Non siamo in Star Wars, siamo nell’Unione Sovietica della fine degli anni ’70 del XX secolo. Abbandonato il programma lunare, l’URSS si dedicò alla costruzione delle stazioni spaziali a lunga permanenza nello spazio. Come ho già detto (per chi l’ha vista…) nella 9° puntata di “kosmonautika”, la mia serie sull’omonimo canale Youtube, gli uffici di progettazione dell’Unione Sovietica, si concentrarono su due tipi di stazioni spaziali: Le DOS, di tipo civile, denominate “Saljut” (DOS dal russo Долговременная орбитальная станция, leggi Dalgovrjiemennaja orbital’naja stanza cioè stazione orbitale a lunga permanenza), e le OPS, di tipo militare, denominate “Almaz” (OPS dal russo Oрбитальных пилотируемых станций, leggi Orbital’nik pilotiruemnik stanzji cioè stazioni orbitali pilotabili). In quest’ultimo ambito vennero lanciate, anche se denominate Saljut come quelle civili, ben tre stazioni di tipo militare. Che compiti avevano queste stazioni spaziali?
Sostanzialmente di osservazione: al loro interno vi era un potente telescopio che poteva riprendere oggetti con una risoluzione elevatissima; la presenza di un operatore a bordo, consentiva un utilizzo mirato dello strumento. Ma siamo anche in piena guerra fredda e gli Stati Uniti, con la presidenza di Ronald Reagan, avevano deciso di avviare il progetto di difesa denominato SDI, da noi noto con il nomignolo di “scudo spaziale”. Molte polemiche e pochi risultati per un sistema di difesa che però un risultato lo aveva ottenuto: allarmare gli avversari. Dall’altra parte, per questo motivo, oltre alle vibrate proteste sulla eventuale escalation militare nello spazio, si pensava ad eventuali contromosse.
Preoccupati che le loro stazioni Almaz potessero diventare bersaglio di un qualche oggetto spaziale, vennero sviluppati e, almeno in un caso, collaudati, due sistemi d’arma da impiegare a bordo.
Il primo dei due fu il cannone R-23M Kartech prodotto dall’ufficio di progettazione di Nudelman e riportato, da alcune fonti, con questo nome. Derivato dal cannone imbarcato sui bombardieri supersonici TU-23 Blinder, venne ridotto il calibro del proiettile da 23mm a 14,5. Il cannone aveva una cadenza di fuoco variabile tra i 950 ed i 5000 colpi al minuto con un tiro utile (a terra) di 1400 mt. Sarebbe dovuto servire non per distruggere le astronavi americane, ma per intercettare eventuali oggetti in rotta di collisione con la stazione. A causa delle forze di inerzia che si sarebbero innescate nel disporre di una torretta rotante, il “cosmoartigliere” avrebbe gestito la direzione del tiro spostando letteralmente tutta la stazione. Inoltre, il rinculo del cannoncino, trascurabile sulla terra, doveva essere compensato nello spazio con l’accensione dei motori di assetto della Almaz. Insomma, non era un sistema molto pratico e reattivo, in caso di effettivo attacco, ma venne comunque deciso di testarlo in orbita e fu installato sulla Saljut 3 (Almaz-2). Non fu, però, usato dai cosmonauti a bordo che ne verificarono solo la corretta installazione ed il funzionamento dei relativi apparati. Il 24 gennaio 1975, quando la stazione stava per rientrare nell’atmosfera ed era già disabitata da tempo, venne dato il comando di sparo da terra.
L’R-23M sparò tre raffiche esaurendo 20 caricatori. Il risultato del test è tutt’ora classificato, ma si sa che venne utilizzato un rottame spaziale (un serbatoio dell’ultimo stadio di un Proton) come bersaglio. Data la complessità e la poca reattività del sistema, venne deciso di dotare le prossime Almaz, di un sistema lanciamissili. Ma il progetto venne abbandonato con la fine del programma Almaz stesso, avvenuta nel 1977.
Il cannone Nudelman R23M
Diverso è il caso della pistola laser…
Anche qui, non stiamo parlando del laser blaster tanto caro a Han Solo, ma di una pistola che sarebbe servita ad “accecare” i sistemi di puntamento di eventuali satelliti spia o killer che puntassero verso le stazioni spaziali sovietiche.
Sviluppata, sempre in quegli anni, dall’Accademia Militare “Pietro Il Grande”, non era, infatti, affatto in grado di nuocere ad alcuno (forse avrebbe causato danni alla retina se puntata negli occhi…): sostanzialmente non era dissimile ad un puntatore laser dei nostri giorni.
L’ufficio di progettazione dell’Accademia, guidato dal Generale Viktor Sulakvelidze, per la parte tecnica, e da Boris Duvanov per quella teorica, doveva sviluppare un sistema maneggevole come una normale pistola, efficace e sicuro per l’uso in un ambiente pressurizzato.
Il suo impiego, difatti, doveva essere effettuato non tanto all’esterno della stazione Almaz, ma all’interno, dietro un oblò puntando ai sensori di rilevamento dell’oggetto “nemico”. In questa condizione un raggio laser anche di bassa potenza (venne stimata sufficiente una potenza di 10 Joule) sarebbe stato amplificato dalle lenti dell’obiettivo bersaglio rendendo l’apparato nemico “cieco”.
Il problema più ostico fu la miniaturizzazione dell’emettitore. Doveva anche usare gas non tossici per l’atmosfera della nave spaziale ed a prova di scoppio. La “lampadina” laser era costituita da un tubo riempito di ossigeno con all’interno dei Sali di zirconio. Una volta innescata, la lampadina emetteva un raggio con una temperatura di 5000K per 5 o 10 millisecondi. Ogni lampadina era usa e getta ed era montata in un contenitore cilindrico da 10mm dalla forma simile ad un proiettile. Come un proiettile era contenuto in un caricatore ed il “colpo” veniva espulso dopo l’uso così come un comune bossolo.
A differenza del cannone R-23M, la pistola laser non venne mai usata.
Molto più pragmatica e di diverso uso la pistola TP-82, in uso sulla Sojuz fino al 2007, della quale ho parlato in un altro articolo…
La pistola laser
Visite