SAS: un razzo per salvare un razzo

"O il petto tra le croci o la testa tra i cespugli..."

L’idea di un razzo per fare da scialuppa di salvataggio ad un altro razzo non è nuova, anzi. Proprio in Unione Sovietica, nei primi anni del dopoguerra, si era pensato di creare un piccolo abitacolo ad una V2 per poter recuperare il cosmonauta ante litteram durante un volo suborbitale. Ma è con i primi voli con equipaggio che si pensa a come trarre in salvo i cosmonauti in caso di avaria durante le prime, più pericolose, fasi della missione.

Le Vostok e le Voskhod non avevano un sistema che espellesse la sezione abitativa facendola atterrare in un luogo sicuro lontano dalla rampa. Il cosmonauta era seduto su di un seggiolino a slitta che veniva, come un Jet militare, espulso fuori in caso di avaria. Sistema che poteva avere una sua validità solo dopo che il veicolo aveva lasciato la torre di lancio. In caso di avaria durante le fasi di lancio e con il lanciatore ancora a terra, il cosmonauta sarebbe stato espulso troppo vicino alla rampa per evitare i danni di un’eventuale disastrosa esplosione a terra. I cosmonauti delle prime Vostock e delle due Voskhod hanno, in effetti, corso moltissimi rischi. La frase del sottotitolo fu di Pavel Popovic (Vostok-4): “O il petto tra le croci o la testa tra i cespugli…”, in buona sostanza, o ci dice bene oppure ci verrete a trovare al camposanto…

Lo studio per un sistema integrato di emergenza iniziò con i voli delle Vostok, parallelamente con l’inizio del progetto Sojuz. Nel 1961 venne creato il primo gruppo di studio per la realizzazione della torre di salvataggio SAS che nella prima versione, i cui collaudi iniziarono nel 1963, si chiamava OGB-SAS dalle iniziali delle parole “Sezione di testa ejettabile per il salvataggio in caso di avaria” in russo: Отделяемого Головного Блока – Система Аварийоного Спасения, una torre con in cima una “corona” di razzi a combustibile solido, e venne testato con dei lanci di prova che servirono ad affinarne le caratteristiche. Intanto, con le due missioni Voskhod, veniva sperimentato un altro componente essenziale per il rientro, sia normale che d’emergenza: il sistema di retrorazzi a combustibile solido che, innescati all’altitudine di 8 mt, garantivano il rientro degli occupanti senza dover ricorrere al sediolino slitta ed al paracadute individuale come, invece, necessario per le Vostok.

fasi del test del sistema SAS

Il sistema di lancio della Sojuz doveva essere, necessariamente, implementato con sensori in grado di individuare perdite di controllo, separazione prematura dei blocchi laterali, perdita di pressione nelle camere di combustione, perdita di velocità, perdita di spinta. In quest’ultimo caso venne sviluppato un sensore di assenza di peso che avrebbe innescato il sistema appunto in caso di caduta di spinta. In ultimo, in caso di guasto ad uno degli automatismi, esisteva un comando manuale, chiamato KRL-SAS, innescato via radio da uno speciale ufficiale chiamato lo “sparatore” che, tramite un segnale radio poteva azionare la procedura di emergenza, ad esempio in caso di incendio visibile da terra ma non rilevato dai sensori (come successe in uno dei collaudi e di cui vi ho parlato in un precedente articolo). L’ufficiale “sparatore” per moltissimi anni fuAlexei Shumilin.

Uno dei primi problemi che si pose agli ingegneri durante i collaudi fu l’impossibilità di separare tutta la sezione racchiusa nella copertura aerodinamica, quindi l’intera Sojuz composta, come sappiamo da: modulo abitativo (BO), Modulo di rientro (SA) e Modulo di servizio (PAO). La copertura aerodinamica venne divisa in due parti. Durante il distacco di emergenza, la torre SAS avrebbe espulso le sole due sezioni BO e SA lasciando la PAO agganciata al lanciatore.

In questo modo la prima versione del sistema SAS, appunto la OGB-SAS, operava con in seguenti parametri: In caso espulsione dalla rampa, la SAS portava la Sojuz ad un altitudine di 1,5 km con un carico di 10g per gli occupanti. Dopo 160 secondi, la torre veniva espulsa. In caso di ulteriori avarie durante l’accensione del secondo stadio e durante quella del terzo, sono tutt’ora previste specifiche procedure che vedremo più avanti. Nella prima versione la OGB-SAS riusciva a far atterrare la Sojuz con il paracadute di emergenza. Il tradizionale atterraggio “morbido” “a la russe” era ancora più brutale…

Con la versione T della Sojuz vennero implementati nuovi motori per la torre SAS, in grado di portare la Sojuz ad un altitudine di 2,5 km che consentiva l’utilizzo, per l’atterraggio, del paracadute principale (con grande sollievo per gli occupanti…). Inoltre, due piccoli motori vennero posti sulla copertura aerodinamica che avrebbero allontanato lateralmente la Sojuz dalla traiettoria del secondo stadio. A causa del maggior peso del sistema, la torre venne espulsa non più dopo 160 secondi dal lancio ma dopo 123.

Con le Sojuz TM, venne radicalmente cambiato il sistema dei motori a combustibile solido che a fronte di maggior potenza potevano offrire una sezione frontale ridotta a vantaggio del carico utile. Il distacco della torre passò quindi agli attuali 114 secondi dal lancio.

La torre SAS viene armata 15 minuti prima del lancio. In caso di attivazione, è in grado di sparare la Sojuz alla velocità di 150 m/s fino ad un altitudine di 2,5 KM con un’accensione dei motori di soli 6 secondi.

Come ho detto esistono tre differenti protocolli di emergenza, tutti e tre collaudati sul campo in missioni reali con equipaggio.

Il primo caso è l’avaria sulla torre. Come successo durante la missione Sojuz T-10. 

Il 26/9/1983 durante il lancio venne attivato il sistema automatico 90 secondi prima del lancio a causa di un'avaria di una valvola di una delle pompe del combustibile del blocco B (uno dei razzi del primo stadio). Il sistema ha innescato la torre ed i due cosmonauti Vladimir Titov e Gennadi Strekalov, pur subendo un accelerazione di più di 10G, vennero recuperati sani e salvi (un po’ scossi ma abbastanza in sé da bere degli shot di vodka e di fumarsi una sigaretta). Il modulo di rientro SA è stato, pensate un po’, recuperato e riutilizzato,sulla Sojuz T-15 lanciata il 13/3/1986 e destinata a passare alla storia per essere quella che ha effettuato il trasloco tra la Saljut-7 e la MIR. E poi dicono che i Russi non sanno fare veicoli riutilizzabili…

Evoluzione del sistema SAS

Nel secondo caso, l’avaria si verifica durante la separazione tra il primo ed il secondo stadio. La torre SAS è stata già espulsa ma la copertura aerodinamica è ancora agganciata. Come successo durante la missione Sojuz MS-10.

L’11/10/2018, al 121 secondo dal lancio, il sistema di sicurezza ha registrato l’avaria della valvola del Blocco D (uno dei razzi laterali del primo stadio) che ha impedito a questo di staccarsi correttamente dal secondo stadio rimanendo agganciato a questo in modo precario. A seguito delle vibrazioni, il blocco D ha impattato con il secondo stadio causando una violenta depressurizzazione del serbatoio. Il sistema ha arrestato la combustione del secondo stadio, sganciato rapidamente la sezione BO e SA ancora dentro la copertura aerodinamica usando i getti di questa necessari al suo allontanamento laterale dal secondo stadio. La Sojuz ha raggiunto l’altitudine di 93 km (Il Comandante Alexei Ovicin e lo specialista americano Nick Hague non poterono fregiarsi del titolo rispettivamente di Cosmonauta ed astronauta per appena 5 km…), rientrando con una traiettoria balistica subendo, per fortuna, solo 7G di decelerazione. Dopo 19 minuti e 43 secondi dal lancio, la Sojuz è atterrata senza problemi con l’equipaggio illeso.

Il terzo caso è quello più complicato: l’avaria si verifica dopo la separazione tra il secondo ed il terzo stadio. Come avvenne durante la missione Sojuz-18/1 (di cui ho parlato nel mio libro al capitolo “L’anomalia del 5 aprile” e sul blog all’articolo omonimo).

Il 5/4/1975 venne lanciata, con a bordo i cosmonauti Oleg Makarov e Vasilji Lazarev, da Baikonur la Sojuz con l’obiettivo di raggiungere la stazione spaziale Saljut-4. Durante il 288 secondo dal lancio, avvenne un’anomalia nella separazione tra secondo e terzo stadio. Questi due componenti sono uniti da una griglia metallica che serve per far sfogare il motore del terzo stadio il quale viene azionato qualche secondo prima del distacco per poter avere il massimo regime di potenza. Ma il comando di distacco non separò correttamente il terzo stadio dal secondo che restò, per così dire, appeso penzoloni generando un vettore di spinta sfalsato. Il sistema di emergenza espulse la Sojuz che era già libera della copertura aerodinamica e, usando i motori orbitali di questa, generò la spinta necessaria per rallentarla facendola rientrare nell’atmosfera. Purtroppo, il vettore di spinta durante la frenata era invertito di 90° rispetto a quello usuale. I cosmonauti subirono 21,3G negativi cosa che li portò ad avere pesanti conseguenze fisiche, in particolar modo Lazarev che venne dichiarato inabile al volo a causa di una forte compressione vertebrale. Durante l’atterraggio finirono su di un fianco di una montagna innevata rotolando nel bosco innevato per centinaia di metri alla tiepida temperatura di -7°C. Rischiarono anche di vedersi negato il compenso stabilito al compimento della missione che, grazie all’interessamento diretto del Premier Breznev, ottennero tempo dopo.

Analoga al sistema LAS in uso dagli americani per le Mercury, le Gemini e l’Apollo, presenta delle singolari caratteristiche, come le alette aerofrenanti direzionali, che sono poi oggi diventate protagoniste dell’immaginario collettivo essendo impiegate nel primo stadio del Falcon-9 e sulla futura Starhsip di SpaceX. Inoltre, è l’unico sistema che ha realmente verificato sul campo le sue qualità di dispositivo salvavita. Nel prossimo capitolo, parleremo delle squadre di soccorso, la componente “a terra” del sistema di salvataggio e sicurezza del volo che contraddistingue le missioni spaziali sovietiche e russe.

Schema del salvataggio della missione Sojuz MS-10

ARTICOLO PUBBLICATO SULLA PAGINA FACEBOOK "LE STORIE DI KOSMONAUTIKA" IL 15/02/2022
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