SALJUT-7

Baikonur abbiamo un problema… Ovvero: Saljut 7, l’Apollo 13 dell’Unione Sovietica.

Nel 2017, in Russia e nel resto del mondo (in Italia non è arrivato se non in una versione doppiata artigianalmente da degli amatori) è uscito il film “Saljut-7” che, in forma romanzata, narra gli accadimenti del giugno 1985, quando la stazione spaziale, alla deriva per mancanza di energia elettrica, fu letteralmente “agganciata al volo” dalla Sojuz T13 e riparata in condizioni proibitive.

Nel film, molto ben fatto del quale mi sono divertito a fare i sottotitoli in lingua italiana, i nomi dei protagonisti vengono modificati per lasciare maggior spazio alla “drammatizzazione” dei fatti. Solo il nome di battesimo resta quello originale. Ma la trama, seppur con diverse licenze, è grosso modo coerente con quello che accadde davvero a Vladimir Dzhanibekov e Viktor Savinykh.

La Saljut-7 nacque come backup della Saljut-6. Si decise di lanciarla, nell’Aprile del 1982, come test della futura stazione MIR, il cui progetto procedeva con qualche ritardo. Servì egregiamente come laboratorio per testare la futura architettura modulare della nuova stazione Sovietica, essendo dotata di ben due portelloni di attracco, uno a poppa ed uno a prua, ed avendo consentito l’aggancio di veicoli spaziali di foggia diversa come le Sojuz, le Progress e le TKS, quest’ultima una nuova navicella adibita anche al trasporto di Cosmonauti verso le future stazioni spaziali Militari della serie Almaz, poi cancellate. Le TKS, delle quali si possono ammirare i prototipi a grandezza naturale al Museo della Cosmonautica di Mosca, volarono davvero verso la Saljut-7 con la missione Cosmos 1686 in un volo completamente automatizzato che testò con successo la capacità di attraccare veicoli di peso molto elevato.

Detenne, fino alla MIR, il record di permanenza nello spazio: ben otto anni e dieci mesi, ospitando ben 10 equipaggi, anche internazionali (perfino il primo “spazionauta” Francese ed occidentale: Jean Loup Chtètien con la missione EP1 dal 24/6/82 al 2/7/82) e la prima passeggiata spaziale di una donna (Svetlana Savitskaya Missione EP2 19/8/1982- 27/8/1982).

Soffrì di vari problemi i più gravi dei quali furono una perdita di carburante da un serbatoio, riparata con varie EVA dagli equipaggi delle missioni EO-2 ed EO-3 e la più grave, quella di cui parla il film, riparata in maniera rocambolesca dall’equipaggio della missione EO-4.

Passetto indietro: Che vuol dire EO oppure EP? Bene, EO, dal russo Экспедиция Основная (leggi: “expeditzja asnovaja”) vuol dire spedizione principale, mentre EP, dal russo Экспедиция Посещения (leggi: “expeditzja pasescjennja”) vuol dire spedizione in visita.

Ma cosa successe davvero?

Il controllo a Terra, l’11 febbraio del 1985, si accorse che la traiettoria della stazione risultava instabile e che la stessa non rispondeva ai comandi risultando del tutto inerte. La preoccupazione che un oggetto di quasi 20 tonnellate e dotato di vari impianti con materiale radioattivo potesse cadere incontrollata sulla terra e, soprattutto, che qualche componente segreta potesse cadere in mano occidentale, spinse l’Ente spaziale sovietico ad inviare una missione di soccorso in fretta. Furono scelti un abile pilota, che già era stato sulla Saljut: Vladimir Dzhanibekov, e l’ingegnere che l’aveva progettata: Viktor Savinykh.

L’impresa non era semplice: bisognava agganciare un bestione rotolante fuori controllo senza nessun aiuto dai sistemi di aggancio automatizzati in uso. All’epoca, infatti, le Sojuz usavano un sistema di avvicinamento all’attracco, l’IGLA, del tutto automatico che prevedeva la “collaborazione” dei due veicoli destinati ad agganciarsi. Fu proprio in seguito a questo incidente che venne sviluppato il sistema KURS che, modificato, è in uso ancora oggi e che permette un aggancio manuale di tipo “non collaborativo”. Insomma, Dzhanibekov dovette fare una specie di Rodeo spaziale per agganciare al volo la stazione, manovra che gli riuscì al secondo tentativo. Fatto questo si era, però, solo ad un terzo dell’opera. Bisognava capire i motivi del guasto che aveva reso la stazione un blocco di ghiaccio e metallo alla deriva e, possibilmente, ripararlo. E qui entrò in gioco quello che nel film viene definito da Dzhanibekov, scherzosamente, “un Ingegnere in tuta spaziale”: Viktor Savinykh. Fu lui ad entrare nella stazione ed a rendersi conto che, a causa della rottura di un serbatoio di acqua, tutta la nave era un blocco di ghiaccio con temperature sottozero di vari gradi. L’impianto elettrico era completamente fuori uso a causa della completa perdita di potenza delle batterie. Queste non venivano alimentate dai pannelli solari che rimanevano in posizione di riposo e fuori dalla linea elettrica. La prima incombenza fu quella di riscaldare la Saljut con un piccolo radiatore alimentato da un pannello solare che veniva orientato spostando il complesso Sojuz-Saljut manualmente. Una volta sciolto tutto il ghiaccio, tutta l’acqua venne convogliata nella camera di equilibrio di poppa e scaricata nello spazio. Poi si dovette asciugare con cura tutta la stazione per evitare che, una volta ridata potenza, l’acqua innescasse qualche incendio causato da cortocircuito elettrico.

Ma, anche quando questo lavoro fu compiuto dai due Cosmonauti che operavano, pesantemente intabarrati con più strati di vestiti per resistere ai pochi gradi centigradi che si trovavano nella Saljut, ci si rese conto che i pannelli non andavano in posizione, seguendo il percorso del Sole, per via di un guasto ad un sensore di luce solare che si trovava all’esterno e che era stato danneggiato da un meteorite. Furono necessarie varie EVA per scardinare la copertura del sensore che, una volta liberato, fece resuscitare le batterie ridando vita alla stazione.

Dopo il salvataggio compiuto dalla missione EO-4, la Saljut continuò a funzionare, ospitando equipaggi fino al 16 luglio 1986, quando la missione EO-5 trasportò gli equipaggiamenti dalla stazione alla MIR. In seguito, con una missione di un TKS, la stazione venne portata su di un’orbita più alta, con un apogeo di ben 475 km, in previsione di un suo recupero ad opera della navetta Buran che non avvenne mai per l’abbandono del progetto dello Spazioplano Sovietico. Ma un’improvvisa attività solare imprevista, all’inizio del 1990, fece decadere rapidamente l’orbita. Il 7/2/1991 la Saljut entrò nell’atmosfera disintegrandosi sopra la città Argentina di Capitan Bermudez, per fortuna senza arrecare alcun danno.

ARTICOLO PUBBLICATO SULLA PAGINA FACEBOOK "LE STORIE DI KOSMONAUTIKA" IL 17/11/2020Link all'articolo su Facebook 

Viktor Savynik (a destra) e Vladimir Dzhanibekov: i due eroi del salvataggio della Saljut-7

La Saljut-7 (a sinistra) agganciata alla Sojuz T-13

Il veicolo da trasporto pesante TKS in un modellino in scala esposto al Museo della Cosmonautica di Mosca (Foto dell'Autore)

Vladimir Dzhanibekov è anche un ottimo pittore (come fu anche Alexei Leonov). In questo dipinto raffigura se stesso e Viktor Savynik durante le EVA necessaria alla riparazione della Saljut-7

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