«Chi mi capisce, è bravo», scherza lei,
ma mica tanto, con quel guizzo nello sguardo
che accende a volte,
ma solo a volte, quando c'è qualcosa che vuol dire
ma non veramente, non davvero
se capite ciò che intendo.
eppure la sua storia è una storia comune,
niente che valga la pena di raccontare,
e però lei ha questo vizio,
come mangiarsi le unghie.
sapete di che parlo, no? lei scrive,
benedetta donna.
e cosa abbia in punta a quelle dita
che battono sulla tastiera,
dio solo lo sa. non ho mai capito
dove andasse a parare tutto questo spreco
di energie e cosa gliene venisse
a lei, a mettere in ordine sentimenti
come cassetti di biancheria, allineati pronti
ad essere ripresi. e se chiedo, risponde:
«qui c'è il mio primo amore, qui la morte di mia madre
e guarda, questo è il dolore della notte,
la paura del buio, la coscienza dell'assenza,
qui una passeggiata che facemmo
e qui c'è il mare, quel giorno bellissimo di febbraio
che la luce sembrava materia
e avevamo sguardi rilucidati a specchio».
ma solo lei lo sa, solo lei riconosce.
dice per non dire, benedetta donna
di-spiega per non far capire.
a volte mi stupisce l'inganno
perpetrato con fredda determinazione.
«credete di sapere e non sapete nulla,
io voglio solo scomparire». questo, ecco
questo sì, sarebbe parlare,
dire le cose come stanno veramente.
finalmente capiremmo, benedetta donna,
qual è il senso e quale l'idea dietro
l'agitarsi delle sue dita grassocce, quel
rimescolare, confondere, coprire.
«lasciami andare adesso, lasciami andare.
è tempo di dimenticare».
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