Noia

F

u in quell'estate dei miei sette anni che imparai cos'è la noia. Ma proprio la noia mortale, quella che ti stringe alla gola, che ti fa piangere.

Ero andata con mia nonna a casa di lontani parenti, in campagna. Non c'erano altre case nel raggio di miglia e miglia. La coppia che ci ospitava non aveva figli, né animali. Avevano un vivaio, e per qualche giorno mi trastullai con le piantine, eleggendone qualcuna a mia figlia adottiva e prendendomene cura come mi avevano insegnato. Ma anche quella attività piuttosto ripetitiva, di cui peraltro non avrei visto i frutti, ben presto mi stancò.

Mi ero portata dei libri, ma li avevo finiti tutti la prima settimana, avendo sottostimato il tempo che avrei avuto a disposizione per leggere.

Partecipare alle lunghe conversazioni di mia nonna e mia "zia" (o prozia o quel che era) era pressoché impossibile: vertevano su un interminabile elenco di persone a me sconosciute. Erano morte? Erano vive? Erano in salute? E se malate, quali acciacchi avevano? Da una persona, per gemmazione, si passava all'altra, e non finivano mai. Le poche volte che si parlava di qualcosa di interessante (amori, tradimenti, figli scapestrati e delinquenti) mi mandavano via.

Così, passavo ore a contemplare la pozza acquitrinosa che mia nonna aveva pomposamente definito lago per convincermi ad andare con lei. Mi annoiavo talmente che avevo persino vinto il mio naturale ribrezzo nei confronti degli insetti, ed ogni tanto giocavo con loro, facendo finta che fossero di volta in volta alunni in una scuola, compagni di viaggio in qualche avventura, amichetti con cui giocare a nascondino. Vincevo sempre.

Un giorno, dopo pranzo, per rompere il sottofondo monotono del frinire dei grilli, del bombire degli insetti volanti e del chiacchiericcio delle due donne, cominciai a urlare con quanto fiato avevo in gola. Nonna accorse preoccupata, pensando che mi fossi fatta male. Mi trovò paonazza, gli occhi di fuori, i pugni chiusi agitati all'aria, ma nessun segno o ferita visibile. Mi misurò la febbre, ma niente. Così si tranquillizzò e tornò a chiacchierare con la sua parente.

Sconfitta, affranta, mi ritirai nel mio angolino in riva al "lago", sospirando. E cominciai ad immaginare una storia. Ne ricordo ben poco: una povera bambina orfana, che la nonna vende ad una coppia di agricoltori come lavorante, i soprusi che la poverina subisce, le disavventure, le lacrime, fino all'inevitabile lieto fine. Corsi in casa, presi la penna e il quaderno, e scrissi, scrissi, scrissi, finché la mano non mi fece male.

Il pomeriggio era passato e non me ne ero quasi accorta. Avevo scoperto l'Arma Fine di Mondo: da allora, non mi annoiai mai più.