Zolfo nelle Marche

La distribuzione dei siti a livello territoriale

In fig.1 è mostrata la distribuzione territoriale, articolata a livello comunale, dei 14 siti di estrazione dello zolfo, concentrati principalmente in provincia di Pesaro-Urbino (7+3 siti[1]) e secondariamente in quelle di Ancona (3) e Macerata (1).


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[1] Come già ricordato in questa sede sono state considerate anche le 3 concessioni del gruppo di Perticara, attualmente in provincia di Rimini ma storicamente in quella di Pesaro-Urbino (Marche).

Fig. 1 - Distribuzione territoriale a livello comunale dei siti di coltivazione dello zolfo nelle Marche (compresi quelli ora ex Pesaro-Urbino)

Geologia e giacimentologia

Lo zolfo nelle Marche, come in Romagna, ha un’origine esclusivamente evaporitica, associata ai gessi della Formazione “gessoso-solfifera” formatasi in corrispondenza della crisi di salinità del Mediterraneo nel Miocene superiore (Messiniano, 7÷5 Ma), i cui affioramenti si estendono dal cesenate al maceratese occupando con vario sviluppo gran parte del territorio compreso tra la catena dell’Appennino e il Mar Adriatico [1].

Nelle Marche, tale Formazione ha spessori variabili da 10 a 30 m, anche se talora sono stati segnalati spessori maggiori ed è compresa nella Serie umbro-marchigiana.

Essa forma una netta individualità stratigrafica del Messiniano medio ed è costituita da argille scure bituminose, diatomiti, calcari fetidi, calcari solfiferi stromatolitici, gessi e gessareniti laminate, calcari solfiferi e calcari listati in alternanza fra loro (Cantalamessa et alii, 1986).

Se presente, lo zolfo si rinviene alla base di una serie di gessi e marne scistose; talora, come in Romagna, è stato incontrato in forma di lenti anche nelle sequenze superiori, fra i gessi o fra le marne.

Spessori e tenore utile sono estremamente variabili e decisamente non prevedibili, mentre la mineralizzazione è rappresentata, di solito, da un solo strato o da una sola lente.

Da un punto di vista dell’evoluzione geologico stratigrafica, occorre segnalare come la Formazione “gessoso-solfifera” si appoggi su una successione mesozoico-paleogenica costituita da circa 800 m di calcari di piattaforma, cui seguono 1,500 m ca. di formazioni pelagiche calcareo-marnose con componente argillosa più presente nei terreni più recenti, segno di aumento dell’apporto terrigeno.

E’ in quest’ultima fase, riferibile al Miocene superiore, che si sono formati bacini ristretti, allungati parallelamente alla catena appenninica, poco comunicanti tra loro, in cui si sono venute a creare le condizioni per la precipitazione delle evaporiti.

Su queste premesse si possono, quindi, ricostruire le diverse sequenze litologiche che, dal basso in alto, la Formazione “gessoso-solfifera” può assumere nei diversi bacini:

  • alla base è possibile rinvenire un calcare marnoso chiaro, di consistenza litoide, un complesso di argille salate di età tortoniana (Miocene medio-superiore, 11÷7 Ma), marne e calcari marnosi, detti “bisciari”, con una marcata attitudine al rigonfiamento, con conseguenti problemi durante lo scavo delle gallerie minerarie;

  • molto spesso la Formazione “gessoso-solfifera” comincia con alcune marne scure a righe biancastre (marne listate), dovute alla presenza di straterelli diatomitici, considerate come “depositi di scarpata”;

  • segue un calcare siliceo (cagnino), mai mineralizzato, di ottima consistenza, tanto da garantire una buona sicurezza negli scavi in galleria;

  • lo strato mineralizzato viene subito dopo ed è denominato, appunto, “calcare solfifero”, anche se talvolta può risultare sterile.

Può essere di colore giallo venato (denominato “solato”) o bruno e grigio scuro (denominato “piombino”); nel giacimento di Cabernardi si sono rinvenute anche vene di zolfo purissimo giallo citrino, detto "talamone".

Quando affiora, il calcare solfifero, reagendo con l’aria e l’umidità atmosferica, trasforma lo zolfo in acido solforico e, quindi, con successiva reazione parte del calcare in gesso, assumendo un aspetto terroso e poroso (magnone);

  • segue, infine, un complesso stratificato costituito da una alternanza di gessi (seghe) e marne scistose (ghioli) spesso anche bituminose, in cui i livelli gessosi sono numerosi (fino a 11) e di spessore variabile.


Rispetto a quella siciliana, la Formazione “gessoso-solfifera” marchigiana, molto simile a quella emiliano-romagnola, mostra caratteristiche differenti: in particolare, mancano i calcari marnosi bianchi pliocenici sovrastanti, i trubi siciliani, e gli spessori dei livelli gessosi e diatomitici sono molto più ridotti.

Nelle Marche la copertura della Formazione “gessoso-solfifera” è costituita dalle “Argille a Colombacci”, unità stratigrafica costituita da un’alternanza di peliti grigie, scure e siltiti, con sottili intercalazioni di calcari biochimici (colombacci) e marne nere.


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[1] Lo zolfo si forma a partire da gesso (CaSO42H2O) e metano (CH4) a opera di batteri anaerobici secondo le seguenti reazioni che portano alla formazione di calcite (CaCO3) e zolfo nativo (S) dando luogo al calcare solfifero:

2(CaSO42H2O)+2CH4 Ca(HS)2+CaCO3+CO2+7H2O

Ca(HS)2+CaCO3+CO2+7H2O 2CaCO3+2H2S+6H2O

2H2S+O2 2S+2H2O



I bacini solfiferi marchigiani


Le aree di interesse minerario per la coltivazione dello Zolfo nelle Marche possono essere così articolate (fig. 1):

  • Bacino del Montefeltro, in continuità con quello delle miniere emiliano-romagnole, allo stato attuale da considerare anche amministrativamente appartenente all’Emilia-Romagna in seguito al passaggio in tale regione di 7 comuni dell’Alta Valmarecchia (Casteldelci, Maiolo, Talamello, San Leo, Pennabilli, Sant'Agata Feltria e Novafeltria) in seguito a referendum popolare del 17-18 dicembre 2006.

  • Bacino dell’Urbinate, che si sviluppa in Urbino e nei comuni confinanti (Macerata Feltria, Lunano, Fossombrone, Petriano, Colbordolo), a oriente del massiccio montuoso del Monte Carpegna per circa 65 km verso SE.

  • Bacino dell’Appennino centrale, che si estende a forma di ellisse da NW a SE per 8 km, nel territorio dei comuni di Sassoferrato (AN) e Pergola (PU), comprendendo il bacino di Cabernardi-Percozzone che fu uno dei più importanti d’Italia per lavori svolti e quantità di zolfo estratto.

  • Bacino di Cingoli, isolato e assai modesto, posto a circa 30 km a ESE del bacino dell’Appennino centrale.


Da quanto descritto in relazione alla genesi dei giacimenti solfiferi e alla loro localizzazione, si ricava che le mineralizzazioni sono risultate più frequenti e importanti nei bacini di età messiniana con moderata comunicazione con il mare aperto.

Significativo a questo riguardo è il caso del bacino di Cabernardi-Percozzone.

Viceversa, al bordo dei bacini miocenici aperti le mineralizzazioni sono risultate molto più ridotte, come nel caso delle aree della formazione “gessoso-solfifera” affiorante in zona costiera (Isola di Fano, Senigallia, Ancona).

Le condizioni favorevoli alla formazione dei giacimenti erano, quindi, rappresentate da un ambiente di sedimentazione tranquillo e privo di apporti detritici grossolani.

Molto spesso, infine, la presenza di faglie, diaclasi e macropieghe hanno contribuito alle maggiori concentrazioni di minerale, come nel caso di Perticara e Cabernardi.

Le tecniche di coltivazione e i pericoli nelle miniere marchigiane


All'inizio la tecnica di coltivazione era quella classica per "gallerie e pilastri", senza protezione del tetto e con i pilastri che venivano abbattuti in fase di abbandono del livello (fig. 2a).

Nel 1861 tale metodo provocò a Perticara il crollo di gran parte del sotterraneo, similmente a quanto avvenne anche in molte miniere della Sicilia e in alcune del vicino bacino cesenate.

Negli anni successivi il metodo venne sostituito con quelle per ripiene, a colmare i vuoti per evitare crolli e subsidenze in superficie.

Fino al 1923, nella miniera di Cabernardi, la coltivazione era effettuata per tagli montanti da letto a tetto, causando frequentemente un fenomeno, detto “chioppo”, consistente nell'improvviso e violento distacco di blocchi di minerale dal fronte di abbattimento delle gallerie.

Considerando che le coltivazioni si svolgevano anche a più di 500 m di profondità, appare evidente come l'asporto del minerale potesse provocare, sulle pareti delle gallerie, improvvisi rilasci tensionali con lancio di detriti anche di elevata dimensione. Questi eventi causarono molte vittime, in particolare in uno del 1920 perirono ben 7 minatori.

Poiché si osservò che il fenomeno si verificava in particolare durante le prime coltivazioni di un livello e se queste erano concentrate in un’area ristretta, si passò all’estrazione per fette longitudinali affiancate, larghe al massimo 1.8 m.

Si provvedeva alla coltivazione di una fetta alla volta, con tagli montanti tra due traverse fino al tetto di separazione con il livello soprastante e successivo riempimento, per passare alla fetta laterale seguente (fig. 2b, relativa alla miniera di Perticara).

I cantieri erano fittamente armati con quadri completi, ben saldati alla roccia, di modo che i minatori potevano operare sempre al riparo delle armature.

Un pericolo grave nelle miniere di zolfo, era costituito dagli incendi, specialmente quando veniva usata la polvere nera per le volate.

Essi rappresentavano una costante minaccia per i minatori, per la sicurezza dei giacimenti e per l'esistenza della stessa miniera.

Lo spegnimento degli incendi era assai difficoltoso e sempre pericoloso.

Con l'uso degli apparecchi autorespiratori a riserva di ossigeno, si poteva accedere ai cantieri incendiati e provvedere a spegnere anche inizi di incendio. Ma quando gli incendi raggiungevano proporzioni notevoli, si doveva isolare ermeticamente intere sezioni di miniera e nei casi più gravi l’intero sotterraneo, per impedire che fuoco venisse alimentato dall’ossigeno dell’aria .

Soprattutto nella miniera di Perticara, dove le gallerie erano scavate direttamente nello strato mineralizzato, gli incendi provocavano molti danni, impedendo il transito nelle gallerie e richiedendo la chiusura del sotterraneo.

Nonostante il problema delle gallerie scavate nello strato fosse ben noto già dal 1863, quando l’allora direttore Ing. Bianchi ne consigliò lo scavo fuori strato, tali gallerie furono mantenute anche durante la gestione Montecatini, probabilmente per un malinteso senso economia.

Tra gli altri pericoli connessi alle miniere di zolfo vanno considerate le emissioni di gas, in particolare anidride solforosa, idrogeno solforato (H2S) e grisou, miscela costituita in gran parte (dal 77 al 99%) da metano, che poteva originarsi anche dalle marne scistose bituminose (ghioli) poste a tetto dell’orizzonte solfifero, ma a volte inserite nello stesso orizzonte.

Il grisou fu all’origine della più grave sciagura mineraria avvenuta nelle Marche, nella miniera di S. Lorenzo in Zolfinelli l’8 febbraio 1881, con la morte di 13 minatori e il ferimento di altri 23.

Fig. 2 - Metodi di coltivazione nella miniera di Perticara (Antinori, 1993)

Cenni storici

Lo scrittore-poeta Vincenzo Masini pubblicò nel 1759 un poema intitolato “Il Zolfo”, in cui venivano descritti efficacemente l’andamento degli strati mineralizzati e le tecnologie estrattive allora vigenti e che rappresenta una delle prime testimonianze sull’attività di estrazione e le relative problematiche nei bacini solfiferi del cesenate e del Montefeltro (fig. 3).

È probabile, tuttavia, che la presenza dello zolfo nella regione dovesse essere nota già ai tempi dei romani, anche se mancano riscontri al riguardo.

Nello specifico delle Marche, scritti conservati nel monastero di Fonte Avellana alle pendici orientali del M. Catria (PU) riportano, già nel 1149, l’indicazione di “solfanaie” lungo la strada Pergola-Cagli presso Pieve di S. Gavino.

In tempi più recenti, Jervis, nel 1874, e Segrè, nel 1881, descrivono località con presenza di zolfo, tra cui la più nota, avendo in seguito dato luogo a un’importante miniera, è Cabernardi.

Fino a tutto il XIX secolo lo zolfo estratto veniva purificato in olle di terracotta o in forni a pignatte di ghisa, adoperando legna o carbone come combustibile.

Solo a metà del XIX secolo questi metodi vennero superati dai cosiddetti “calcaroni” e, successivamente (1880) dai forni Gill (fig. 4) che utilizzavano lo stesso zolfo come combustibile; il minerale fuso veniva raccolto in particolari forme dette “pani”.

Per tutto il XIX e XX secolo i maggiori impulsi allo sviluppo tecnologico e produttivo delle miniere di zolfo si dovettero ai conflitti bellici, a cui seguivano periodi di profonda crisi, con la chiusura anche di miniere importanti.

L’ultimo episodio di questo genere si verificò in seguito alla guerra di Corea (1950-1953), che dapprima favorì il mercato italiano a causa della mancata concorrenza delle esportazioni americane, ma successivamente, con il ritorno sul mercato degli zolfi americani, il prezzo scese bruscamente causando forti perdite per le miniere italiane.

A ciò va aggiunto che da anni, negli Stati Uniti e nel Golfo del Messico, dove le condizioni geologiche erano particolarmente favorevoli, avveniva la completa applicazione del metodo di estrazione denominato Frasch (fig. 5), impossibile da applicarsi alle miniere italiane.

La storia centenaria delle miniere di zolfo marchigiane termina alla metà degli anni ’60 del XX secolo con la chiusura delle miniere di Cabernardi, Marazzana e Perticara.

In fig. 6 è riportato l’andamento dell’occupazione e della produzione di zolfo greggio nelle miniere marchigiane, da cui si osserva un forte aumento a partire dal 1915 fino al massimo di 117,017 tonnellate nel 1938 con 2,890 occupati, che divennero 3,294 nel 1940.

Durante la seconda guerra mondiale la produzione e l’occupazione, pur diminuendo, si mantennero a livelli significativi fino al 1943 per poi crollare fino al minimo del 1945, con una produzione di 12,276 tonnellate e 1,697 occupati.

Nel dopoguerra l’occupazione tornò a superare le 3,000 unità già dal 1947, mentre la produzione, pur risalendo al massimo relativo nel 1950 con 73,738 tonnellate, non tornò più ai livelli anteguerra.

Il massimo del 1950 fu, infatti, un “fuoco di paglia” e la produzione scese rapidamente sotto le 20,000 tonnellate già nel 1955, prodromo della definitiva chiusura avvenuta a metà degli anni ’60.

Complessivamente, tra il 1860 e il 1964, le miniere di zolfo marchigiane hanno prodotto 3,149,450 tonnellate di zolfo greggio, di cui 1,565,215 in provincia di Pesaro-Urbino (Bacino di Perticara) e 1,584,235 in quella di Ancona (Bacino Cabernardi-Percozzone).

Fig. 3

Fig. 4 - Calcarone e forno Gill

Fig. 5 – Schema di funzionamento del metodo Frasch

Fig. 6 – Produzione di zolfo greggio e occupazione nelle miniere della Marche (Mattias, 1995)

Evoluzione temporale dell'attività estrattiva

Come si osserva nella fig. 7, che mostra l’evoluzione temporale del numero di concessioni attive, l’attività estrattiva, già in atto dalla seconda metà del XIX secolo (3 concessioni attive al 1870), presenta un andamento bi-modale con un primo massimo (11 siti) al passaggio tra il XIX e il XX secolo.

Dalla seconda decade del XX secolo comincia la chiusura dei siti del bacino dell’Urbinate, di cui rimangono aperti quello di S. Lorenzo Zolfinelli e Tombolina e si raggiunge un minimo di 6 siti nel 1930, in concomitanza con l’emissione del RD 1443/1927.

Successivamente i siti risalgono a 7 e si mantengono tali fino agli inizi degli anni ’50 quando comincia la definitiva crisi del settore che porterà alla fine dell’attività già a metà degli anni ’60, quando chiuderà l’ultima miniera, quella di Perticara.

Fig. 7 - Evoluzione temporale del numero di concessioni vigenti di zolfo nelle Marche