addì 6 maggio
tutto è nero
fondo precipitato
nero violento
nero
tutto
non c'è riparo di luce angolo
vermiglio o turchese
riflesso
niente
tutto converge al nulla
assassinati dalla vita,
siamo.
addì 7 maggio
la bambole gonfia, gonfiabile, gonfiata
la bambola è scoppiata
(non con uno schianto, s'ebbe a dire)
addì 8 maggio
oggi, addì 8 maggio, volevo scrivere:
ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole
ed è subito sera
poi m'ha colpito l'idea che fosse già stato scritto, o detto o chissà, magari immaginato dal mio ego ipertrofico e dolente, estroflesso, gettato su un altro e da lui ripetuto con diabolica precisione
un'eco attenta e distante con intensità e ritardo sufficienti per essere distintamente percepita
:
o-gnù-no-stà
così, sillaba per sillaba, accento per accento: o-gnù-no-stà
così, metafora per metafora, allitterazione per allitterazione, analogia per analogia, assonanza per assonanza.
così, metafora finale per metafora finale.
ah!
ergo, tu ed io, che siamo ognuno, che siamo soli, stiamo in questa stessa periclitante posizione: trafitti
io-tu
soli, insieme,
trafitti, insieme
non c'è altro da aggiungere, se non: la subitanea sera.
addì 9 maggio
**
E poi considerate questo:
io non sto io non vivo
sono presunta
ho occhi che ardono di un'altra luce
altra luce, altra luce
arde i miei occhi, buca le pupille
altra, altra
divora
tutto è niente per i non vivi
tutto cade e scompare
**
cerca Udiel tra i fili d'aquilone, mi dice Ferdinando
ed io lo cerco:
ma Udiel è morto, morto assassinato
dall'unica mano amica
non è più tra i non stanti, non vivi
non è più tra noi:
è stato arso, fu
Francisco Ruiz che non ti conoscevo
non ti conobbi mai
nemmeno una riga di te
adesso che fosti, so
**
Me canso, de despertar,
la luz me hiere cuando ver no quiero,
el viaje a Ítaca nada me ofrece. (*)
**
nessuno crede alle parole dei poeti
neanche loro credono
che ciò che scrivono sia vita
e così i non stanti, non vivi, non credenti
muoiono come tutti gli altri
e la bocca gli si riempie di terra
rossa terra umida in grana grossa
(*)Mi stanco, di svegliarmi,/la luce mi ferisce quando non voglio vedere,/il viaggio a Itaca nulla mi offre (Francisco Ruiz Udiel, "Lascia la porta aperta", Fili d'aquilone n. 22)
addì 10 maggio
domani, giorno del mio compleanno, un qualche ciarlatano ha previsto un terremoto catastrofico a roma, la città dove vivo. bene, così finalmente smentiremo il mio amato eliot: con uno schianto, finirà il mondo. cioè finirò io, il che è lo stesso, dal mio punto di vista, quindi da qualsiasi punto di vista possa ragionevolmente essere preso in considerazione. datemi la notte, datemi lo schianto: purché non un piagnisteo.
l'evento catastrofico e dirimente ha la splendida caratteristica di non dipendere da me, né da nessuno. non è come schiantarsi da soli o essere schiantati da qualcuno. per questo esercita quel suo singolare fascino, un'attrazione non poi tanto sottile e, quando accade, ci porta tutti davanti alle tv a contare i morti, e più ce ne sono, più sono simili a noi, meglio è.
in questo periodo giro in tondo. a volte vorticosamente, con un pennello e una tavolozza in mano - spargendo bellezza, penso io; macchie, pensano gli altri - ma pur sempre in tondo. non che io abbia una visione finalistica dell'esistenza, che pensi che se ne debba far qualcosa, perché qualcosa deve pur accadere, ma insomma, preferirei una bella curva un po' più movimentata: una paraboluccia, una versieretta, addirittura una iperbolina. tant'è. m'è capitato il tondo.
sono triste, dite? - chi dice? chi dice? ehi, c'è nessuno qui?! - sì, sono triste. cerca di stare serena, franca. ma la serenità non è un valore assoluto. se c'è un bombardamento ed io sono serena, vuol dire che sono pazza, non che ho capito come si vive. al massimo ho capito come si muore. anzi, ho capito che si muore.
allora vada per il tondo. tanto non ci posso fare niente. a meno che non ci sia lo schianto, indipendente da me, che disconnetta la curva perfetta, la apra all'infinito. cadere, cadere in quel punto di discontinuità. cadere. sì.
essere lo schianto.
addì 11 maggio
scuoti i capelli in una danza derviscia
lascia che frustino le vene del collo
come lame sottili taglino l'aria
spargano intorno vento di vita
ali di corvo, spine di rose!
muovi i tuoi fianchi, oscilla il bacino
alza i capezzoli, ruba il piacere
come una gazza nel nido degli altri
sazia la fame d'amore e di morte
uova d'argento, penne cobalto!
esponi la gola, ridi profondo
canta stonando canzoni d'amore:
bisogna vivere, scaldare il mondo
avere il coraggio del proprio cuore
:-)
addì 12 maggio
spossata dal frastuono dell'onda, percorsa dagli ultimi fremiti della marea calante - bianco risucchio della luna - sto. nuda, inerme cosa.
devo aver attraversato un mare, o lui me.
mi trascino sulla riva. la spinta delle braccia fatica a muovere il corpo pesante, molle d'acqua. eppure, si deve. cercare l'asciutto, il non impregnato.
devo aver attraversato un mare, o lui me.
dissi: «andrei ovunque». ed ora, ciò che fu me aggiunge: «se ci fosse un ovunque dove andare, se ovunque non fosse un punto di non ritorno.»
devo aver attraversato un mare, e lui me.
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