Omelia della II Domenica di Pasqua - Anno A
Vivere la fede e la carità alla luce del Cristo Risorto – La confessione
Questa seconda domenica di Pasqua è chiamata «Domenica in albis depositis», cioè «Domenica in cui si deponevano le vesti bianche» da parte dei neofiti che nella solenne Veglia di Pasqua avevano celebrato i sacramenti, dopo il lungo ed impegnativo catecumenato. Infatti nella notte di Pasqua gli adulti, con i loro figli, ricevevano dal vescovo il battesimo e subito dopo venivano rivestiti di una veste bianca. Ancora oggi, al termine del rito del battesimo dei bambini, si impone una veste bianca, «segno della nuova dignità» di figli di Dio.
Per un'intera settimana partecipavano alle riunioni della comunità ecclesiale indossando la veste bianca e poi la domenica la domenica successiva alla Pasqua, veniva deposta sull'altare, pubblicamente, a significare che cominciava la vita quotidiana, senza altra distinzione esterna particolare, conservando nella loro vita le caratteristiche spirituali che avevano avute con il sacramento della rinascita spirituale e che dovevano testimoniare per tutta la loro vita.
Questo particolare della deposizione è un richiamo anche per ciascuno di noi battezzati a vivere e testimoniare ogni giorno, nella vita quotidiana il nostro battesimo, vivendo con coerenza sincera e fedele gli insegnamenti del Vangelo, vivendo da risorti, con Cristo, come figli di Dio nella fede, nella speranza e nella carità. Per questo le letture di questa domenica ci richiamano a questo grande dono e a vivere le virtù teologali.
Gesù attraverso le sue apparizioni ci vuole rafforzare in esse come ai discepoli. Nel Vangelo di Giovanni (20, 19-29 ci racconta le apparizione di Gesù agli Apostoli riuniti nel cenacolo per rafforzare la loro fede e carità., soprattutto nell’apostolo Tommaso, incredulo e dubbioso
Il giorno di Pasqua Tommaso era assente alla prima apparizione e quando ritorna si rifiuta di credere che Gesù fosse risorto: « Se non vedo... e non metto il mio dito nel posto dei chiodi, e non metto la mia mano nel suo costato, non credo ». Non soltanto vedere, ma addirittura introdurre la mano nelle ferite. Gesù lo prende in parola. « Otto giorni dopo » Gesù ritorna e gli dice: « Metti qua il tuo dito, e guarda le mie mani; stendi qua la tua mano e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo, ma credente ». Il Signore ha compassione dell'ostinata diffidenza dell'apostolo e con infinita bontà gli offre le prove da lui pretese con tanta baldanza. Tommaso è vinto e la sua incredulità si scioglie in un grande atto di fede, di adorazione e di dedizione senza limiti: « Signore mio e Dio mio! ». C’è la professione di fede, nella divinità di Gesù e la sua fede sgorga non tanto dal vedere Gesù, ma da un grande dolore. Non è l'evidenza delle prove ma l'amore che lo porta all'adorazione e più tardi all'apostolato. La Tradizione dice che l'apostolo Tommaso morì martire per la fede nel suo Signore. Spese la vita al suo servizio.
I dubbi di Tommaso sono serviti per confermare la fede di coloro che più tardi avrebbero creduto in Lui. L'esprime molto bene san Gregorio Magno: «Attribuite a un caso puramente fortuito che quel discepolo chiamato da Gesù allora non fosse presente, che sentisse poi il racconto del fatto senza prestarvi fede, che, nel dubbio, costatasse visibilmente e solo allora credesse? Tutto questo non avvenne a caso, ma per un disegno di Dio. La bontà infinita del Signore dispose che quel discepolo, coi suoi dubbi, toccando sulle carni del Maestro le cicatrici, risanasse in noi le ferite dell'incredulità [...]. Inquesto modo quel discepolo dubitando e costatando divenne un testimone della verità della Risurrezione».
Questo episodio è anche un insegnamento prezioso per compatire e circondare di preghiera i dubbiosi e gli increduli, ricordando che «la carità di Cristo... spinge a trattare con amore, prudenza e pazienza gli uomini che sono nell'errore o nell'ignoranza circa la fede » (DH 14). Di fronte alle difficoltà occorre ricordare le parole di Gesù per trovare in esse il sostegno della fede, sicura perché fondata sulla parola di Dio, sul Vangelo ed è necessario che la nostra fede in Cristo cresca giorno dopo giorno, che impariamo a guardare agli avvenimenti e alle persone come Egli li guarda, che il nostro agire nel mondo sia animato dalla dottrina di Gesù. La fede quindi ci dà la vera dimensione degli avvenimenti, e ci permette di giudicare retta mente tutte le cose, senza il conforto di esperienze sensibili. Così la richiede Gesù: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che pur non vedendo, credono! » (Gv 20, 29). La lode del Signore riecheggia anche nella voce di Pietro commosso per la fede viva dei primi cristiani, i quali credevano in Gesù come se l'avessero conosciuto personalmente: «lui... sebbene non visto l’amate; [ ... in lui] ora, pur senza vederlo, credete ed esultate di gioia ineffabile e gloriosa » (1 Pt 1, 8). Ecco la beatitudine della fede proclamata dal Signore, e che deve essere la beatitudine dei credenti di ogni tempo, la nostra beatitudine.
Fede che si traduce nella carità: la prima lettura degli Atti degli Apostoli, ci narra la vita quotidiana della prima comunità dei cristiani a Gerusalemme, una vita contrassegnata da vera fede e carità. Una comunità in cui si cercava di vivere il Vangelo, cioè la «buona notizia» della risurrezione mettendola in pratica. La fede in Cristo era la forza coesiva che riuniva i primi credenti in una compagine compatta, basata su una profonda comunione di sentimenti e di vita. « E la moltitudine di coloro che erano venuti alla fede, aveva un cuor solo e un'anima sola » (At 4, 32). Fede tanto forte che portava a rinunciare spontaneamente ai propri beni per metterli in comune a favore dei più bisognosi, considerati veri fratelli in Cristo. E’ una fede, quindi, concreta e operosa da dare un'impronta totalmente nuova alla vita dei credenti, non solo nel settore dei rapporti con Dio e della preghiera, ma anche nei rapporti col prossimo e perfino nel campo degli interessi di cui l'uomo è tremendamente geloso. San Luca ci dice che «Nessuno tra loro era bisognoso, con una giusta distribuzione dei beni, segno di una carità incarnata, concreta, possibile. Una carità che nasce dalla fede, che riconosce l'uomo Gesù come Dio; che lo sa vedere presente nel volto dei nostri fratelli, soprattutto di quelli più bisognosi.
Unità della fede, speranza e carità.
E Gesù, in questo tempo pasquale, oltre a rafforzarci in queste virtù teologali, ci fa dono del suo Spirito, della sua pace, nella remissione dei peccati. Abbiamo sentito, infatti, nel Vangelo che la sera della Risurrezione, Gesù, dopo aver affidato ai suoi la missione che ha ricevuta dal Padre - «Come il Padre ha mandato me, così io mando voi » -, dona ad essi lo Spirito Santo. « Alitò su di loro e disse: " Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi, a chi li riterrete saranno ritenuti " ». Lo Spirito Santo appare così quale primo dono di Cristo risorto alla sua Chiesa nel momento in cui egli la costituisce, e che scenderà copioso 50 giorni dopo a Pentecoste, e la invia a prolungare la sua missione nel mondo. E assieme all'effusione dello Spirito l'istituzione della penitenzache, con il battesimo e l'Eucaristia, è sacramento tipicamente pasquale, segno efficace della remissione dei peccati e della riconciliazione degli uomini con Dio effettuate dal sacrificio di Cristo. Sacramento della misericordia e della pace.
Proprio oggi ricorre la festa della Divina Misericordia, voluta da Gesù secondo le rivelazioni private di Santa Faustina Kowaska e istituita dal Papa Giovanni Paolo II, festa impreziosita del dono dell’indulgenza plenaria (confessione, comunione, preghiera secondo intenzione del Papa – Credo, Pater e pia invocazione a Gesù Misericordioso).
Quindi ai sacerdoti Gesù ha lasciato il suo mandato: «A chi rimetterete i peccati, saranno rimessi, e a chi li riterrete saranno ritenuti» (Gv 20,33). Soltanto i Sacerdoti, quindi, possono assolverci dai peccati. Quante volte? Sempre, purché si sia disposti. Nessun limite alla misericordia di Dio (Mt 18,22). «La misericordia divina è così grande - ha scritto san Giovanni Crisostomo - che nessuna parola può esprimerla e nessun pensiero concepirla... ». Perciò sant’Isidoro ha potuto affermare con sicurezza: «Non vi è delitto così grande, che non possa essere perdonato nella Confessione».
Nella vita di sant’Antonio di Padova si racconta che un giorno un grande peccatore andò a confessarsi dal Santo, dopo avere ascoltato una sua predica. Il pentimento del peccatore era così vivo che gli impedì di parlare per i continui singhiozzi. Sant’Antonio allora gli disse: «Va’, figlio, scrivi i tuoi peccati poi ritorna». Il penitente andò, scrisse i peccati su un foglio, tornò dal Santo e gli lesse la lista delle colpe. Quale non fu la sorpresa, però, quando alla fine della lettura si accorse che il foglio era tornato bianco, senza più traccia di scrittura! Ecco il simbolo dell’anima che torna pura nella Confessione.
E la confessione ci dona la pace. Mi piacer ricordare quanto Santa Teresina scrive della confessione fatta prima della prima Comunione: “La vigilia del gran giorno ricevetti l'assoluzione per la seconda volta, la mia confessione generale mi lasciò una grande pace nell'anima, e il buon Dio permise che nessuna nube venisse a turbarla. Nel pomeriggio chiesi perdono a tutta la famiglia che venne a trovarmi, ma riuscii a parlare soltanto con le lacrime, ero troppo commossa...” (Storia di un’anima, 108).
Confessarsi ogni settimana
Se ogni Confessione è un tesoro di grazia perché lava la mia anima nel Sangue di Gesù, purificandola «dalle opere di morte» (Eb 9,14), è chiaro che bisogna approfittarne con grande interesse e frequenza!
Ogni quanto confessarsi? La norma aurea della vita cristiana è la Confessione settimanale.
Molti santi, è vero, si confessavano più volte alla settimana, e anche ogni giorno: così facevano san Tommaso d’Aquino, san Vincenzo Ferreri, san Francesco di Sales, san Pio X... Ma se noi non siamo capaci di tanto, non dobbiamo però far passare la settimana senza lavarci santamente nel Sangue di Gesù. Come era puntuale alla Confessione almeno settimanale san Massimiliano M. Kolbe!
Proponiamoci seriamente anche noi questa norma e teniamoci fedelmente: ogni Confessione è una grazia della Madonna, Madre della misericordia! E se Ella a Lourdes e a Fatima ha tanto raccomandato la penitenza, ricordiamoci che la più grande e salutare penitenza è quella sacramentale: la Confessione frequente.
Soprattutto, però, dobbiamo confessarci al più presto quando avessimo la disgrazia di commettere un peccato mortale. Non contentiamoci dell’atto di dolore, e non azzardiamoci a fare la Comunione senza esserci prima confessati perché faremmo solo un sacrilegio orrendo: «si mangia la propria condanna», grida san Paolo (1 Cor 11,29). E sarebbe davvero follia andare a fare un sacrilegio, avendo a disposizione il Sacramento della misericordia. La Madonna non lo permetta mai!
E oggi vogliamo servirci delle parole di S. Tommaso per professare la nostra fede in Gesù Eucaristico presente nel Tabernacolo. Possiamo dirle al momento della consacrazione o quando riceviamo la comunione o quando l’adoriamo nell’ostensorio o nei tabernacoli. «Mio Signore e mio Dio!»
Ci aiuti, in questo, e nella crescita nella fede, Maria SS. modello di fede, per ogni credente.