L'ILVA e le miniere di ferro dell'Elba

Le origini della siderurgia italiana: dalle origini all'Unità d'Italia

Dopo le varie fasi dell’età della pietra (paleolitico, mesolitico e neolitico), la storia evolutiva dell’uomo entra nella fase della metallurgia, scansionata dalla successione di diversi metalli di riferimento: età del rame (4,500÷2,200 a.C.), età del bronzo (2,200÷1,000 a.C.), età del ferro (per tutto il I millennio a.C.).

In Italia, gli Etruschi sono il primo popolo con una vera e propria industria del ferro, al cui sviluppo contribuisce largamente il minerale dell’Isola d’Elba, in cui i forni fusori erano tanto diffusi da provocare la distruzione del patrimonio boschivo e far sì che l'isola venisse denominata Aethalia, la “fuligginosa”.

Proprio a causa della mancanza di legname per i forni, la lavorazione del ferro si sposta sul litorale toscano a Populonia (oggi Piombino e Campiglia), che nella seconda metà del VII secolo a.C. diventa il cuore della siderurgia dell’epoca, come testimonia la grande quantità di scorie che ancora oggi si ritrovano nell’area e il fatto che dal 1920 siano state rilasciate nei suoi dintorni ben 9 diverse concessioni per la coltivazione delle scorie ferrifere.

Nella prima metà del III secolo a.C. gli Etruschi passano sotto il controllo di Roma e la successiva espansione della potenza romana estende la lavorazione del ferro a tutte le regioni a mano a mano conquistate.

Con la caduta dell’Impero Romano e la conseguente dissoluzione della società civile, anche l’attività metallurgica del ferro va a scemare in quantità e qualità, salvo le quotidiane attività locali di stampo artigianale.

Bisognerà attendere l’avvento dell’Età Comunale, a cavallo tra l’XI e il XII secolo d.C., per un nuovo rilancio della lavorazione del ferro, in gran parte in vicinanza dei giacimenti quasi affioranti di minerali ferrosi.

È, quindi, il caso delle aree toscane ex etrusche, delle valli bresciane e bergamasche e della Valle d’Aosta, dove, peraltro, l’attività siderurgica seguiva pratiche differenziate da luogo a luogo, anche a causa dei diversi minerali ferrosi coltivati: carbonati (siderite) in Lombardia, ossidi ferrici (ematite e limonite) in Toscana e ossidi ferroso-ferrici (magnetite) in Valle d’Aosta.

La prima testimonianza organica sull’arte mineraria e metallurgica, scritta dal senese Vannoccio Biringuccio (1480-1539) e pubblicata postuma a Venezia nel 1540 (fig. 1), conteneva molte informazioni su come riconoscere i minerali utili, come trattarli prima della fusione e come lavorarli.

Dieci anni dopo, il mineralogista sassone Georgius Bauer (1494-1555), detto Agricola, finisce di scrivere i 12 libri del “De re metallica” (fig. 2), successivamente pubblicati postumi a Basilea nel 1556 e considerati il più importante testo di arte mineraria dell’Età moderna.

Sempre verso la metà del XVI secolo, Cosimo I de’ Medici (fig. 3) organizza la compagnia conosciuta come Magona [1] del ferro, cui viene affidato l’appalto generale delle miniere elbane e la commercializzazione dei minerali estratti.

Da quel momento l’industria del ferro toscana si configurerà come industria di stato e, come tale, dipenderà fortemente dal potere politico e dai suoi interessi.

Ciò contribuirà alla sostanziale stagnazione di tale attività in Toscana fino alla fine del XVIII secolo, stasi che caratterizzerà anche la siderurgia lombarda, paradossalmente per una ragione opposta: una parcellizzazione spinta delle attività, tale da favorire iniziative artigianali o familiari più che industriali.

In Toscana, i minerali dell’Elba sono sempre la fonte principale di materia prima, ma la già citata scarsità di acqua e legname impedisce che in loco possa costruirsi un altoforno e relativa ferriera, vagheggiati già da Napoleone nel suo esilio sull’isola (1814÷1815).

Nel 1836, sotto il Granduca Leopoldo II, la siderurgia toscana riceve un grande impulso con il superamento della Magona e la creazione di una Amministrazione da cui dipendono le ferriere di Valpiana e Cecina e il nuovo centro di Follonica.

A Unità d’Italia avvenuta, il censimento statistico storico per il decennio 1861-1870 segnala una produzione annuale media pari a 21,699 tonnellate di ghisa e 33,400 tonnellate di ferro, mentre non si segnala fino al decennio 1881-1890 alcuna produzione di acciaio.

Dal punto di vista degli impianti, i risultati della Commissione nominata dal Generale Menabrea, Ministro della Marina, pubblicati nel 1864 con allegata una relazione conclusiva redatta dall’ing. Felice Giordano, segnalano la presenza di soli 44 altiforni (30 attivi), 440 bassi fuochi di tipo catalano (190) e lombardo (250), 30 forni a puddellare, 30 treni di cilindri laminatori e circa 500 tra magli e maglietti.

Una fotografia della siderurgia italiana che ne evidenzia i ritardi tecnologici, in un periodo in cui all’estero si afferma la produzione di ghisa con altoforno a coke, il processo Bessemer sostituisce il puddellaggio e si affaccia sul mercato il forno Martin-Siemens.

È evidente, inoltre, una forte dipendenza dalle importazioni che, con circa 115,000 tonnellate di ghisa, ferro e acciaio, assommano a più del doppio della produzione interna.

Constatata l’incompatibilità della situazione italiana con la pretesa di ambire al ruolo di nuova “potenza industriale”, inizia allora il processo di razionalizzazione del comparto siderurgico, con la ridefinizione delle concessioni di sfruttamento del minerale elbano, unica fonte significativa di materia prima minerale.

Le risorse elbane, che prendono spesso la via dell’estero, non forniscono in quel periodo più di 200,000 ton/anno, appena sufficienti al fabbisogno di un’industria in fase d’incipiente sviluppo. Risultano troppo costose le antiche risorse minerarie dell’arco alpino e di quello appenninico, utilizzabili solo se sostenute da forti politiche autarchiche e doganali.

Si dibatte anche sull’utilizzazione delle piriti elbane e sul possibile sfruttamento, in parziale sostituzione del carbone da coke tutto di importazione, delle ligniti umbro-toscane, che però hanno un basso potere calorifero e una grande quantità di ceneri e umidità e richiedono costosi trattamenti prima dell’utilizzazione.

In questa fase si conferma la dicotomia storica tra le grandi industrie siderurgiche tirreniche, centralizzate e pubbliche, e quelle padane, frammentate e legate all’industria privata in pieno sviluppo.

Come ormai documentato nel resto del mondo, la filiera minerale-ghisa-acciaio del ciclo integrale permette di ottenere delle economie di scala.

Tuttavia, lo stabilimento a ciclo integrale abbisogna di una più impegnativa organizzazione del lavoro e della produzione, con flussi continui e ben congegnati di minerali di ferro da preparare in pezzatura e composizione per la carica, di carbone da trasformare localmente in coke, di energia termica ed elettrica per muovere le macchine a servizio della produzione, di uno o più altiforni che alimentano le acciaierie, basate su convertitori pneumatici e/o su forni Martin-Siemens.

Di conseguenza, per le difficoltà tecniche ed economiche nella costruzione e nell’avviamento, gli impianti di ciclo integrale non possono fare a meno dell’apporto finanziario dello Stato e di politiche protezionistiche su ghisa e acciaio, che permettano di superare la fase iniziale, sempre a bilancio negativo a causa dei costi di avviamento da ammortizzare, e la conseguente crisi finanziaria, prima di poter dimostrare la redditività attesa della produzione.

Questo vale per la parte tirrenica della siderurgia italiana, mentre quella padana, data l’insufficienza delle risorse minerarie di montagna, si sposta in pianura privilegiando l’utilizzazione del rottame di ferro, la cosiddetta carica solida, con forni del tipo Martin-Siemens e, successivamente, forni elettrici alimentati da centrali idroelettriche, eventualmente di proprietà dello stesso imprenditore.

Se il bilancio di fine secolo delle attività siderurgiche non è quello di una nazione al passo con i Paesi più industrializzati, si può comunque ritenere che i primi quarant’anni dell’Italia unita, con la presenza crescente di capitali nazionali ed esteri interessati a investire, con l’unificazione delle politiche doganali rivolte anche a limitare la concorrenza estera e l’ammodernamento delle reti di trasporto, creino gli elementi indispensabili per lo sviluppo della grande industria. 

Fig. 1 - Pirotechnia di Vannuccio Berenguccio (Venezia, 1540)

Fig. 2 - De Re Metallica di Georgius Agricola (Basilea, 1556)

Fig. 3 - Cosimo I de' Medici in un ritratto di Agnolo Bronzino (1543-1545)

In tale periodo gli operatori del settore, dagli imprenditori ai tecnici agli operai, si devono confrontare con radicali innovazioni degli impianti e dell’organizzazione del lavoro, gravati dal pesante onere di insufficienti risorse di materie prime e, talvolta, di scarse conoscenze sia teoriche sia pratiche.

La formazione metallurgica inizia, quindi, a trovare spazio nelle Università e nei Regi istituti tecnici, come quelli di Torino e di Terni [2] e quello superiore di Milano.

Intanto, la produzione annuale media di acciaio italiano, che nell’ultimo decennio del XIX secolo assommava a sole 75,053 [3] tonnellate (circa 241,000 tonnellate totali di prodotti siderurgici), nel secondo decennio del XX secolo arriva a sfiorare il milione di tonnellate (960,689, quasi 13 volte di più), con un totale di prodotti siderurgici pari a poco meno di 1.5 milioni di tonnellate, di cui l’acciaio rappresenta quindi più del 65%.


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[1] Grande fonderia per la produzione della ghisa (denominata ferraccio)

[2] Terni è diventata una delle capitali dell’acciaio italiano dal 10 marzo 1884, quando nasce la Società degli alti forni, fonderie ed acciaierie di Terni (SAFFAT), fortemente supportata dalle commesse dello Stato, con l’obiettivo di garantire la fornitura di materiale navale (piastre per la corazzatura delle navi) e ferroviario.

[3] Per dare un’idea del ritardo italiano, nello stesso decennio gli USA producevano in media oltre 6 milioni di tonnellate di acciaio, la Germania e l’Inghilterra poco meno di 4 milioni, la Francia poco più di 1 milione, la Cecoslovacchia circa 700,000 e il piccolo Belgio circa 450,000. Solo la Spagna con poco più di 86,000 tonnellate era sull’ordine di grandezza della produzione italiana.

La Società ILVA Alti Forni e Acciaierie d'Italia

Le concessioni minerarie dell'isola d'Elba

Dopo la sconfitta di Napoleone a Waterloo nel 1815, il Trattato di Vienna incorpora il principato di Piombino nel Granducato di Toscana, previo il pagamento ai Boncompagni-Ludovisi di un’indennità equivalente alla mancata rendita delle miniere dell’Elba dal 1799.

Nel Granducato di Toscana vigeva, allora, il regime fondiario, stabilito dal Granduca Pietro Leopoldo con il motuproprio del 13 maggio 1788, secondo cui al proprietario del fondo spettava il pieno possesso del sottosuolo.

Poiché, però, lo stesso motuproprio prevedeva un’eccezione in caso di miniere acquisite dallo Stato a titolo oneroso, il Granduca Ferdinando III coglie l’occasione per assoggettare le miniere elbane al regime della regalia, una sorta di regime demaniale, dove però non era la Stato a concedere ma, in questo caso, direttamente il Granduca.

Il successivo Rescritto del 28 ottobre 1856 conferma il motuproprio del 1788 per le province toscane, con l’eccezione delle miniere di ferro di Piombino e dell’isola d’Elba che, quindi, rimangono sotto il controllo demaniale, anche se prevale l’indirizzo di affidare la gestione a un’amministrazione mista, composta da controllori governativi e imprenditori privati.

Nel 1860, al momento del passaggio dal Granducato di Toscana al nuovo Stato italiano, il giacimento elbano è, quindi, sotto il controllo demaniale, gestito da un’amministrazione mista pubblico-privata, l’Amministrazione Cointeressata delle Reali Miniere del Ferro dell’Isola d’Elba e delle Fonderie di Follonica, costituitasi con durata trentennale il 19 luglio 1851 e in cui il privato di turno era il banchiere livornese Pietro Bastogi.

All’epoca, l’escavazione delle miniere elbane si era concentrata (fig. 4) nei cinque cantieri di Rio, Vigneria, Rio Albano, Terranera e Calamita, che dal 1860 alla fine del secolo arrivarono a fornire oltre l’80% del minerale di ferro estratto in Italia; minerale, peraltro, particolarmente ricco, con tenore medio di contenuto ferroso superiore al 60%.

Con l’avvento del nuovo Stato le cose cambiano solo superficialmente, senza mutamenti significativi negli orientamenti gestionali, sebbene il ruolo del Commissario governativo si ridimensioni, almeno nella qualifica ufficiale, a quello di “consultore tecnico”.

Di fatto, per tutto il XIX secolo le miniere elbane resteranno ai margini del progresso tecnico-industriale che caratterizza il resto dell’industria estrattiva.

In assenza di un reale miglioramento tecnologico, il notevole incremento nella quantità di minerale scavato, costantemente sopra le 150,000 tonnellate dal 1871, verrà reso possibile quasi esclusivamente dal ricorso a forti aumenti della manodopera [4], di cui poteva far parte anche un certo numero di condannati al bagno penale della Linguella a Portoferraio, in misura, comunque, non superiore a un terzo del totale degli occupati.

Sebbene all’inizio degli anni ‘70 si fosse provveduto all’installazione di due pontili in ferro sia a Rio che a Vigneria, le carenze più evidenti riguardavano il trasporto e l’imbarco del minerale, che per la maggior parte avveniva con il sistema del trasbordo da barche che prendevano il carico ai pontili e lo portavano ai bastimenti: un sistema lento e soggetto alle inclemenze del mare, che impedivano le operazioni di imbarco per quattro/cinque mesi l’anno.

Tuttavia, nonostante i ritardi indicati, per l’economia dell’Elba le miniere, stante un’occupazione mantenuta artificiosamente elevata, rappresentavano ancora una sicura fonte di reddito e un potente fattore di stabilità sociale in una fase di crisi socioeconomica dell’isola, che aveva colpito particolarmente le attività marinare e agricole, quest’ultime fortemente immiserite dalla diffusione della filossera nei vigneti.

Fig. 4 – Mappa delle miniere di ferro elbane (1880)

A conferma di ciò, l’aumento consistente del fenomeno migratorio agli inizi degli anni ’80 del XIX secolo resta fortemente confinato alla popolazione dei comuni occidentali, più lontani dalle miniere e di conseguenza meno impegnati nell’attività estrattiva.


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[4] Passata dalle 633 unità del 1866 alle 1,180 del 1895, con un massimo di 1,546 nel 1873 (Fonte RSM)

Il nuovo contratto dell’Amministrazione Cointeressata

Con l’approssimarsi della scadenza della Cointeressata (30 giugno 1881), sale l’interesse del mondo imprenditoriale per le miniere elbane.

A tutti appare chiaro che qualunque progetto di siderurgia a ciclo integrale competitivo su scala internazionale non avrebbe fatto molta strada, se messo in atto rinunciando in partenza all’utilizzazione del minerale di ferro dell’Elba.

Dei progetti presentati per lo sviluppo delle miniere elbane, tre meritavano particolare attenzione e tutti e tre prevedevano la realizzazione di uno stabilimento siderurgico di almeno 30,000 tonnellate annue.

Tutti questi progetti, tuttavia, rimarranno sulla carta e nel 1881 alla Cointeressata subentra, come affittuario per tre anni, la Banca Generale, uno dei più importanti istituti di credito, non nuovo a iniziative nel settore siderurgico, avendo partecipato fin dal 1872 alla Società per l’Industria del Ferro, trasformatasi nel 1880 in Ferriere Italiane.

Scaduto il periodo di affitto, l’asta pubblica per l’assegnazione della concessione delle miniere elbane va deserta e, dopo un ulteriore anno di proroga, nel 1885 alla vecchia affittuaria viene affiancata la Società Veneta per Imprese e Costruzioni Pubbliche, la stessa che aveva promosso la nascita delle acciaierie a Terni.

Tuttavia, la nuova configurazione della compagine affittuaria non produce la svolta sperata, soprattutto nel campo della riduzione dell’esportazione e del conseguente maggiore uso interno dei minerali elbani; probabilmente, la mossa della Veneta e della sua collegata Terni mirava più a stabilire un controllo sulle materie prime in modo da bloccare l’ascesa di qualche pericoloso concorrente che a rilanciare l’attività mineraria a supporto della siderurgia nazionale.

Di conseguenza, nel 1888, il Ministro delle Finanze Agostino Migliani risponde negativamente alla richiesta dell’Amministratore Delegato della Veneta, Vincenzo Stefano Breda, volta a ottenere in forma esclusiva la disponibiltà del minerale elbano.

È necessario, quindi, ricorrere a una soluzione interlocutoria, che viene trovata a livello locale affidando, per il periodo 1888-1897, la gestione del giacimento a Giuseppe Tognetti, notabile elbano, senza che, peraltro, la situazione si modifichi di tanto, restando il ricorso all’esportazione un comodo approdo [5] in assenza di alternative sicure, che sarebbero state rappresentate dalla realizzazione di un progetto integrato di sfruttamento del minerale estratto in uno o più impianti siderurgici capaci di produrre una quantità di ghisa stimata in 30,000÷35,000 ton/annue.

In mancanza di ciò, l’attività produttiva delle miniere elbane non riesce, quindi, a decollare, ma alla fine del XIX secolo gli effetti coordinati di una congiuntura economica internazionale particolarmente favorevole e di una decisa azione di risanamento, soprattutto in campo bancario e finanziario, nonché i sempre più solidi legami con la Germania guglielmina, contribuiscono a disegnare un orizzonte meno cupo.

Così, dopo anni di discussioni intorno alla stesura di un capitolato di appalto che aprisse finalmente la strada all’utilizzazione del minerale di ferro in Italia, nel febbraio 1897 il Ministero delle Finanze, Direzione generale del Demanio, pubblica un documento con la seguente intestazione: Capitolato per l’affitto delle Regie Miniere dell’isola d’Elba e delle Fonderie di Ferro in Follonica.

Sintetizzando, il nuovo Capitolato stabiliva che:

Fig. 5 - L’avviso di approvazione del contratto di affitto delle miniere elbane (GU 154/1897)

La relativa gara d’appalto si svolge a Livorno il 12 maggio 1897 e viene vinta da Ugo Ubaldo Tonietti (GU n. 154 del 5 luglio 1897, fig. 5), subentrato come concessionario già nel 1894 alla morte del padre Giuseppe.

Tonietti, che ha al suo fianco Pilade Del Buono nella duplice veste di ex direttore del giacimento e di rappresentante politico degli interessi isolani, offre come canone di affitto per il minerale destinato all’esportazione lire 7.25, una cifra molto elevata che poteva trovare giustificazione solo nella volontà di sviluppare un’attività di trasformazione, volta alla piena e fin troppo ritardata utilizzazione del minerale di ferro in Italia. 

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[5] L’esportazione del minerale passa da un tasso medio del 40.4% nel periodo 1851÷1859, all’84.5% tra il 1859 e il 1881, fino al 98.4% tra il 1881 e il 1897, in gran parte verso la Gran Bretagna (49%) e gli Stati Uniti (37%).

La nascita dell’ILVA

Il 1° giugno 1897 viene ufficializzata la concessione al Tognetti, che il 19 gennaio aveva già costituito la Società Anonima Alti forni, Fonderie e Acciaierie di Piombino «con lo scopo di costruire ed esercitare uno o più altiforni per la fabbricazione della ghisa ed una fonderia di tubi a pressione per acqua, gas ed altre funzioni».

Due anni dopo, il 29 luglio 1899, a Genova viene costituita la “Elba società anonima di Miniere e Alti Forni”, con durata fino a tutto il 1925 e la partecipazione della banca genovese Credito Italiano, il gruppo siderurgico ligure Raggio e alcuni industriali metallurgici franco-belgi capeggiati da Eugene Schneider, al tempo a capo del colosso siderurgico francese Creusot.

L’articolo d’apertura dell’atto costitutivo stabiliva che la società aveva per scopo «l’industria metallurgica e specialmente l’affitto delle miniere dell’isola d’Elba e l’impianto di altiforni nell’isola stessa o altrove» e i sottoscrittori si impegnavano, con atto firmato il 17 luglio, a non partecipare per almeno 10 anni ad altre imprese italiane per la lavorazione del ferro.

Il capitale sociale, fissato in 15 milioni ed estensibile a 25, era suddiviso in 60,000 azioni possedute da 26 sottoscrittori, tra cui i maggiori erano: Credito Italiano (31.1%), Ditta Carlo Raggio (11.0%), Caisse Commerciale (Bruxelles, 6.7%), Credit General Liëgeois (6.6%), Ditta F. G. Pavoncelli (Napoli, 5.3%), Società Prodotti Chimici ed Elettrochimici (Bruxelles, 5.0%), Ditta I. e V. Florio (Palermo, 4.7%), Eugene Schneider (3.3%), Ditta Schneider et C. (Le Creusot, 3.3%), Crédit Anversois (Anversa, 3.3%).

Il 5 novembre 1899 la nuova società, alla cui presidenza è chiamato il Presidente dello stesso Credito Italiano, Giuseppe Filippo Durazzo Pallavicini, definisce con il Tonietti il passaggio del contratto di appalto delle miniere per la somma ufficiale di 550,000 lire .

Meno di un anno dopo, il 20 ottobre 1900, si svolge a Lucerna la riunione che decide la costruzione dello stabilimento siderurgico di Portoferraio, che entra in funzione nel 1902 garantendo la svolta necessaria per la gestione diretta del minerale estratto, la cui esportazione si contrasse drasticamente nel giro di una decina di anni, da oltre l’80% del 1900 a meno del 30% del 1911.

Nel maggio 1907, tra il Regio Demanio e la società Elba vennero concordate alcune modifiche al capitolato del 1897, tra cui l’aumento del limite massimo di escavazione a 450,000 tonnellate annue e il divieto di vendita del minerale all’estero.

Tali modifiche si rendevano necessarie poiché, nel primo decennio del XX secolo, la produzione delle miniere elbane era drasticamente aumentata, passando dalle 230,386 tonnellate del 1900 alle 532,671 del 1910 (tab. 1).

Stante l’assenza di importanti progressi tecnologici [6] e considerata anche la sostanziale invarianza della manodopera, oscillante tra un minimo di 1,389 e un massimo di 1,651 (tab. 1), il grande aumento della produzione (+ 131.21%) si doveva quasi esclusivamente all’accresciuta produttività della manodopera.

Solo dal 1908 si cominciano a introdurre alcuni miglioramenti tecnico-organizzativi consistenti in: quattro pontili metallici, con capacità di carico 200 ton/ora, per il caricamento delle navi (2 alla miniera Calamita, 1 a Rio, 1 a Rio Albano), due funicolari e due piani inclinati a doppio binario nelle miniere di Rio e Rio Albano.

Tornando all’impianto siderurgico di Portoferraio, la scelta che porta a individuare tale ubicazione vede confrontarsi due gruppi, sostenitori di opzioni alternative:

L’opzione elbana, risultata vincente, si rivelò alla lunga un errore, come sottolineò Oscar Sinigaglia nel secondo dopoguerra, al momento della formulazione del piano per la rinascita della siderurgia italiana a ciclo integrale che prese il suo nome: «Si commise allora il primo errore tecnico, che doveva poi pesare per decine e decine di anni sulla siderurgia italiana. Si decise, cioè, di costruire gli altiforni a Portoferraio, senza rendersi conto che non vi era spazio sufficiente e quindi possibilità di crearvi uno stabilimento siderurgico completo e moderno che arrivasse sino ai laminati, e che un’isola non era un posto adatto come grande centro di produzione». 

La costruzione del nuovo complesso, ubicato nell’area delle ex saline di S. Rocco, comprendeva:

La mancanza di un impianto per la produzione dell’acciaio, causata dal limitato spazio disponibile nell’area elbana [7], si dimostra presto troppo limitante per lo sviluppo complessivo del progetto elbano, tanto che già nel 1906 si dà avvio a una serie di ampliamenti comprendenti la costruzione di un terzo altoforno e l’impianto di un’acciaieria dotata di due convertitori Bessemer.

Nonostante il nuovo potenziamento, che consentirà dal 1909 una produzione di ghisa mediamente superiore alle 150,000 tonnellate (tab. 1) e di acciaio per quasi 70,000 tonnellate nel 1910, non si trattava ancora di un impianto a ciclo integrale poiché, per la cronica mancanza di spazio, non si poteva costruire il laminatoio. I lingotti d’acciaio dovevano, pertanto, essere raffreddati, imbarcati sulle navi e trasportati a Savona dove, finalmente, la lavorazione sarebbe stata completata, con gli evidenti aggravi sui costi di produzione dell’acciaio.

Nel frattempo, la costituzione della Società Elba e la costruzione dell’impianto siderurgico di Portoferraio avevano fatto da catalizzatore di un processo di riorganizzazione del sistema siderurgico italiano, che, molto schematicamente, può essere così descritto:

 

Il 1905 è, dunque, l’anno nel quale inizia a profilarsi la concreta prospettiva di un’intesa tra i gruppi siderurgici rivali, per il controllo di un mercato nazionale in cui la domanda alimentata dalle amministrazioni statali continuava a prevalere largamente su quella degli operatori privati.

Nonostante i vantaggi impliciti in una condizione oligopolistica, la costituzione di un vero e proprio cartello, cui nel volgere di pochi anni sarebbe entrata a far parte anche l’impresa piombinese dei Bondi, non avrebbe però evitato la successiva crisi, per l’assenza di politiche di razionalizzazione produttiva che avrebbero richiesto il rafforzamento degli impianti a ciclo integrale (Piombino, Bagnoli) a scapito di quelli per varie ragioni incompleti (Portoferraio, Follonica [9]), i quali, invece, continuarono a sopravvivere grazie al sistema di garanzie previste dall’accordo.

La crisi comincia a manifestarsi presto, già a partire dal 1906, trovando solo nel giugno 1911 - dopo anni di proposte, controproposte, accordi saltati, pressioni politiche - una provvisoria soluzione con l’intervento della Banca d’Italia, che promuove un accordo consortile tra le sei grandi aziende siderurgiche affidando all’ILVA, in quanto già partecipata da cinque delle sei aziende, la gestione degli stabilimenti delle altre società.

Dall’accordo, oltre ad alcuni impianti minori appartenenti alle Ferriere Italiane, vengono però escluse le miniere di ferro dell’isola d’Elba, che avevano ormai perso quella posizione di centralità nella questione siderurgica nazionale detenuta sino a qualche anno prima.

Per la società Elba ha così inizio un lento ma inarrestabile declino, che non casualmente coincide con le vertenze sindacali dell’estate e autunno 1911; anche per l’impianto di Portoferraio, passato in esercizio al Consorzio ILVA, comincia un percorso produttivo, complementare rispetto al più generale assetto del nuovo gruppo, che si sarebbe concluso solo trent’anni più tardi.

Lo scoppio della 1a guerra mondiale provoca, naturalmente, un aumento della produzione e sia le miniere che lo stabilimento di Portoferraio vengono dichiarati “impianti ausiliari” allo sforzo bellico nazionale (Decreto n. 1 del 4 settembre 1915).

Soprattutto nelle miniere l’incremento produttivo è particolarmente consistente; il quantitativo complessivamente scavato negli anni di guerra supera infatti i 2.7 milioni di tonnellate, con il massimo storico nel 1916 con 826,801 tonnellate (+55.22% rispetto al 1910), mentre i livelli occupazionali si mantengono sui livelli del periodo prebellico (ca. 1,700 occupati).

Tab. 1 - Produzione e occupazione delle miniere elbane 1900÷1910 (Fonte Lungonelli, 1997)

Fig. 6 - Impianto di Portoferraio: altoforno e recuperatori Cowper in allestimento (Lungonelli, 1997)

Fig. 7 - Art. 17 della Legge 351 (GU 166/1904)

A Portoferraio, invece, l’andamento produttivo è decisamente più modesto e in nessuno degli anni di guerra si raggiungono i livelli toccati nel 1912 con la fabbricazione della ghisa al coke (167,765 tonnellate); inoltre, nel corso del 1917 si decide di sospendere in via definitiva l’attività dell’impianto Bessemer entrato in funzione nel 1909.

Terminato il conflitto, la situazione di crisi si ripresenta e il sistema siderurgico torna ad essere preda delle convulsioni prebelliche, alla ricerca di un assetto produttivo e organizzativo efficiente.

In questo frangente il protagonista è Max Bondi, leader dell’azienda piombinese, che nell’ottobre 1917, con un’abile manovra di borsa e l’appoggio di Arturo Luzzatto, Amministratore delegato di Ferriere Italiane, riesce a portare l’ILVA sotto il controllo della Piombino.

L’11 luglio 1918 nasce l’ILVA Alti Forni e Acciaierie d’Italia, volta a incorporare le imprese partecipanti al vecchio consorzio.

La Società Elba, tuttavia, continua a rimanere autonoma, mentre per lo stabilimento di Portoferraio si decide la prosecuzione della formula di impianto “in esercizio”, abbinato al nuovo organismo societario così come era avvenuto nel periodo del Consorzio ILVA.

Sorta e sviluppatasi più per soddisfare gli interessi e le ambizioni politiche del Bondi, la nuova società entra, però, rapidamente in crisi proprio quando si profila una fase di profonda modificazione del mercato interno, in cui diminuisce la domanda delle amministrazioni statali (in particolare quella delle ferrovie) e dei cantieri navali, mentre aumenta la richiesta di profilati per l’edilizia, di laminati di largo uso commerciale, di acciai di qualità e speciali nonché di pezzi per la meccanica leggera e la produzione di beni strumentali.

Tutto ciò sposta il baricentro del sistema siderurgico italiano dalle vecchie aziende alle acciaierie dell’Italia padana (Falck) e alle grandi imprese meccaniche come Fiat e Breda, divenute autoproduttrici di acciaio.

Naturalmente, questo nuovo quadro pesa in particolare su Portoferraio, che non è più solo un impianto incompleto e poco efficiente, ma è anche inserito in un sistema aziendale non più egemone.

Per le miniere, alla situazione di crisi si somma la preoccupazione legata alla scadenza nel 1922 del contratto di appalto con il Ministero delle Finanze, scadenza che viene però prorogata di due anni.

Il nuovo appalto è vinto dalla Società Concessionaria delle Miniere dell’Elba, costituita a Livorno il 18 giugno 1924, ma trasferita a Torino nel novembre dello stesso anno, avente un capitale di 10.4 milioni di lire, paritariamente suddiviso tra le società Elba e ILVA.

La nuova società riduce drasticamente il numero degli occupati, che dalla fine degli anni ‘20 e per tutti gli anni ‘30 si mantenne intorno alle 700 unità.

Nel 1931 la società Concessionaria cessa di esistere e fino al 1939 le miniere passano in gestione all’ILVA, nel quadro delle concentrazioni societarie che porteranno anche all’assorbimento della Società Elba. 


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[6] Si consideri, ad esempio, che l’energia elettrica in miniera venne introdotta solo nel 1912 e sino al 1909 la ferrovia a scartamento ridotto della miniera più importante, quella di Rio, utilizzò la trazione a cavalli

[7] Come è già stato sottolineato, la limitata disponibilità di spazio fisico per poter costruire un impianto siderurgico a ciclo integrale è stata sempre un elemento forte di quanti considerarono la scelta di Portoferraio come un errore strategico.

[8] Ilva è il nome romano dell’Elba, a causa della popolazione composta in maggioranza da liguri, chiamati ilvates.

[9] Il vecchio stabilimento di Follonica produceva ghisa a legna, con costi di produzione elevata e rendimenti bassi; inoltre, trovandosi in zona malarica l’attività in estate era interrotta.

Il Piano Sinigaglia per il rilancio della siderurgia italiana

Tra il 1932 e il 1937, avvengono tre fatti importanti che condizioneranno il futuro della siderurgia italiana:

Con la nascita della Finsider prende avvio il processo di specializzazione delle aziende siderurgiche confluite nell’IRI, che nel 1939 porterà alla creazione di due società distinte per il settore estrattivo: la mineraria siderurgica Ferromin e le ricerche minerali Rimifer, alle quali vengono ceduti, rispettivamente, l’esercizio delle miniere e i permessi di ricerca.

Con lo scoppio della 2a guerra mondiale le attività estrattive, dapprima rilanciate grazie alle richieste del mercato indotte dalla guerra stessa (ca. 500,000 tonnellate estratte nel 1941), sono successivamente ridotte anche a causa dei numerosi bombardamenti cui fu sottoposta l’isola. Uno soprattutto, quello del 19 marzo 1944, provocherà gravissimi danni allo stabilimento di Portoferraio, che occupava circa 1,500 addetti, per cui l’ILVA decide di procedere alla sua definitiva chiusura, con gravi problemi sull’occupazione locale, che già doveva sopportare i disoccupati reduci della guerra e i marittimi che avevano perso il lavoro per la distruzione della flotta di trasporto. Indipendentemente dalla contingenza cui era dovuta, la chiusura dell’impianto di Portoferraio ben si inquadrava all’interno del già citato piano di riorganizzazione e rilancio della siderurgia italiana promosso da Finsider nel 1948.

Tale piano prevedeva «il superamento di tutte quelle resistenze che nei decenni precedenti avevano ostacolato l’attuazione di una grande siderurgia a ciclo integrale per la produzione di acciaio a basso costo. Esso muoveva dalla consapevolezza che si potesse ribaltare il tradizionale svantaggio italiano dovuto alla mancanza di materie prime, a condizione che la produzione venisse concentrata in un limitatissimo numero di impianti, tecnicamente validi e localizzati sul mare. La sua attuazione prevedeva inoltre la specializzazione dei tre grandi complessi a ciclo integrale, concentrando i prodotti cosiddetti ‘lunghi’ (profilati, rotaie, tondo, vergella) nei due stabilimenti ILVA di Piombino e Bagnoli, mentre alla Cornigliano (Genova) veniva riservata la produzione dei laminati ‘piatti’ (lamiere, coils, banda stagnata). Era soprattutto l’impianto genovese a dover recepire quanto di meglio era emerso nel settore in campo internazionale tra le due guerre, in particolare i nuovi metodi di produzione sperimentati negli Stati Uniti mediante l’impiego di grandi treni continui per l’ottenimento di laminati in nastro (coils), destinati all’industria manifatturiera e a quella automobilistica. La Fiat e il progetto vallettiano di sviluppo della motorizzazione privata erano infatti i soggetti che avrebbero garantito l’attuazione del piano attraverso un imponente contratto di fornitura» (Ranieri, 1985).

Per tutti gli anni ’50 del XX secolo, l’ILVA attua un imponente opera di ricostruzione e di ampliamenti dei suoi stabilimenti, sostenendo lo sviluppo economico e industriale italiano.

Nel 1961 incorpora la Cornigliano S.p.A. (fondata nel 1951 a Genova), dando vita al gruppo Italsider.

Nel 1965 viene inaugurato il nuovo stabilimento di Taranto, che costituirà il “quarto polo siderurgico”, dopo quelli di Cornigliano, Piombino e Bagnoli, su cui s’impernierà l’attività dell’Italsider nei successivi decenni.

Nel 1983, durante la crisi del mercato dell’acciaio, l'Italsider ha numerose traversie economico-finanziari fino alla liquidazione volontaria e al cambio di nome in “Nuova Italsider”.

Nel 1988, nell’ambito del risanamento delle attività siderurgiche dell’IRI, viene costituita a Roma la ILVA S.p.A., in cui confluiscono gli impianti efficienti e le produzioni destinate a settori profittevoli che originariamente facevano capo alla Finsider.

Infine, nel 1993 l’ILVA si scinde in due società - la ILVA laminati piani, venduta nel 1995 al gruppo Riva, e la Acciai speciali Terni, ceduta nel 1994 alla società italo-tedesca ThyssenKrupp - ed è posta in liquidazione.

Per quanto riguarda le miniere, che nel 2° dopoguerra occupano ancora un migliaio di addetti, anche su di esse si abbatte la crisi, con una produzione che nel 1946 scende a 38,000 tonnellate.

Fig. 8 - Oscar Sinigaglia, ispiratore del Piano per l'industria siderurgica italiana (1948)

Fig. 9 - Bombardamento di Portoferraio (19 marzo 1944)

In queste condizioni la Ferromin rifiuta inizialmente di investire ma, all’inizio del 1950, a Vigneria vengono avviati i lavori per il trattamento della pirite nella laveria detta “La Bisarca”, costruendo una teleferica per portare il minerale direttamente dal cantiere di estrazione al sito di trattamento.

La scadenza delle concessioni [10] assegnate alla Ferromin, inizialmente prevista nel 1960, è prorogata al 1970, mentre continuano, peraltro, i segnali di crisi produttiva, acuiti dal contrasto che andava crescendo tra l’attività estrattiva e lo sviluppo di una vocazione turistica dell’isola.

Dal gennaio 1971 una convenzione decennale attribuisce le concessioni alla società Italsider, del gruppo Finsider, fino al dicembre 1980.

Con il perdurare della crisi del settore, non più competitivo nel mercato internazionale, sia come qualità [11] che costi, si giunge così alla dismissione delle miniere, che nei vari periodi storici avevano prodotto una quantità di minerali di ferro stimata in circa 50 milioni tonnellate.


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[10] Le concessioni assegnate a Ferromin sono: Rio, Rio Albano, Calamita, Ginevro e Sassi Neri

[11] In merito alla qualità del minerale, vi erano problemi legati al tenore di zolfo e alla presenza di altre impurità, che non permettevano l’uniformità richiesta al minerale fornito alla siderurgia nazionale, che necessitava di una bassa variabilità di sostanza utile.

Bibliografia