Quando si parla della corsa allo spazio, inevitabilmente si arriva al punto nodale: Perché l’URSS, che aveva stabilito una serie di impressionanti primati, non è riuscita a coronare questa epopea di conquiste con il riuscire a portare un cosmonauta sulla Luna? C’è chi dice che fu per mancanza di tecnologia avanzata, dimenticando che l’Apollo volò con un’elettronica che al giorno d’oggi sarebbe ridicola; in realtà furono commessi una serie di marchiani errori a partire dai vertici del PCUS che, probabilmente, non cercarono più il primato ma il consolido delle posizioni. A tutto questo va aggiunto l’altro grande errore: non aver stabilito da subito un progetto ed una strada da seguire che sia univoca e che preveda il lavoro di tutti in un'unica direzione.
Vediamo cosa successe, mettetevi comodi, è un lungo racconto…
Mentre L’Unione Sovietica stupiva il mondo con i successi delle Vostock, già dal 1960 il comitato centrale del PCUS aveva approvato, in linea di massima, il piano da seguire per portare dei cosmonauti ad allunare sulla luna. Non era stato definito, però, chi e come avrebbe dovuto incaricarsi del progetto e quindi vennero coinvolti due principali uffici di progettazione: l’Okb-1 diretto da Sergej Pavlovich Korolev e l’Okb-52, diretto da Vladimir Nikolajevich Celomej.
Partendo da concetti di fondo diversi, i due OKB portarono avanti una serie di progetti che, alla fine, confluirono ne: L’N1 per Korolev ed il LK-1 per Celomej.
Le varie fasi dell’esplorazione lunare sovietica vennero fissate in cinque tappe:
L1: Sorvolo della Luna con un equipaggio;
L2: Invio di rover (simili al Lunakhod), per esaminare i possibili siti di atterraggio;
L3: allunaggio con i cosmonauti;
L4: Esperimenti scientifici in orbita lunare;
L5: esperimenti sulla superficie.
La prima fase, la L1, sarebbe dovuta avvenire in concomitanza del cinquantesimo anniversario della rivoluzione di Ottobre, cioè nell’Ottobre del 1967.
Esaminiamo i due progetti:
L’N-1 (N=Nositel’ che vuol dire lanciatore) era un enorme vettore a 5 stadi. Alto come il Saturno V americano, avrebbe dovuto portare in orbita terrestre bassa ben 95.000 kg, dei quali 23.500 potevano essere inseriti in una traiettoria cislunare. Per poter rilasciare la potenza necessaria, al primo stadio dell’N1 erano necessari ben 30 motori Nk-15 dei quali ben 25 in un anello esterno e cinque nel nucleo interno. Questo gran numero di piccoli motori generò sempre enormi problemi che fecero fallire tutti e quattro i tentativi di lancio del ciclopico lanciatore sovietico. Specialmente il terzo tentativo fu così catastrofico che si danneggiò tutto il complesso di lancio. Solo nel 1971 si riuscì ad effettuare un quarto, ultimo, tentativo. Anch’esso fallito.
Purtroppo, i promessi nuovi motori a combustione chiusa, di cui ho parlato in un mio precedente articolo, promessi dall’ufficio di progettazione Kuznetsov, che avrebbero ridotto il numero dei propulsori necessari al primo stadio dell’N-1, non arrivarono in tempo. Quando furono finalmente pronti, il programma N-1 era stato già abbandonato e venne decisa la distruzione dei circa ottanta NK-33 (così si chiamavano in nome del progettista Nikolai Kuznetsov). Ma non andò così e poi vedremo perché…
Il progetto N-1/L3 di Korolev comportava, come per l’Apollo, un unico lancio. Nel vettore erano contenuti sia il veicolo abitato, la Sojuz 7k/LOK (Orbitalnj Korabl = navicella orbitale), sia il modulo lunare, il LK (Lunnji Korabl= navicella lunare). I due veicoli, inoltre venivano lanciati già agganciati. Il trasferimento del cosmonauta dalla Sojuz all’LK era effettuato con un’attività extraveicolare, così come avvenne nella missione congiunta Sojuz 4/5. Tutto questo sarebbe stato consentito dalla maggiore capacità di lancio del vettore N1. Il sistema di aggancio studiato per la missione lunare, come ho spiegato in un precedente articolo, era denominato “Kontakt”. Sostanzialmente un piatto dotato di ganci che era posizionato sia sulla cima del veicolo Sojuz 7k/LOK, che sulla cima del modulo di atterraggio lunare LK. Come detto, al lancio i due veicoli erano già agganciati, mentre il trasferimento del cosmonauta nel modulo di allunaggio, sarebbe avvenuto per mezzo di una passeggiata spaziale poiché il sistema Kontakt, del tipo “soft docking”, non consentiva il passaggio tra le due navicelle. Perché questa scelta? Semplicemente (e qui la capacità russa di risolvere problemi complessi in maniera semplice ci viene in soccorso) perché si è voluto evitare qualsiasi stress aggiuntivo sia al cosmonauta rimasto in orbita lunare sia a quello di ritorno dalla luna. In questo modo la manovra di aggancio sarebbe stata estremamente facile e del tutto automatica. Un eventuale cosmonauta provato dalla fatica (considerate che il lander lunare LK era poco più grande del cosmonauta già vestito della sua tuta, in buona sostanza una specie di esoscheletro…) e, soprattutto, non coadiuvato dal suo compagno di volo (era prevista la missione con solo due cosmonauti dei quali uno restava in orbita e l’altro allunava), sarebbe comunque riuscito a completare la manovra da solo. Il rientro, a causa della velocità elevata, sarebbe avvenuto col sistema dello “Skip-reentry”, cioè del rientro a rimbalzi. Ne ho già parlato in un altro articolo. In sostanza si trattava di far effettuare un paio di “rimbalzi” alla sezione SA della Sojuz negli strati alti dell’atmosfera in modo da frenare la velocità in misura tale da consentire allo scudo di resistere al calore dell’ingresso in atmosfera.
Il progetto LK-1, invece, ebbe una gestazione più complessa.
Innanzitutto, entra in scena un altro personaggio, che noi ben conosciamo: Valentin Petrovic Glushko. Progettista capo dell’OKB-456, ideò dei motori, gli RD270, che invece di impiegare combustibili tradizionali, utilizzava due sostanze chimiche, dette ipergoliche, che si innescavano al solo contatto. Il vantaggio? Il lanciatore poteva essere rifornito in tempi brevissimi e restare sulla rampa a serbatoi piani per un tempo indefinito. Inoltre, erano dotati di camera di scoppio monoblocco anziché quattro per motore come gli NK-15. I vantaggi: a parità di peso poteva sviluppare una potenza 5 volte maggiore. Lo svantaggio era dato dal fatto che il combustibile poteva innescarsi incidentalmente ed i suoi vapori erano fortemente tossici. Un tragico esempio della pericolosità dei combustibili ipergolici fu il disastro di Nedelin. Avvenuto nel 1960 ma del quale se ne è venuti a conoscenza solo in tempi recenti, fu causato dall’esplosione sulla rampa di un ICBM (missile balistico intercontinentale) R-16. Causò circa 70 morti e la chiusura del sito di lancio per diversi mesi.
Valentin Glushko fu anche un acerrimo rivale di Korolev. Questa rivalità, quasi odio si potrebbe dire (anche se, recentemente in un breve colloquio intrattenuto con il figlio di Glushko, Andrei, questo aspetto è stato molto ridimensionato), viene da lontano. Come spiegato nella prima puntata della mia serie “Kosmonautika”, alla fine degli anni ’30, gli studi di Tziolkowskji per primo e di Goddard ed Oberth poi, avevano portato molte nazioni ad iniziare a lavorare sulla propulsione a razzo. In Unione Sovietica sorse il RNII (Reaktivnji Nauchno Isledavatel’skji Institut, cioè L’Istituto di Ricerca sulla propulsione a reazione). Glushko, il progettista del RD270, si trovò a lavorare alle dipendenze del giovane Korolev che del RNII era il vicedirettore. Forse geloso della sua carriera, lo fece arrestare, durante la stagione delle cosiddette “Purghe Staliniane”, inviando una lettera in cui lo si accusava di attività antisovietica. Ciò costò al “costruttore capo”, creatore delle Vostock e dell’R7, quattro anni di gulag. Alla fine del conflitto, però, una volta che l’URSS si trovò tra le mani un gran quantitativo di V2 lasciate dai Tedeschi in ritirata, sorse il problema di capirne il funzionamento. Non riuscendo a venirne a capo, lo stesso Glushko fu costretto a riabilitare Korolev ed a reintegrarlo nel suo ruolo. Il resto è la storia che conosciamo bene. A causa dei patimenti subiti nel Gulag, Korolev fu spesso soggetto a malattie fino a morire, nel 1968, di tumore.
Tornando al progetto LK-1, inizialmente l’OKB-52 pensava ad un super lanciatore pesante, l’UR-700, evoluzione dell’UR-500 che era in fase di sperimentazione ma i cui collaudi marcavano una lunga serie di insuccessi. Dotato di motori ipergolici situati lateralmente ad un blocco centrale, avrebbe consentito un viaggio verso la luna con una traiettoria diretta. Il veicolo abitato, designato VA, e dotato di una sezione per l’atterraggio, avrebbe fatto anche da lander lunare. Una volta decollato dalla superficie lunare, il VA sarebbe tornato a terra con la spinta del suo ultimo stadio centrale. Intrigante ed affascinante progetto che, però, era condizionato dall’elevata tossicità e pericolosità dei serbatoi che avrebbero contenuto una quantità enorme di combustibile ipergolico.
Si pensò quindi ad una soluzione intermedia: in luogo dell’UR-700, che era tutto da sviluppare, si sarebbero utilizzati due lanci di UR-500.
L’UR500 (UR= Universal’nij Raket che vuol dire Razzo Universale), invece, altri non era che l’attuale Proton. Il progetto prevedeva lanci ravvicinati di tutto il materiale. Un UR500 avrebbe lanciato il modulo lunare (un LK di tipo diverso rispetto a quello di Korolev) con il modulo per la traiettoria cislunare, il cosiddetto “Block E” ed un altro vettore avrebbe lanciato la Sojuz 7k/L-1. A fronte di una maggiore complessità della missione, c’era una maggiore facilità di lancio dei vettori che potevano, a differenza degli N1, essere approntati in minor tempo.
A questo punto, però, appare evidente l’errore più colossale che la “nomenklatura” sovietica fece nella gestione della corsa alla Luna.
Invece di concentrare le forze su di un unico progetto, magari con l’unione del meglio di entrambe le soluzioni, sotto Breznev che non era tanto interessato al primato per così dire “sportivo” quanto a quello militare, complice anche la prematura dipartita di Korolev, venne definito un programma che prevedeva due filoni: le missioni L1 da effettuarsi con lanciatori UR-500 e con le Sojuz-7K/L1 e le L-3 con l’utilizzo del lanciatore N-1.
L’UR500, ormai ribattezzato Proton, venne utilizzato per i voli cislunari senza equipaggio con delle Sojuz 7k/L-1 ridenominate Zond. Questa era molto differente rispetto alla Sojuz 7K/LOK del progetto N1. Per risparmiare ulteriormente peso, veniva eliminata la sezione BO (quella sferica per intenderci) e la navicella veniva dotata di una antenna direzionale per le comunicazioni a lunga distanza.
Nel frattempo, un gruppo di cosmonauti si addestrava per le missioni lunari. Tra questi, Alexei Leonov ed Oleg Makarov furono i prescelti per il volo orbitale che si sarebbe dovuto tenere l’8 dicembre 1968 l’Unione Sovietica ebbe per ben due volte l’occasione di anticipare il primo volo L1 intorno alla Luna: a settembre ed a novembre rispettivamente con la Zond 5 e la Zond 6. Sebbene gli stessi cosmonauti degli equipaggi principale e di riserva (Valerji Bykovskji e Nikolai Rukavishnikov), avessero scritto una lettera a Breznev per autorizzare il volo, il Cremlino non volle rischiare e, con il senno di poi, non fu un errore. Zond 6 si depressurizzò ed ebbe anche un guasto al paracadute che ne fece schiantare il modulo di rientro. Ma Zond 5 effettuò una missione senza intoppi, sbagliando solo il punto di atterraggio che non fu in territorio Sovietico ma nell’Oceano Indiano. Questo problema, con un equipaggio a bordo in grado di deorbitare manualmente, non si sarebbe però verificato.
Con il volo di Apollo 8, avvenuto tra il 21 ed il 27 dicembre 1968, la NASA volle correre un enorme rischio affidando alla missione numero otto il programma che avrebbe dovuto essere stato della 9 ed adottando la cosiddetta traiettoria a rientro libero, peraltro utilizzata dalle Zond, che prevedeva il ritorno a terra sfruttando la sola fionda gravitazionale lunare senza poter contare di una ulteriore accensione dei motori del CSM. Il rischio pagò e Frank Borman, Jim Lovell e William Anders sorvolarono per primi la superficie lunare.
Venuto meno questo primato, ci si concentrò sul programma L3.
Anche in questo caso, parallelamente allo sviluppo della tuta Kretchet per l’esplorazione lunare, dotata anche di un singolare “Hula-hoop” per consentire al cosmonauta di fare una capriola su sé stesso e rialzarsi da un’eventuale caduta sul suolo lunare, ed allo sviluppo del lander LK, venne portato avanti un intenso programma di addestramento per i cosmonauti candidati.
Sfumata l’opportunità di essere i primi ad orbitare intorno alla Luna, l’equipaggio principale della missione L1 venne promosso ad equipaggio principale della missione L3. Alexei Leonov sarebbe stato, quindi, il primo a calcare il suolo lunare.
Tornando al progetto N1, soffriva di due tare concettuali: la prima è che i componenti venivano testati tutti durante i lanci di prova. Un guasto in uno di questi avrebbe causato il fallimento del lancio e la perdita dell’intero lanciatore, come sempre avvenne. La NASA, invece, collaudò i componenti singolarmente ed a terra. Con risparmio di tempo e materiali. La altra tara è legata alla scarsa potenza dei motori NK-15. Incassato il rifiuto di Glushko (per i motivi suddetti…) a sviluppare propulsori più potenti per l’N-1, Korolev e Mishin attesero invano che venissero approntati gli attesi NK-33 che l’OKB-276 diretto da Nikolai Dimitrevich Kutnetsov stava sviluppando. Per chi non li conosce, gli NK-33 sono i primi motori a razzo a “Circuito chiuso”. Sebbene non alimentati da carburante ipergolico, avevano potenza tripla rispetto ai motori tradizionali. Arrivarono solo a progetto N1 abbandonato. Dovevano essere distrutti ma un gran numero di questi (ben 80) vennero nascosti in un hangar e lì rimasero fino agli anni 90. In seguito, gli stessi ingegneri che li avevano sviluppati contattarono degli omologhi americani per proporre questi motori allo scopo costituire un joint venture Russo-Americana: la Aerojet. Ribattezzati AJ-26, sono stati impiegati nella versione “A” dei lanciatori americani Antares. Chi lo sa come sarebbe andata a finire se fossero arrivati prima? Di certo un primo stadio meno complesso avrebbe accelerato lo sviluppo dell’N1; ma, soprattutto, se non ci fosse stata la rivalità esacerbata tra Korolev e Gushko, queste due menti geniali avrebbero portato Alexei Leonov a calcare, per primo nella storia dell’Umanità, la sua impronta sulla Luna.
Tutta questa serie di circostanze, più di natura “umana” che tecnica, rovinarono i piani dell’URSS di portare, per primi, un essere umano sulla Luna. Il programma N-1 venne abbandonato definitivamente da Glushko, subentrato a Mishin, nel 1974. Lo stesso Glushko, però, non aveva abbandonato l’idea di andare sulla Luna. Perso il primato, pensava a Zvezda, la base lunare permanente di cui, a Mosca, è conservata una sezione a grandezza naturale. Aveva anche pensato al lanciatore. Il Vulkan, evoluzione (senza motori ipergolici) di quell’UR-500 nel frattempo divenuto super affidabile e chiamato Proton. E per un nuovo lanciatore, pensò anche nuovi motori. Nacquero gli RD-170, motori a circuito chiuso, con quattro camere di scoppio gemellate. Dal progetto Vulkan nacque il lanciatore Energhia. Sì, quello della navetta Buran.
Ma non è finita qui… Evoluti e semplificati (una sola camera di scoppio invece di quattro), gli RD-170 nella versione RD-180 spingono la versione “B” dell’Antares e l’Atlas-V americani. Nella loro ultima versione, la RD-190, equipaggiano l’erede del Proton il lanciatore Angara.
Qualche curiosità:
Se la prima missione sulla Luna sarebbe stata di profilo “tradizionale” (lancio, orbita, allunaggio, decollo, aggancio, rientro), le successive avrebbero visto scendere in campo una soluzione per minimizzare i rischi. Se il cosmonauta non avesse potuto effettuare il decollo dalla superficie lunare, era previsto che il volo con equipaggio sarebbe stato preceduto dall’atterraggio di un LK automatizzato che si sarebbe posato in un sito alternativo. Questo avrebbe consentito al cosmonauta impossibilitato a ripartire, di usare un veicolo di riserva per il rientro ma non solo. Era previsto anche il lancio di un piccolo rover monoposto da far allunare più o meno a metà strada.
Vi ricordate del veicolo LK-1 di Celomej? Beh, nemmeno di quello venne buttato tutto: la sezione VA venne utilizzata per il traghetto pesante TKS, impiegato sulle stazioni spaziali Saljut ma, udite udite, la sua sezione abitativa, denominata FGB, è la base di tutti i moduli abitativi delle stazioni spaziali: dai DOS delle Saljut a quelli della MIR al modulo Zvezda fino all’ultimo arrivato, Nauka.
Per quanto riguarda i due progetti, io ritengo che la soluzione ideale sarebbe stata quella coi lanci scaglionati del materiale così come proposto da Cjelomej come piano di contingenza nell’impossibilità di utilizzare l’UR-700 ed il veicolo LK-1. Questa soluzione modulare consentiva di effettuare un profilo di missione con maggiori margini di sicurezza. Ma la Storia non si fa con i se. L’Unione Sovietica non ha voluto rischiare la vita dei suoi Cosmonauti in una missione incerta ed ha preferito dedicarsi allo sviluppo del volo orbitale. Fecero un passo indietro per farne due avanti. Il futuro gli avrebbe dato ragione: gli Americani non sono più tornati sulla Luna. Solo oggi, e grazie a pesanti investimenti privati, gli Stati Uniti stanno recuperando l’immobilità causata dallo stop dei voli dello Shuttle.
Torneremo sulla luna. Ci torneranno gli Stati Uniti che stanno puntando molto sul programma Artemis e sul fatto di mandare per primi una donna sulla superficie del nostro satellite. Ma stanno arrivando anche i cinesi che, forti di una costante crescita nel settore spaziale e di una intensa attività umana nell’orbita terrestre, non nascondono di voler mettere piede sulla superficie lunare e di restarci con una base scientifica permanente per la costruzione della quale hanno stretto accordi con la Russia. La luna è la base ideale di rifornimento per le missioni interplanetarie ed è una enorme fonte di risorse per il nostro pianeta. Dall’acqua, presente in grandissime quantità, all’Elio3 necessario per i reattori nucleari a fusione. Ci torneremo e ci resteremo e, chissà, se i nostri discendenti, un giorno, non andranno a visitare quei siti in cui i primi oggetti costruiti dall’uomo sono atterrati sulla superficie selenica. E penseranno agli uomini ed alle donne che hanno sognato di portarli lassù.
Sergei Pavlovic Korolev
Vladimir Nikolajevic Celomej
Il lanciatore N-1
Modello in scala del modulo di atterraggio lunare LK (foto dell’autore)
Il motore NK-33
La Sojuz 7k/LOK
Il motore RD-270
L'UR-700
Lo stadio finale dell'UR-700 ed il modulo di atterraggio
Il lanciatore UR-500 oggi noto come Proton. In cima una Zond.
La Sojuz 7K/L-1
La tuta lunare Kretchet (foto dell'autore)
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