TUTE SPAZIALI SOVIETICHE

Evoluzione delle tute spaziali sovietiche:

come sopravvivere al vuoto dello spazio “entrando” in una tuta

(e non indossandola…).

Abbiamo tutti visto le tute di “design” di SpaceX che vengono indossate durante i voli delle Crew Dragon. Questi futuribili scafandri, dall’aspetto candido e disegnate per essere comode e leggere, hanno scatenato l’esercito di “Memisti” che si sono sbizzarriti in un florilegio di confronti sulla “evoluzione” delle tute spaziali da quella dell’Apollo a quelle, molto più modaiole, partorite da Elon Musk.

È vero, quelle di SpaceX sono belle e sembrano molto comode, ma bisogna fare un distinguo importante: un conto sono le tute semi pressurizzate (come quelle delle Dragon), che consentono una sopravvivenza limitata in caso di depressurizzazione accidentale dell’abitacolo (di cui, peraltro, non sono note le specifiche tecniche…), altro discorso è, invece, quello da fare per una tuta progettata per proteggere una persona dal vuoto dello spazio, per consentirgli di lavorare all’esterno per ore.

E quindi iniziamo a dividerle in due categorie: quelle, appunto, semi pressurizzate, da usare solo in caso di emergenza, e quelle per le attività extraveicolari (od EVA), che servono a lavorare all’esterno, sia esso lo spazio o la superficie lunare.

Parlerò, quindi, dei modelli sovietici e russi facendo un veloce confronto con gli omologhi statunitensi.

Il primo modello di tuta creato dall’Unione sovietica fu l’SK-1 (SK=Скафандр Космический, leggi Skafandr Kosmicheskiy, cioè tuta spaziale). Simile, per certi versi, alla tuta impiegata nel progetto Mercury della Nasa, era progettata per garantire al cosmonauta un’adeguata protezione sia in caso di depressurizzazione della navicella (fino a 5 ore), sia in caso di atterraggio in acqua (fino a 12 ore). Inoltre, garantiva la protezione del cosmonauta dall’attrito dovuto al rientro sulla terra causato dalla sua espulsione a 7000 mt di altitudine (poteva resistere ad una pressione esterna di 2800Kg/cm2). Costruita dalla “fabbrica n. 918” ora NPP Zvezda, venne realizzata a partire dal 1958. Fu Korolev in persona che, significando come trascurabili le possibilità di una depressurizzazione della cabina del veicolo “Vostock”, decise di far progettare una tuta leggera (la Sk-1 pesava appena 20 kg completa di casco) ed in grado di offrire un valido supporto vitale in caso di un incidente. La tuta in sé era costituita da due strati di gomma incollati tra di loro a cui, esternamente, era stato cucito un rivestimento sintetico di colore arancione per poter meglio identificare il cosmonauta durante le ricerche dopo il suo atterraggio. Il casco, di tipo rigido, era saldato al resto della tuta così come i guanti e gli stivali. Il cosmonauta, che indossava una tuta interna con dei tubicini per il condizionamento termico, veniva aiutato da una persona ad indossare lo scafandro che veniva sigillato in circa 10 minuti per mezzo di un sistema di cerniere sovrapposte. Una volta dentro la SK-1, il cosmonauta veniva collegato ad un sistema di areazione portatile che, successivamente, veniva scollegato collegando il pilota al sistema di condizionamento della Vostock. Come da tradizione sovietica (seguita alla tragedia di Valentin Bondarenko di cui ho parlato in un altro articolo nonché in un video della serie youtube), la tuta era pressurizzata ad 1/3 della pressione normale (circa 300 hPa), con una miscela di aria normale. Per facilitare l’identificazione del cosmonauta al suo rientro a terra, venne apporta, poche ore prima dello storico volo di Gagarin, una scritta a caratteri rossi sul casco recante la sigla “SSSR” (CCCP in cirillico). Fu l’ingegnere Viktor Davidanz che, dotato di “bella calligrafia”, si incaricò di pitturare l’acronimo divenuto poi icona dei voli spaziali sovietici. L’esordio della SK-1 avvenne per mezzo dell’eroico “Compagno cosmonauta” Ivan Ivanovic, un manichino inviato su di una Vostock (la Sputnik-korabl 4) insieme alla cagnolina Cjernuska, il 9/3/1961. Il Compagno cosmonauta manichino effettuò un secondo volo, sempre con una cagnolina, stavolta Zviozdocka, durante la missione della Korabl-sputnik 5, il 26/3/1961. Questa volta l’eroico Ivan Ivanovic “declamò” con la radio della tuta, una registrazione di un coro e la ricetta del “Bortsch”, innescando quell’equivoco (“Bortsch fu scambiato per “Pomosh” che vuol dire aiuto…), che contribuì ad alimentare il mito dei cosmonauti perduti, di cui ho scritto in un precedente articolo. Per la cosmonauta Valentina Tereskhova, venne realizzata una versione modificata, la SK-2, per meglio adattarsi alla conformazione anatomica femminile. La SK-1 (e la SK-2) erano, quindi tuti semi pressurizzate che non consentivano attività all’esterno della nave spaziale e furono utilizzate solo per il programma Vostock.

Per il programma Voskhod, invece, sicuri della scarsa possibilità che un incidente potesse mettere a repentaglio la vita degli occupanti la navicella ed in considerazione del fatto che la stessa poteva effettuare un atterraggio “morbido” a terra senza la necessità di espellere i cosmonauti a 700 mt di altitudine, non era prevista alcuna tuta semi pressurizzata da usare durante il volo.

Solo per la missione Voskhod-2, passata alla storia per la prima passeggiata spaziale mai effettuata da un essere umano, avvenuta il 18/3/1965 ad opera di Alexei Archipovic Leonov, venne realizzata una tuta apposita: la Berkut.

La Berkut (che in russo vuol dire “Aquila di mare”), era derivata dalla SK-1. Molto più rigida di questa, era costituita da un pezzo unico in cui il cosmonauta si infilava per mezzo di un’apertura all’altezza della schiena. Da questa procedura, relativamente semplice (il cosmonauta veniva solo aiutato nel chiudere l’apertura dorsale), nacque il modo di dire di cui al sottotitolo del presente articolo, cioè “Entrare nella tuta”, che vale, per i russi, fino al giorno d’oggi. La Berkut era dotata di uno zaino per il supporto vitale, che pesava circa 21 kg. Sommati ai circa 20 kg della tuta in sé, portavano il peso dell’equipaggiamento a più di 40 kg. la Berkut lavorava ad una pressione di circa 407 hPa (poco meno della metà della pressione atmosferica normale), sempre con miscela di aria e poteva operare, in emergenza, anche a 274 hPa. Aveva un’autonomia di 45 minuti all’esterno. A differenza della SK-1, era dotata di una valvola che permetteva di espellere l’anidride carbonica e l’umidità in eccesso.

Fu protagonista, come detto, della storica passeggiata spaziale di Alexei Leonov che rischiò di tramutarsi in tragedia poiché la stessa Berkut, non essendo dotata di snodi alle giunture, si irrigidì all’esterno della Voskhod al punto da impedire al cosmonauta di piegarsi per poter rientrare nell’airlock. Leonov fu costretto a passare alla pressione di emergenza depressurizzando quindi fino a 274 hPa ed entrando a testa in avanti anziché a piedi avanti nel vano di decompressione. Per chiudere il portello esterno fu costretto a fare una capriola e finalmente, quasi allo stremo delle forze, poté rientrare dentro la Voskhod.

Con la consulenza dello stesso Leonov, venne successivamente sviluppata la seconda generazione di tute per EVA sovietiche, le Jastreb.

La Jastreb (che in russo vuol dire Falco), era stata sviluppata tenendo conto della necessità di garantire una maggiore mobilità alle giunture. A differenza della Berkut, ci si “entrava” dal davanti ed era dotata ci casco rimovibile. Inoltre, il sistema di sostentamento esterno, non veniva indossato sulle spalle ma veniva posizionato sul petto o sulle gambe, in modo da consentire l’uscita all’esterno per mezzo del portello, più piccolo, della sezione BO dalla Sojuz.

Il complesso tuta più zaino pesava circa 41 kg ed operava con una pressione di 400 hPa. Venne usata solo durante la missione Sojuz-5/Sojuz-4 per il trasbordo, primo nella storia, dei cosmonauti Khrunov ed Eliseev, il 16/1/1969.

Durante la “corsa alla Luna”, il programma spaziale sovietico progettò ben due tipi di tuta, derivati dallo stesso concetto: una nuova tuta, autonoma, in grado di consentire ai cosmonauti di lavorare per ore all’esterno della navicella sia nel vuoto dello spazio che sulla superficie lunare. Nacque così il programma Orlan/Krechet

In queste due tute, delle quali la Orlan è ancora in uso, il concetto di “entrare nella tuta” è estremizzato.

Entrambe sono, difatti, composte da un unico pezzo, adattabile a tutte le taglie, con solo i guanti personalizzabili. Sono dotate di un portello posteriore in cui il cosmonauta, vestito di una sottotuta con il condizionamento termico, letteralmente entra. In caso di emergenza il cosmonauta può chiudere il portello da solo, mentre di solito viene aiutato da un collega. L’operazione di vestizione ed adattamento, per una tuta Orlan, dura pochi minuti e questa caratteristica, unita alla maggiore visibilità offerta dal casco, la rende più “apprezzata”, da parte di chi l’ha provata (vedi la nostra Samantha Cristoforetti), rispetto alla EMU statunitense.

Parlando della Krechet (che in russo vuol dire girifalcone), essendo stata ideata specificatamente per il programma lunare, doveva consentire un’elevata autonomia e libertà di movimenti al cosmonauta che, a differenza della missione Apollo, doveva stare da solo sulla superficie lunare.

Il cosmonauta aveva un’autonomia di circa 10 ore, garantite dal pesante (circa 110 kg) scafandro. Secondo il profilo della missione LK, era previsto che, in caso di avaria del sistema di rientro del lander, il cosmonauta dovesse recarsi ad un LK di riserva fatto atterrare in precedenza a circa 5 km di distanza dal luogo del suo allunaggio. Per questo motivo la tuta garantiva una elevatissima autonomia ed era dotata anche di un particolare “anello” posto sulla cintura che consentiva al cosmonauta, in caso di caduta accidentale, di rotolare su sé stesso senza danneggiare lo scafandro per potersi, in autonomia, rialzare. Una soluzione semplice quanto ingegnosa. Nel vero spirito russo…

Per testare la Krechet venne creata una speciale sala inclinata di 30° dove il cosmonauta, assicurato a dei cavi, camminava simulando una gravità simile (circa 1/6 di quella terrestre) a quella che avrebbe trovato sulla Luna. Come sua “cugina” Orlan, era dotata di un pannello di strumenti e di controllo posto sul petto.

La tuta Orlan (che in russo vuol dire “aquila di mare”) è, come detto, la versione per lo spazio della Krechet. Impiegata la prima volta nel 1977 dai cosmonauti Grechko e Romanenko, durante la missione Sojuz-26 che ha abitato la stazione Saljut-6, è ancora in uso. Sostanzialmente simile alla Krechet, ha un’autonomia leggermente minore (7 ore). Come tutte le tute dalla Berkut in poi, lavora con una miscela d’aria a 400 hPa e si indossa in autonomia, a differenza della EMU. Quest’ultima, essendo in tre pezzi, necessita di una struttura fissa dove viene ancorata la parte del torso nella quale l’astronauta si infila dal basso, quindi un collega lo aiuta ad infilarsi casco e guanti e pantaloni e poi, essendo pressurizzata ad ossigeno puro a 29,6 KPa, è necessaria una lunga una manovra di adattamento prima e dopo l’uso. In caso di una EVA d’emergenza, sarebbe meglio trovarsi nella sezione russa della ISS.

L’ultima delle tante versioni della Orlan è la MKS, impiegata la prima volta nel 2016.

Le tute Orlan hanno una loro durata di utilizzo, dopo la quale vengono rottamate. La Orlan MKS può essere utilizzata per 5 anni. Allo scadere viene sostituita e la “vecchia” viene liberata nello spazio oppure riportata a terra per essere esposta in qualche museo… Ah! Ad essere lì quando le buttano!!!

Fin qui abbiamo parlato, tranne che nel caso della SK-1/2, di tute pressurizzate “da esterno”. ma ci sono due altri modelli di tute, di cui uno ancora in uso, che sono stati prodotti dal programma spaziale sovietico e russo:

La Sokol, ancora in uso, e la Strizh che era stata costruita per il programma Buran.

La tuta Sokol (Falcone in russo) è oramai entrata a far parte della nostra quotidianità: è in uso sulle Sojuz dalla missione Sojuz-12 e quindi dal 1973 e venne progettata a seguito della tragedia della sojuz-11 nella quale persero la vita, il 30/6/1971, i cosmonauti Volkov, Patsajev e Dobrovolskji, a causa di un’improvvisa depressurizzazione della sezione SA della Sojuz dovuta all’accidentale apertura della valvola di equalizzazione della pressione esterna. Nei voli precedenti, le Sojuz, contando sull’affidabilità oramai ritenuta proverbiale dei sistemi di sicurezza, volavano coi cosmonauti privi di qualsiasi protezione. Purtroppo, questa tragedia fece rivedere il progetto che venne implementato con una speciale tuta ed un particolare sediolino, atti a garantire la sopravvivenza in caso di depressurizzazione accidentale.

In realtà la Sokol era già esistente. Infatti, veniva già da tempo utilizzata in aviazione a bordo dei velivoli che si trovavano a volare nell’alta stratosfera. Venne quindi creato, sempre dal NPP Zvezda, un modello ad hoc, la Sokol-k (K sta per Kosmos cioè spazio). È in un pezzo unico tranne che per i guanti, come per la Orlan e la Krechet. È molto leggera (10 kg) ed integra un casco semirigido ripiegabile. Viene indossata in autonomia (meglio se con un'altra persona che aiuta) entrando dal davanti per mezzo di due cerniere a “V”. Il cosmonauta ha già prima indossato la sottotuta refrigerata che viene collegata ad una specia di cordone ombelicale interno, a sua volta collegata a due bocchettoni che verranno agganciati al sistema di bordo una volta nell’abitacolo della Sojuz. Durante il trasferimento a terra, la tuta è collegata ad una valigetta di ventilazione ed al cosmonauta vengono fatti indossare dei sovra stivali di protezione.

La tuta Sokol è formata da due strati di materiale isolante chiamato Kapron e da un rivestimento esterno in nylon bianco. In condizioni normali, la tuta soffia 150 litri al minuto di aria dalla cabina, ma se la pressione scende sotto i 600 hPa, viene pompata aria dalle bombole. In un’emergenza la tuta viene mantenuta ad una pressione di 400 hPa ma, come per la Berkut, per consentire maggiore libertà di movimento può essere portata a 270 hPa con ossigeno puro. In questo caso sarà, però, necessaria una lunga manovra di decompressione una volta cessata l’emergenza.

La tuta può essere indossata fino a 30 ore e garantisce una sopravvivenza di 2 ore nel vuoto. Può galleggiare ed ha una paratia che consente di aprire la visiera in acqua senza il rischio di allagare la tuta.

La versione in uso è la Sokol KV-2, usata la prima volta durante la missione Sojuz-T2, il 5/6/1980.

Derivata dalla Sokol, anzi ne è una vera e propria copia in quanto acquistata e prodotta “su licenza” dalla Cina, è la tuta in uso dai Taikonauti cinesi. Rispetto alla KV-2 variano alcuni dettagli esterni, come la presenza di una cerniera a “T” e non a “V” sul davanti.

La Sokol fa parte di un complesso, realizzato su misura per ogni singolo utilizzatore, che comprende anche il sediolino. Questo gruppo deve “fasciare” in maniera perfetta il cosmonauta poiché, durante il rientro, il sediolino viene fatto avanzare da dei martinetti idraulici fin quasi a portare il viso del cosmonauta a sfiorare il pannello di controllo Neptune posto davanti a lui. Durante l’atterraggio “morbido”, i martinetti assorbono il momento d’inerzia dell’impatto e se il complesso non calza come un guanto, il cosmonauta potrebbe uscirne ferito.

Ultima tuta di fabbricazione Sovietica, mai usata con delle persone ma testata da un altro (ignoto) manichino durante il suo unico volo, il 15/11/1988, fu la Strizh, destinata ai cosmonauti della Buran.

La Strizh (che in russo non vuol dire paura ma Rondone...), è un’evoluzione della Sokol progettata per garantire protezione ai cosmonauti durante un ipotetico rientro di emergenza dalla Buran. Poiché la navetta sovietica, come la Shuttle americana, non era dotata di torre di salvataggio tio SAS come ad esempio la Sojuz, un eventuale avaria al lancio o durante il rientro, doveva essere gestita con un’espulsione per mezzo di sediolini ejettabili. La tuta Strizh poteva sopportare gli attriti e le pressioni che si sarebbero sviluppati durante un lancio col paracadute a velocità supersoniche.

Era rivestita di uno strato esterno in kevlar di colore arancione scuro e veniva rifornita d’aria, con le stesse modalità della Sokol, dal sistema di sostentamento della Buran o, in caso di emergenza, da un particolare supporto portatile chiamato BRS-1 (dall’acronimo di Bortovaja Regeneratsionnaja Sjstema, cioè sistema di rigenerazione di bordo), che era situato nel pavimento sotto ai sedili e veniva espulso con questi in caso di emergenza.

Venne progettata, ma mai realizzata, anche una particolare versione, chiamata Strizh-ESO che avrebbe consentito, come in un film di fantascienza, l’ingresso in atmosfera del cosmonauta dopo un’espulsione durante il rientro.

La Strizh poteva essere usata, durante il lancio, ad altitudini fino a 25 km, mentre durante il rientro, fino a 30 Km. Resisteva fino a Mach 4 e poteva essere indossata per 24 ore, garantendo una sopravvivenza nel vuoto di 12 ore. Pesava 18 kg.

Bene, in questo lungo racconto, abbiamo visto come quello che talvolta sembra “brutto” ed “obsoleto” in realtà è un tale concentrato di tecnologia da poter essere considerato una vera e propria cosmonave a sé stante!

Nota: Un'atmosfera di pressione sono 100 KPa (KiloPascal), quindi 1000 hPa.


ARTICOLO PUBBLICATO SULLA PAGINA FACEBOOK "LE STORIE DI KOSMONAUTIKA" IL 21/06/2021Link all'articolo su Facebook

La "Famiglia" Strizh. Notare a sinistra la Strizh ESO, speciale versione per i "rientri in atmosfera individuali"

(foto dal sito www.russianspaceweb.com)

La Tuta SK-1, quella delle Vostock

(insieme alla SK-2 che venne usata dalla Tereskhova)

La tuta Berkut, usata da Leonov durante la sua passeggiata spaziale del 18/3/1965

(foto dell'Autore)

La Jastreb, usata durante la missione Sojuz4/Sojuz5

(Foto dell'Autore)

La Tuta lunare Krechet

(Foto dell'Autore)

"Entrare nella tuta", così si fa...

(Foto dell'Autore)

La tuta Orlan

(Foto dell'Autore)

L'ultima versione della Orlan: la MKS

La tuta Sokol

(Foto dell'Autore)

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