«Berhane, vieni qui.» «Arrivo, Firehiwot.»
Berhane è comparsa qualche giorno fa, sbucando da dietro una roccia. Un'apparizione. Il bel corpo di morbido cuoio levigato appena coperto da una tunichetta di lino grezzo. I lunghi capelli neri intrecciati. Mi ha guardato a lungo, poi è venuta verso di me, con passo sicuro. Le lunghe gambe danzavano per evitare i laghi di acido e teneva le braccia aperte, come un'equilibrista. Sembrava uno splendido fenicottero.
Io ero su Alemtsehay ormai da un mese, prima che Berhane comparisse. Solo, impegnato in una missione del PES - Programma di esplorazione spaziale.
Quanto silenzio c'era... Fino a quel momento non avevo incontrato nessuna forma di vita. Di nessun tipo. Portavo avanti la routine delle analisi. Niente da segnalare, se non lo sgomento che mi prendeva ogni notte rientrando nella navicella. Ero abituato alla solitudine, sì. Ma mai niente del genere. Qui su Alemtsehay non c'era nulla. Nulla. I miei passi risuonavano nel nulla. La testa mi rimbombava di silenzio. La musica e i film che mi ero portato dietro non aiutavano, anzi, aumentavano la sensazione di struggimento.
Poi è arrivata lei. L'unico essere vivente su questo pianeta primordiale. Da dove veniva? Chi era? Come era capitata lì? Tutte le domande tacquero all'improvviso non appena allungò la mano a toccarmi. Parlava una lingua che non conoscevo, ma ben presto capii che fekerte voleva dire amore. Da come lo sussurrava, da come lo urlava. Ci amammo con passione travolgente sin dal primo giorno. Lei mi chiamava Firehiwot, e mi disse di chiamarsi Berhane. Dopo un po', man mano che Berhane si impadroniva della mia lingua – non volle insegnarmi la sua, diceva che non era capace – seppi che il suo nome significava "mia luce". Mai nome fu più appropriato.
Alemtsehay era esattamente come doveva essere. D'altronde, cosa aspettarsi da un pianeta con quelle caratteristiche? Ancora giovane, preda dei bollenti spiriti del sottosuolo, dell'irrequietezza delle placche tettoniche, in cerca di una loro stabilità.
Non come la nostra cara, vecchia e stanca Terra. Terremoti ed eruzioni vulcaniche, lì da noi, sono ormai quasi solo un ricordo. Voi direte: meglio così. E sì, da un certo punto di vista è vero. Non fosse che questo corrisponde a un generale invecchiamento del sistema solare. Il sole, il nostro sole, sta continuando l'inesorabile corsa verso la fine della sua sequenza principale: appena qualche migliaio di anni, e sarà divenuto una gigante rossa.
Nonostante al singolo essere umano qualche migliaio di anni possa sembrare l'eternità, non è così, e nel governo mondiale c'era ancora qualcuno abbastanza lungimirante da far finanziare il PES.
Obiettivo principale: cercare un nuovo pianeta su cui far emigrare l'umanità.
Come si riuscirà a farlo, è ancora oggetto di studi e ricerche, ma intanto noi Esploratori siamo partiti. Ricordo ancora l'emozione del giorno del Decollo. Intorno la folla festante, a parte qualche isolata protesta dei soliti Fondamentalisti che non vogliono si cambi quello che ritengono essere il Destino dell'uomo. Il cielo azzurro, bellissimo, che grazie a noi, gli intrepidi esploratori con le loro tute dello stesso colore, conquistava una nuova dimensione di infinito. Le navicelle allineate, come tante frecce che puntavano verso il futuro. E poi il distacco dal suolo, la pressione tremenda, la liberazione dalla gravità.
Dopo sono entrati in funzione i meccanismi automatici di ibernazione, e non ricordo più niente, fino al risveglio. E adesso sono qui, a contemplare questo incredibile panorama dai colori chimici, segno dell'attività geofisica che scuote il pianeta.
A parte questa prevedibile sismicità, sembra perfetto. I primi, fondamentali parametri sono tutti rispettati: c'è aria respirabile, gravità ad 1 g, acqua. Adesso, sto verificando gli altri. Quanto tempo ci vorrà ancora? Poche settimane...
E dovrò lasciarla. Non c'è spazio sulla navicella per Berhane. Rimarrà sola, sola: lei che mi ha amato come nessun'altra mai, sola in questo mondo assurdo. Come potrò? Eppure dovrò farlo: non posso tradire la mia missione, la mia gente. Non posso. Ma ci penso continuamente. Inutilmente.
Poi, il momento arriva.
«Berhane, il mio lavoro qui è terminato.» Glielo dico ad occhi bassi, per non far vedere le lacrime. Lei sa cosa vuol dire. Mi sorride e risponde: «Firehiwot, hai fatto quel che dovevi fare. Non ti preoccupare per me, starò bene...». La mia luce... Eppure devo andare. Salgo sulla navicella col cuore in tumulto. Decollo. Fra poco sarà l'oblio dell'ibernazione, per fortuna. Mia luce, Berhane, fekerte....
.....
«Brava, Berhane.»
Sintayehu, colei che ha visto molte cose, la guarda con orgoglio. Lei si accarezza la pancia, che sta crescendo a vista d'occhio. Un nuovo nato, o forse due. Dopo centinaia di anni.
Gli uomini di Alemtsehay erano improvvisamente diventati sterili. Le antenate, dapprima incredule, poi inorridite, avevano dovuto rassegnarsi al fatto che non rimanevano più incinte. La popolazione del pianeta, gli asnaku, si era quasi estinta. Gli uomini erano come impazziti e si erano uccisi fra loro. Rimase solo un manipolo di donne, a cercare di salvare la stirpe, il loro patrimonio storico e culturale. Grazie all'ingegneria genetica erano andate avanti per un bel po', ma le scorte di sperma si stavano esaurendo. Avevano bisogno di nuovi geni, di nuova vita.
E improvvisamente era comparso lo straniero. Così simile a loro…. Berhane, il corpo snello di fenicottero appesantito dalla gravidanza, si concesse un sorriso. Ne era valsa la pena, di fare quello che aveva dovuto fare.
Missione compiuta!
Fine
Ringraziamenti: ringrazio Fulvio Musso (Full) per la consueta paziente lettura e per gli stimoli e suggerimenti (detto così sembra una cosa incruenta, invece ancora mi lecco le ferite...)