Miniera di Libiola

Giacimentologia

Le mineralizzazioni principali a Libiola, all’interno delle lave basaltiche “a cuscino” (fig. 1), sono rappresentate dai solfuri, in cui la pirite rappresenta la fase dominante, la calcopirite e la blenda (sfalerite) sono fasi subordinate, mentre pirrotina, bornite, calcocite e pentlandite sono le principali fasi accessorie.

Tutti i solfuri presentano diversi gradi di alterazione fortemente condizionati dal tipo di solfuro, le dimensioni dei cristalli e il tipo di aggregati, lo stato di conservazione delle rocce incassanti e delle associazioni di ganga, la precipitazione di fasi di neoformazione.

Nella ganga e nelle rocce incassanti si trovano quarzo, clorite, magnetite, ilmenite, cromite, plagioclasi (albite), titanite, serpentino, clinopirosseni pumpellite e rutilo, oltre a croste di alterazione in cui sono nettamente prevalenti gli ossidi e idrossidi di Fe (in particolare goethite, ematite, ferrihydrite e lepidocrocite) e la crisocolla (fillosilicato del rame).

La concessione mineraria, con un’estensione di circa 400 ettari, comprendeva 18 gallerie distribuite su vari livelli per una profondità fino a 250 m ca. dal piano di campagna, 7 scavi a cielo aperto, oltre 30 pozzi verticali e numerose rimonte e discenderie.


Cenni storici

Coltivato già in tempi preistorici, come risulta dal rinvenimento durante la prima coltivazione industriale della seconda metà del XIX secolo di alcuni strumenti di legno [1] , tra cui una pala, un mazzuolo e un manico di quercia (fig. 2) simile a quello dell’ascia dell’uomo di Similaun [2], lo sfruttamento ufficiale del giacimento risale al 1864, quando con RD del 29 settembre ne fu assegnata la concessione perpetua alla The Libiola Copper Co. Ltd., con sede a Londra.

La produzione della miniera che conobbe una grande espansione alla fine del XIX secolo, raggiungendo le 25,707 ton di pirite cuprifera nel 1899, andò successivamente scemando fino a ridursi a circa 12,000 tonnellate nel 1927.

Con l’approvazione del RD 1443/1927 la concessione fu confermata con DM del 10 maggio 1929 (GU 186/1929) e trasferita alla Società per l'esercizio della miniera di Libiola, intestata poi, con DM del 9 luglio 1934 (GU 222/1934), alla Miniera di Libiola S.A., trasformata in Miniera di Libiola Società in Accomandita con DM 26 luglio 1940 (GU 209/1940).

Durante la 2a guerra mondiale le miniere di Libiola continuarono a funzionare a pieno regime come “industria bellica”.

In particolare, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 cui seguì l’occupazione militare tedesca, le miniere furono controllate direttamente dai soldati tedeschi, sebbene nelle gallerie fossero spesso nascosti gli alpini disertori dalla Divisione Monterosa e non mancassero atti di sabotaggio operati dai partigiani, aiutati e protetti dagli abitanti del borgo, tanto che in più di un’occasione il paese di Libiola rischiò di essere bruciato per rappresaglia.

In questo quadro, nelle prime ore del pomeriggio del 5 dicembre 1944 nella parte bassa di Montedomenico, un plotone di alpini della divisione Monterosa, avendo scorto sul crinale opposto del vallone un gruppetto di partigiani scendere lungo il cosiddetto sentiero delle miniere, si era occultato per tendergli un agguato.

I due gruppi si trovavano di fronte e a non più di 180/250 metri circa di distanza l’uno dall’altro. Più numerosi gli alpini (25/30) e meglio armati perché dotati di almeno una mitragliatrice, di alcuni fucili mitragliatori e di diversi fucili “ta-pum”.

I partigiani, una squadra di 5 o 6 elementi comandata da Rodolfo Zelasco appartenente alla Divisione partigiana Coduri, il partigiano “Barba” già alpino della Monterosa da cui aveva disertato nel settembre precedente, che non si erano affatto accorti della presenza degli alpini, disponevano solo di armi automatiche leggere (MAB in prevalenza) e qualche bomba a mano.

Quando gli alpini cominciarono a sparare il primo a cadere fu Zelasco che, impossibilitato a muoversi, ordinò ai suoi compagni, tutti fortunatamente rimasti, di porsi in salvo. Poi, da ferito, aveva continuato a sparare sugli alpini riservando per sé l’ultima pallottola. Era un disertore e non aveva dubbi sul trattamento che avrebbe ricevuto se si fosse fatto catturare vivo.

Durante lo scontro morì anche un alpino, il caporalmaggiore Giampiero Civati, sulla cui sorte esistono testimonianze contrastanti.

Secondo alcuni morì nello scontro a fuoco colpito alla gola da una pallottola di rimbalzo un sasso, per altri, invece, fu ucciso dal comandante del reparto di alpini per essersi rifiutato di dare il “colpo di grazia” al morente Zelasco.

Nel dopoguerra, con DM 24 gennaio 1948 (GU 45/1948), la concessione fu trasferita alla Società Anonima Manganesifera Italiana (M.I.S.A) che sviluppò la produzione fino al massimo di 35,285 tonnellate di grezzo, con tenori pari a 1.84% di Cu e 13.6% di S, sfruttando anche le porzioni del giacimento caratterizzate da roccia impregnata di solfuri.

Le attività estrattive si protrassero fino al 1962, quando la miniera venne definitivamente chiusa in seguito alla rinuncia della concessionaria, rinuncia accettata con DM del 7 ottobre 1965 (GU 47/1966).

Storicamente la miniera di Libiola è stata una tra le più importanti miniere italiane per la coltivazione di solfuri di ferro e rame, con una produzione totale di oltre 1,000,000 di tonnellate di minerale aventi un tenore in rame variabile tra il 7 e il 14%.


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[1] Due datazioni radiocarboniche del 1985 (Maggi & Peace, 2005) fanno risalire questi strumenti a un intervallo che si colloca fra 3490 e 3120 a.C., all’inizio dell’età del rame in Europa occidentale, consentendo di inserire Libiola, insieme con la vicina Monte Loreto, nel gruppo delle miniere più antiche dell’Europa Occidentale.

[2] Si tratta del corpo di un essere umano di sesso maschile risalente all'età del rame (circa 3300 - 3100 a.C.) rinvenuto il 19 settembre 1991 in Trentino-Alto Adige, in prossimità del confine austro-italiano, ai piedi del ghiacciaio del Similaun a 3213 m s.l.m.., conservatosi grazie alle particolari condizioni climatiche all'interno del ghiacciaio.

L'impatto ambientale

Attualmente l'area mineraria è in stato di totale abbandono, le gallerie sono inaccessibili sia per il pericolo di crolli e allagamenti, sia per la presenza di esalazioni gassose.

Sono, inoltre, presenti numerose infrastrutture ed edifici minerari in avanzato stato di degrado.

I materiali sterili e i residui dei processi di cernita e di arricchimento sono stati depositati entro 5 corpi di discarica principali (fig. 3) e, subordinatamente, entro vari corpi di discarica minori, localizzati in corrispondenza degli imbocchi delle gallerie e degli impianti di arricchimento, creando una situazione fortemente impattante sull’ambiente circostante.

L’intera area mineraria è, infatti, interessata da processi di AMD (Acid Mine Drainage) innescati dai processi di ossidazione dei solfuri presenti sia nei corpi di discarica sia negli scavi sotterranei.

In conseguenza di questi processi la maggior parte delle acque circolanti presentano pH estremamente bassi (2-3) ed elevate concentrazioni di metalli di transizione, metalli pesanti ed altri elementi tossici.

I risultati delle misure effettuate sui diversi campioni prelevati nell’area mineraria hanno evidenziato [3] :

  • il deposito di rocce incassanti presenta ancora una notevole potenzialità di produrre soluzioni acide e manca quasi completamente di fasi mineralogiche in grado di attenuare significativamente il processo di AMD.

  • il deposito degli scarti dei processi di arricchimento (tailings) ha un potenziale AMD significativamente più ridotto in conseguenza dell’avanzato stato di alterazione dei materiali deposti.

Questi, infatti, sono costituiti in prevalenza da ossidi e idrossidi di Fe responsabili del colore rugginoso del deposito.


In particolare la distribuzione del potenziale di acidificazione netto (NAPP: Net Acid Producing Potential) [4] e delle concentrazioni degli inquinanti campionati (fig. 4) mostra tre zone di massimo relativo:

  1. la prima zona, nel settore nordoccidentale, è caratterizzata da un valore molto alto di NAPP, dovuto a un’elevata presenza di solfuri, rame, ossidi di ferro. Si tratta della sede degli scarti più vecchi, caratterizzati da elevati tenori di pirite e calcopirite;

  2. la seconda, nel settore sudoccidentale, in corrispondenza di un piano topografico vicino a tre gallerie minerarie e a uno dei maggiori scavi a cielo aperto dell’area, sono caratterizzate da alti valori di ossidi di ferro e mediamente alti di solfuri.

  3. la terza zona, che copre il settore settentrionale, con l’eccezione della prima zona, è caratterizzata da alte concentrazioni di ossidi di magnesio, cromite, nichel e silicati, correlate alla diffusa presenza di detriti ofiolitici (serpentine e basalti).


In queste condizioni le acque meteoriche, che scolano sui depositi di rifiuti minerari e/o penetrano nelle gallerie minerarie attraverso gli imbocchi esistenti, si arricchiscono di elementi chimici per poi riversarsi con il loro carico inquinante nel torrente Gromolo, che scorrendo nell’omonima valle arriva a sfociare in mare nel Golfo del Tigullio, in corrispondenza di Sestri Levante.

Le acque inquinate dal passaggio nell’area mineraria variano tra due gruppi estremi, il cui nome riflette il colore che tali acque assumono (fig. 5):

  • acque rosse, con valori di pH acido (2.4÷2.8), alto potenziale redox (~600 mV), alta concentrazione di solfati (3500÷9600 ppm) e metalli disciolti, in particolare il Fe(100÷1000 ppm), Al (20÷200 ppm), Cu (20÷180 ppm) e Zn (20÷50 ppm).

Tali acque fuoriescono dalle gallerie più basse e lunghe, Ida e Castagna, i cui ingressi sono localizzati al fondo della valle del Gromolo, a 106.5 e 72.4 m s.l.m rispettivamente;

  • acque blu, con valori di pH vicini al neutro (6.5÷7.5), più basso valore di potenziale redox (60÷335 mV), più bassi valori di solfati (1400÷2200 ppm) e di metalli disciolti.

Tali acque fuoriescono da un’altra galleria lunga, Margherita, la terza più bassa con ingresso a 209 m s.l.m vicino al Rio Cattan, tributario del Gromolo.


Dopo il passaggio nell’area mineraria, le acque inquinate che si scaricano nel torrente Gromolo determinano un forte impatto sull’ambiente acquatico e costituiscono una seria minaccia per gli organismi vegetali e animali, soprattutto nei periodi secchi.

Per affrontare il problema il Comune di Sestri Levante ha progettato un primo intervento denominato “Lavori di regimazione delle acque superficiali nell'area Scavo San Giuseppe in località miniere di Libiola”, per il quale è stato aggiudicato l’appalto il 7 marzo 2019.

Scopo dell’intervento è «ridurre l'apporto dei deflussi superficiali provenienti dal bacino imbrifero dell'area occupata dallo scavo San Giuseppe, con conseguente diminuzione delle portate della circolazione idrica sotterranea» [5].

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[ 3] Marescotti et alii (2006, 2008 e 2010)


[4] Il NAPP si ottiene come differenza tra MPA (Maximum Potential Acidity), la quantità massima di acido producibile, e ANC (Acid Neutralising Capacity), la quantità di acido neutralizzabile.


[5] Per una descrizione più ampia e puntuale dei risultati e del progetto di mitigazione dell'impatto delle acque inquinate si veda il pdf scaricabile.

Fig. 1 - Stratigrafia della miniera di Libiola (Garuti, Zaccarini 2005)

Fig. 2 - Arnesi dell'età del rame trovati nella miniera di Libiola

Fig. 3 - Miniera di Libiola: discariche minerarie (da GoogleEarth)

Fig. 4 - Mappa della distribuzione di NAPP e delle concentrazioni nell'area mineraria (Marescotti et alii, 2010)

Fig. 5 - Acque inquinate fuoriuscite dalla miniera di Libiola: acque rosse (a), acque blu (b)