Al funerale di nonna Cecilia, mia cugina Marina ed io fummo colte da un attacco incredibile di ridarella. Non mi ricordo perché, mi sembra che fosse arrivata una pioggia improvvisa e che una folata di vento avesse rovesciato e fatto volare un ombrello, che noi avevamo dovuto rincorrere tra i vialetti del cimitero. Comunque sia ridevamo. Ridevamo a crepapelle, senza riuscire a fermarci, ed il tutto cominciava ad avere accenti isterici, fino a che mio padre, Enzo, non disse, col solito tono pacato, ma autorevole ed ultimativo che lo contraddistingueva, "ma insomma, basta, smettete di ridere così".
Fino a che nonna è stata viva, tutti noi - cioè i suoi sei figli con le loro mogli e figli - per le feste natalizie ci riunivamo a casa sua.
Noi bambini, come da iconografia, attendevamo queste giornate con un'ansia quasi spasmodica, ma non per i regali, che all'epoca, almeno a Roma, si usava fare più alla Befana che a Natale e che comunque erano ben poca cosa. Ma per la festa in sé, che durava tre giorni (24, 25 e 26), ognuno con il suo specifico rito, e sconvolgeva il ritmo ordinario delle nostre esistenze. Ho detto rito, ma che nessuno pensi a qualcosa di religioso: la nostra era una grande festa familiare, che ben poco, se non nulla, aveva a che vedere con la Natività in quanto ricorrenza cristiana.
Il rito era fatto dei cibi e del loro susseguirsi sulla tavola, della tombola, dei giochi di carte, del fatto che noi bambini potevamo star svegli fin quando ci pareva, finché verso le due, le tre di notte di ciascuna di queste giornate lunghissime, stanchi, eccitati e sporchi, crollavamo tutti su un letto matrimoniale, dove si formava un groviglio inestricabile di corpi con i cappotti, le sciarpe, i foulard che vi erano stati poggiati in precedenza.
Le donne (già, funzionava così) traevano dalla cucina, che sembrava trasformata in cornucopia, ogni ben di Dio. A seconda dei giorni, spaghetti al tonno, fettuccine e brodi di gallina, abbacchio al forno e stracciatella, ragù e insalata di mare, alicette marinate, anguilla e baccalà. E poi i mitici frittiji: il fritto misto all'abruzzese che si mangiava, praticamente a tutte le ore, per tutti i tre giorni.
Quando nonna Cecilia morì, e Marina ed io avemmo il nostro attacco di ridarella, tutto questo cambiò. Non che smettessimo di festeggiare il Natale insieme, ma non fu più lo stesso. In primo luogo, non eravamo mai tutti, cominciarono ad esserci le prime defezioni.
E poi noi cugini avevamo cominciato a crescere e un po' non ne potevamo più della tombola, della famigliona, dei giochi di carte. Ed a quella prima morte di cui siamo stati consapevoli, ne sono seguite altre... E nel frattempo noi ci eravamo fatte le nostre proprie famiglie e "quel" Natale doveva essere conciliato con quello dei nostri mariti o mogli.
Era cambiato tutto, e soprattutto eravamo cambiati noi.
Eppure per anni, con pertinacia, abbiamo cercato di riprodurre quel miracolo, quel sovvertimento dell'ordine costituito. Benché non ne fosse rimasto nulla, se non l'idea che un tempo, sì, un tempo fosse stato possibile.