Le stragi naziste del 4 luglio 1944

Dopo l’8 settembre 1943 molti dei minatori del bacino lignitifero scelgono la via della montagna, entrando nelle due formazioni partigiani operanti nell’area: le compagnie “Chiatti” e “Castellani”, entrambe inquadrate all’interno della 22a bis brigata “Vittorio Sinigaglia”.

Quando la brigata decide di spostarsi in direzione di Firenze, la “Chiatti”, composta prevalentemente da giovani minatori, sceglie di rimanere nell’area di origine per difendere le miniere e accelerare la liberazione del territorio, rendendolo insicuro agli occupanti tedeschi con azioni di sabotaggio e attacchi contro piccoli reparti isolati e favorendo così una più rapida avanzata delle forze alleate.

Il 29 giugno 1944 un operaio della miniera viene sequestrato e torturato: alla fine cede, confermando la presenza di partigiani sul luogo e fornendo informazioni sui boschi in cui sono rifugiati.

Per l’esercito tedesco le informazioni ricevute sono la molla per far scattare l’operazione contro i civili: il 3 luglio le truppe, composte da 500 a 800 soldati, si accampano nei pressi di Santa Barbara, in attesa di iniziare l’operazione che si prevede articolata su tre fronti: Castelnuovo e Massa Sabbioni, San Martino, Meleto.

Alle 6 del mattino del 4 luglio, Meleto viene accerchiata con un movimento a tenaglia: i soldati iniziano a rastrellare indiscriminatamente i civili di sesso maschile e li conducono al monumento ai caduti della prima guerra mondiale, nel centro del paese. Nessuno dei civili sospetta cosa stia per succedere, in molti sono convinti di essere stati radunati per un controllo dei documenti. Intanto, il rastrellamento continua finché l’assembramento diventa troppo vasto per essere gestibile.

Si decide, quindi, di dividere i civili in 4 gruppi e di condurli in 4 aie alle estremità del paese per essere fucilati: in pochi minuti, senza un processo, senza una spiegazione, 93 civili perdono la vita.

Dopo aver incendiato i luoghi del massacro, i soldati tedeschi si allontanano velocemente.

Quasi contemporaneamente a Castelnuovo dei Sabbioni, a 4 km di distanza, si consuma un altro massacro: gli abitanti vengono radunati tutti in piazza 4 Novembre, ai piedi di un’alta muraglia sopra cui corre la strada che porta alla chiesa nella parte alta del paese, il cui parroco, don Ferrante Bagiardi, è fra i rastrellati, prelevato direttamente nella canonica.

«In discesa, lungo il pendio della strada, e già avverte la marea di sgomento e terrore che sale verso di lui dalla piazza sottostante, dove i Tedeschi stanno radunando gli uomini del paese. Tutti quelli che riescono a scovare: chi ancora fra il sonno, stupito e ignaro; chi ancora fiducioso nelle intenzioni del nemico; ... Non esistono le parole che dicono quanto terrore si nasconde nel cuore umano, quando l’ora si avvicina. Sono tanti quegli uomini, e ancora ne arrivano. Composti e disperati; increduli e spaventati… Don Ferrante è con loro ... Gli si stringono attorno i tanti uomini che i Tedeschi respingono contro il muro addossato alla piazza… Passa una suora dell’asilo. Le chiede di ‘consumare’ le Ostie consacrate per evitare una probabile profanazione. La religiosa preleva il Sacramento dall’altare. Lo consegna a don Ferrante… È il momento. È l’ora. Gli uomini, che lui conosce forti nel pericolo, sono adesso fragili e smarriti in un’oscura solitudine. Lo guardano e un disperato perché aleggia nei loro occhi. Cercano la speranza. Don Ferrante offre il conforto del perdono. Ognuno si inginocchia e riceve la Comunione. In quel momento di pianto e terrore incontrano Cristo che si immola con loro. Quella bianca particola è la speranza della vita eterna. È Dio che si avvicina e li prende per mano nell’ora estrema. È la forza divina che sorregge la fragilità umana. Don Ferrante è con loro in un ultimo grande abbraccio dell’anima. Padre con i figli, fratello con i fratelli, uomo fra gli uomini. Sono in tanti, stretti l’uno all’altro, nell’ultimo respiro, nell’ultimo sguardo verso il cielo, che d’un tratto si fa terribilmente lontano e incredibilmente vicino, mentre la mitraglia nemica impazzisce su di loro. A raffica. Spietata, inghiotte la luce, i colori, la vita» (Bonaccini, 2015).

Vengono sistemate 2 mitragliatrici a 18 metri dai civili in fila contro il muro. In quegli attimi concitati in 4 riescono a salvarsi gettandosi dallo strapiombo a lato della piazza. Il soldato tedesco dietro alla mitragliatrice si rifiuta di sparare. Viene giustiziato sul posto e sostituito. Le mitragliatrici lasciano a terra 68 cadaveri a cui si aggiungono altri 8 civili uccisi per aver tentato la fuga durante il rastrellamento. Dalle case vicine vengono requisiti mobili e gettati sui corpi dei cadaveri accendendo un falò il cui fumo si intravede a chilometri di distanza.

Una settimana dopo, l’11 luglio, in località Màtole saranno trucidati dai tedeschi altri 12 civili.

«Ho seppellito aiutata dalle altre donne, gli uomini delle Màtole trucidati dai tedeschi. Non so come e dove abbiamo trovato la forza per farlo. Erano i nostri familiari, i nostri vicini di casa quei corpi riversi nel sangue. Vincendo la disperazione, li raccogliemmo uno ad uno e pietosamente li adagiammo su delle scale di legno a mo’ di barella. Nell’ora del dolore ciò che contava era sottrarli ad un ulteriore oltraggio così come, purtroppo era accaduto in piazza [1]…» (Bonaccini, 2015).

Complessivamente, in quella settimana furono uccisi 191 civili; dieci giorni dopo, il 21 luglio, il 2/4 Hampshire Regiment della 4th British Division entrò in Castelnuovo liberandola.

Solo nel 2007, 63 anni dopo, è stata fatta chiarezza sugli autori delle stragi (fig. 1): Filippo Boni [2], ricercatore di Storia contemporanea all’Università di Firenze, ha esaminato la documentazione raccolta dagli inglesi subito dopo la liberazione della zona, trasmessa al governo italiano e colpevolmente abbandonata negli armadi fino al 1994, arrivando a concludere che «...Fino agli anni Novanta si pensava che le stragi fossero opera delle SS. In realtà la maggior parte dei 900 soldati che quella mattina circondarono il paese facevano parte del battaglione Hermann Göring, un’unità fondata dall’ex ministro di Hitler già negli anni Trenta e addestrata da subito alla politica del terrore contro comunisti, ebrei, omosessuali. Erano soldati della Wehrmacht, quindi, in quel periodo alle dipendenze del 76° Panzerkorps… Per decenni ha prevalso la teoria della rappresaglia, che attribuiva ai partigiani la colpa più grande nell’aver provocato i tedeschi. Dall’inchiesta invece viene fuori che queste stragi erano pianificate da tempo: ci sono linee strategiche ben precise che i tedeschi seguivano, quella di Cavriglia era la linea Karin, fondamentale per la ritirata della Wehrmacht, che infatti avvenne solo una settimana dopo il massacro. Naturalmente ci furono anche dei collaborazionisti locali: gli inglesi non erano interessati agli italiani, quindi la loro inchiesta non fa luce su questo punto, ma nelle parrocchie ho trovato i nomi di alcuni italiani, membri di una banda di camicie nere di San Giovanni Valdarno, che fornirono ai tedeschi una sorta di supporto logistico. Molte di queste persone sono state processate e condannate, ma sono uscite quasi subito con l’amnistia Togliatti e hanno avuto una vita relativamente normale, anche se con molti scheletri nell’ armadio».


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[1] Si riferisce all’eccidio del 4 luglio in piazza IV Novembre a Castelnuovo dei Sabbioni.

[2] Filippo Boni: Colpire la comunità 4-11 luglio 1944 Le stragi naziste in terra d’Avane (2007)


Fig. 1 - La copertina del libro di Boni