fascista, della concorrenza sul mercato internazionale dei prodotti chimici, ridusse la capacità produttiva delle miniere.

Né la successiva riorganizzazione, con la realizzazione nel 1962 dello stabilimento del Casone a Scarlino che permise il trattamento “in loco” della pirite per la produzione di acido solforico [2], né la fusione del 1966 di Montecatini con Edison a formare un nuovo colosso chimico [3], riuscirono a ribaltare il trend produttivo negativo e le miniere maremmane ancora attive [4] furono trasferite alla Solmine S.p.A. [5] a decorrere dal 30 aprile 1973 (DM del 26 febbraio 1974 in GU 112/1974).

La sorte delle miniere di pirite maremmane era, quindi, segnata e la fine arrivò in maniera articolata a partire dagli anni ‘80.

Il 30 giugno 1981 è l’ultimo giorno di apertura della miniera di Gavorrano, nel 1992 chiude Niccioleta, nel 1995 con DM 25 ottobre (GU 34/1996) è accettata la rinuncia della concessionaria Società Mineraria Campiano alla miniera di Boccheggiano.


Complessivamente, da fine XIX secolo al 1994, la produzione globale di pirite ha superato i 70,000,000 di tonnellate.

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[1] Già nel 1950 la Montecatini aveva aperto a Ferrara il primo stabilimento petrolchimico d’Europa.

[2] Insieme all’acido solforico nello stabilimento del Casone venivano prodotti pellets di ossidi di ferro ed energia; i pellets andavano ad alimentare l’impianto siderurgico di Piombino.

Con la chiusura delle miniere storiche di Gavorrano, Boccheggiano e Niccioleta e l’entrata in produzione della nuova miniera di Campiano, gli elevati tenori in zinco e altri metalli nel minerale di questa impedirono l’impiego delle ceneri di pirite quali materie prime per il ferro. Di conseguenza, negli anni 1984-85 fu interrotto il processo di arricchimento delle ceneri di pirite che iniziarono a essere stoccate in loco.

Nel 1988 la consistenza dello stoccaggio ammontava a circa 2,100,000 tonnellate, ma negli anni la commercializzazione delle ceneri come sottoprodotto per l’industria del cemento ha ridotto lo stoccaggio a circa 560,000 tonnellate nel 2014 (ARPAT, 2014).

[3] Con DM 28 febbraio 1967 (GU 129/1967) alla nuova Montecatini Edison S.p.A. (dal 1969 Montedison) furono intestate le miniere di pirite maremmane.

[4] Valle Buia, Fenice Capanne, Montieri, Ravi I e Ravi II, Gavorrano-Rigoloccio, Accesa Serrabottini, Boccheggiano e Niccioleta.

[5] Solmine era stata costituita all'interno dell'EGAM proprio per acquisire le miniere grossetane della Montedison. Alla soppressione dell'EGAM nel 1978 passò al gruppo ENI (Legge 15 giugno 1978 n. 279 in GU 167/178) .

Tab. 1 - Produzione e manodopera delle miniere di pirite maremmana 1916÷1951 (Turacchi, 1954)