Quand'ero ragazzina, nella seconda metà degli anni '60, a Roma c'erano i baraccati. Abitavo a via Olevano Romano, una traversa della Prenestina. Le case erano nuove, avevano preso il posto di una serie di pratoni, proprio come nella canzone di Celentano sulla via Gluck.
Noi ragazzini - eravamo tantissimi, una pipinara, come si diceva: era l'epoca del boom demografico, nelle scuole si facevano i doppi e tripli turni - giocavamo prevalentemente per strada, ma anche allora non mancavano gli ammonimenti rispetto ad insondabili pericoli. La nostra bella casa nuova, infatti, affacciava su una discarica di laterizi, dove venivano sversati tutti i residui delle costruzioni che alimentavano il sacco di Roma, ed oltre quella c'erano le baracche della borgata Gordiani.
Avvicinarsi alle baracche, ci dicevano, è pericoloso: lì sono cattivi, ti menano per rubarti un nonnulla, bevono, rapiscono i bambini, dicono le parolacce, chiedono soldi...
Ma si sa, i ragazzini amano il pericolo, per cui noi, quando eravamo stanchi di giocare nella discarica (anche questa era una cosa vietata, ma tant'è. Era anche una fonte inesauribile di tesori: schegge di mattonelle luccicanti, pezzi di metallo, nascondigli infiniti), di esplorare il rudere che era servito da bunker durante la seconda guerra mondiale, ci spingevamo, pieni di adrenalina e di paura, verso il confine della borgata, ad osservare quella strana e pericolosa gente.
Vivevano in baracche di lamiera, con coperture di fortuna, cessi a cielo aperto, in mezzo alla sporcizia. Anche lì c'erano tantissimi ragazzini, che strillavano e giocavano tra la mondezza, ai panni stesi, alle carcasse di oggetti non identificati.
Parlavano lingue strane, da cui solo ogni tanto emergevano termini familiari: in genere parolacce in romanaccio, che noi ansiosamente apprendevamo. Erano la manodopera a basso costo del boom economico: gli uomini lavoravano prevalentemente nell'edilizia, le donne facevano le ore nelle case. Ciò non di meno venivano guardati con sospetto, come se fossero tutti ladri e prostitute e i loro figli - piccoli delinquenti dal destino segnato, che a scuola non si integravano e facevano a botte per un nonnulla.
C'erano effettivamente episodi di delinquenza: furti, accoltellamenti, persino omicidi. Ma soprattutto c'era la diffidenza per tutta questa gente venuta qui per togliere lavoro ai romani "veri", che popolavano le periferie, dimentichi del fatto che anche loro stavano lì solo da una generazione o due, arrivati durante il fascismo, quando Roma passò da circa 600.000 abitanti ad oltre un milione.
Ed anche i nuovi arrivati erano tutti italiani, ovviamente: venivano dal sud qui nella capitale a cercare fortuna. A loro si aggiungeva qualche romano espulso dalle zone centrali, ma erano pochi, ché si vergognavano a mischiarsi con quegli stranieri. E sì, non ci crederete, ma c'erano anche gli zingari.
Pian piano, verso la fine degli anni '80, le baracche scomparvero, sostituite dagli enormi quartieri popolari, dai palazzoni nudi e crudi che emergevano in mezzo al nulla, dalle borgate abusive sì, ma almeno fatte di case in muratura. Le persone che le abitavano ebbero diverse fortune, ma furono tutte assorbite nel calderone romano.
Adesso le baracche le ho viste rinascere, tra l'altro lungo il fiume Aniene, vicino a dove abito adesso, popolate di gente dalle lingue ancora più strane e accolta con la stessa, o ancor maggiore, diffidenza. Ma per chi non lo sapesse, glielo ricordo: anche lì negli anni '60 c'erano i baraccati, si chiamava il Borghetto di Sant'Agnese.