Lo zolfo in Italia:

Marche-Romagna vs Sicilia

Lo zolfo italiano: un confronto tra Sicilia e l’area Marche-Romagna


Nelle figg. 1 e 2 sono rappresentati i grafici che mostrano gli andamenti della percentuale di zolfo prodotto dal sistema solfifero marchigiano-romagnolo e la produttività annua pro-capite confrontati con le analoghe curve relative alla produzione siciliana di zolfo.

Dal punto di vista della produzione complessiva i due sistemi partono con una forbice molto ampia (<10% vs. >90%) che si mantiene senza significative variazioni fino alla vigilia della prima guerra mondiale.

Da quel momento la forbice comincia a ridursi sempre di più fino allo scoppio della seconda guerra mondiale (1940, 36.35% vs 63.17%), durante la quale il rapporto addirittura si inverte (1943 [1], 60.52% vs 37.50%).

Dopo l’anomalo 1945, fortemente condizionato dagli eventi bellici, la forbice si stabilizza (ca. 40% vs ca. 60%) fino al 1950, quando inizia la crisi dello zolfo marchigiano-romagnolo la cui estrazione terminerà alla fine del decennio.

Dal punto di vista della produttività, invece, il sistema dello zolfo marchigiano-romagnolo pur partendo da posizioni di inferiorità, o comunque su valori analoghi, fino ad al 1905, assume successivamente un significativa preminenza (1.3÷2.0) che si riduce solo in corrispondenza dei due eventi bellici.

Significativo l’allargarsi della forbice di produttività in fase di abbandono dell'attività a inizio anni ’60: mentre nelle Marche e in Romagna la chiusura delle attività estrattive si è accompagnata con la riduzione della manodopera, in parte pensionata e in parte redistribuita su altre miniere e impianti della Montecatini, in Sicilia la vicenda della chiusura delle miniere di zolfo, peraltro protrattasi fino al 1984 (LR 27/1984), non ha prodotto una corrispondente diminuzione della manodopera addetta che, tra il 1955 e il 1960, a fronte di una riduzione della produzione del 63.18% diminuì solo del 32.28%.

Una delle cause della maggiore produttività dell’industria dello zolfo marchigiano-romagnolo rispetto a quella siciliana è da ricercarsi nella differente legislazione mineraria.

Il principio di demanialità delle miniere, cui si ispira il RD 1443/1927 che unificò la legislazione mineraria su tutto il territorio nazionale, era già applicato nel distretto marchigiano-romagnolo, mentre in Sicilia vigeva il sistema fondiario che si rivelò un ostacolo per lo sviluppo di una moderna industria solfifera siciliana.

Tale sistema considerava il sottosuolo come facente parte della proprietà di superficie, per cui la proprietà mineraria era divisa in un gran numero di piccoli proprietari, con la conseguenza di favorire, accanto a poche miniere di grandi dimensioni site in alcuni latifondi, la nascita di molte piccole miniere (fig. 3).

Queste piccole miniere, mano a mano che la profondità di coltivazione aumentava, richiedevano spese crescenti, impossibili da sostenere per molte mentre altre dovevano produrre a costi alti, dato che le loro dimensioni non permettevano di organizzare coltivazioni razionali ed efficienti ai fini della sicurezza, della gestione dei giacimenti e dell’economicità dell’esercizio.

Anche l’uso dei proprietari siciliani di dare in affitto (gabella) la gestione della miniera costituiva un ulteriore problema, in quanto i gabellotti dovevano versare ai proprietari quote (estagli) esorbitanti del prodotto, fino al 40%, che assorbivano l’utile del gestore che, oltretutto, non aveva molto tempo per rifarsi, essendo i contratti di affitto di breve durata, tra 9 e 12 anni.

Ciò faceva sì che il gabellotto, per cercare di rifarsi, tendeva ad aumentare il più possibile la produzione nei periodi di alto prezzo di mercato dello zolfo, con il risultato di saturare il mercato e riempire i magazzini di prodotto che non si aveva più interesse a vendere avendone la troppa offerta fatto scendere il prezzo.

Ne conseguiva una continua oscillazione della produzione e dei prezzi dello zolfo che si inseguivano a vicenda, con conseguente impossibilità di programmare la coltivazione e garantirne la sicurezza, dato lo spirito di “rapina” che animava l’intero sistema.

Neanche la costituzione, nel 1896, della Società anonima Anglo-Sicilian Sulphur Company, che per un decennio accentrò nelle proprie mani gran parte della produzione dell’isola, avendo stipulato contratti con il 65% dei produttori che si impegnavano a vendergli lo zolfo estratto a prezzo prefissato e abbastanza remunerativo (96 lire/ton), riuscì a calmierare la produzione per l’impossibilità di tenere sotto controllo il restante 35%.

L’Anglo-Sicilian fu posta in liquidazione nel luglio 1906, sostituita dal Consorzio Obbligatorio Solfifero Siciliano con cui cessò il regime di libertà nelle vendite e che gestì lo zolfo siciliano fino al 1932, rimanendo coinvolto nelle conseguenze della crisi del 1929.

Il RD 1443/1927 non modificò più di tanto la situazione delle miniere siciliane dal punto di vista della pratica della gabella mentre per legge la misura degli estagli fu ridotta al 5% della produzione.


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[1] Il 1943 è l’anno dell’occupazione alleata della Sicilia, mentre nell’Italia centro-settentrionale il fronte è ancora lontano.


Fig. 1 - Percentuale sul totale nazionale degli zolfi marchigiano-romagnolo e siciliano (1878-1960)

Fig. 2 - Produzione annuale pro-capite degli zolfi marchigiano-romagnolo e siciliano (1878-1960)

Fig. 3 - Articolazione delle miniere di zolfo siciliane per prodotto e numero (1890-1892)

Diversa la situazione dell’area marchigiano-romagnola dove le miniere erano affidate dal Governo a un concessionario che poteva disporre liberamente del sottosuolo, il che rese possibile l’apertura di miniere di dimensioni assai maggiori di quelle siciliane, gestite da poche e grandi società, come nel caso della Montecatini, che oltre a capitali possedevano anche le competenze necessarie, altro elemento che venne a mancare in Sicilia, soprattutto nella prima fase, prima dell’apertura della Scuola mineraria di Caltanissetta del 1864.

Riguardo al commercio del prodotto, questo nelle regioni Marche e Romagna era in mano agli stessi produttori, sia per l’estero che l’Italia, mentre in Sicilia era distinto dall’attività di produzione che, come detto, era in mano a numerosi piccoli produttori, che, oltretutto, non si occupavano neanche della raffinazione dello zolfo prima dell’immissione sul mercato.

Di conseguenza, tra produttori e consumatori esistevano tre categorie di intermediari: sensali, magazzinieri-commercianti ed esportatori.

Questi ultimi, in numero limitato, disponevano di mezzi finanziari e potevano abusare della loro funzione imponendo ai produttori prezzi inferiori a quelli di mercato, in questo spalleggiati dai magazzinieri.

Il Consorzio obbligatorio, fallito nel 1932, fu sostituito nel 1933 dall’Ufficio per la Vendita dello Zolfo Italiano e poi nel 1940 dall’Ente Zolfi Italiani, a cui tutto lo zolfo estratto dalle miniere italiane doveva essere consegnato per essere collocato sia sul mercato interno che su quello estero, mettendo fine alla concorrenza tra distretto marchigiano-romagnolo e Sicilia.