Ogni tanto, (un po’ troppo frequentemente, in verità, negli ultimi tempi) ci si “diverte”, da parte dei media occidentali, a rimarcare qualsiasi piccolo intoppo che succede nella sezione russa della ISS paventando, ogni volta, il “Deterioramento dei rapporti tra i due partner” (Segnatamente Usa e Russia).
Ma ci si dimentica che, nello spazio come in aria ed in mare, vale il diritto della navigazione che prevede anche che si debba prestare soccorso ad un veicolo in difficoltà. Per questo motivo, almeno a far data dalla missione congiunta “Apollo/Sojuz”, sono previsti dei protocolli per l’atterraggio “fuori zona”. Oltre alle steppe del Kazakistan, infatti, un veicolo Sojuz può atterrare nelle praterie degli Stati Uniti, nella tundra canadese o, addirittura in mare: nell’Oceano Indiano e nel Mar del Giappone. Oggi, nonostante certa stampa si diverta a scrivere il contrario, le agenzie spaziali internazionali collaborano a tutti i livelli, ma durante la guerra fredda? Sembra impossibile che due nazioni che si guardavano in cagnesco prevedano azioni di mutuo soccorso in caso di atterraggio forzato in territorio, per così dire “ostile” ma è andata proprio così, e la cosa, segreta fino alla “caduta della cortina di ferro”, venne scoperta in maniera fortuita.
Siamo nel 1979, è in corso la missione della Sojuz-33, un volo che doveva portare sulla stazione spaziale Sovietica “Saljut-6” un equipaggio misto composto, nell’ambito del programma “Interkosmos” da un Cosmonauta Sovietico, Nikolai Rukavishnikov, ed il primo Cosmonauta Bulgaro: Georgy Ivanov. Alla distanza di 4 Km dalla stazione, il sistema di propulsione direzionale che gestisce la fase finale dell’attracco automatizzato, entrò in avaria. Di conseguenza, l’attracco alla stazione venne abortito e l’equipaggio fatto rientrare a terra. L’avaria non era, però, solo al sistema direzionale, difatti investì anche il sistema di frenata. L’errata accensione del propulsore, provocò un rientro di tipo “Balistico” cioè ad elevato angolo di ingresso. Questo tipo di rientro, peraltro previsto nelle procedure di emergenza, provocò, oltre ad un carico di circa 8G per i cosmonauti (cosa alla quale vengono, comunque, addestrati), il rientro molto fuori zona: esattamente a 320 Km dalla zona bersaglio. Ma tra le possibili zone di atterraggio vi erano, come accennato, luoghi in territorio statunitense, canadese e persino il Mar del Giappone. Ma come ce se ne accorse, dato il regime di segretezza?
Fu per merito di un radioamatore: Mark Severance. E come ci riuscì? Beh, bisogna fare una premessa: durante la fase finale della discesa, prima che il veicolo spaziale rientri negli strati alti dell’atmosfera e perda il contatto con il centro di controllo (tecnicamente si chiamano “orbite sorde”), vengono date delle istruzioni all’equipaggio con le quali si comunicano i numeri delle orbite ed i relativi “angoli di atterraggio” (угол посадький, leggi Ugol Posad’kji). Mark Severance, il nostro radioamatore, compilò una tabella con questi dati, ma non capendo il significato di quella parola, non andò oltre l’annotazione dei dati. Qualche tempo dopo, un altro radioamatore, che ebbe occasione di incontrare il cosmonauta Vladimir Shatalov (recentemente scomparso, vedi mio articolo a proposito), si fece spiegare il significato di quella parola ed integrò la tabella di Severance con le coordinate ottenute calcolando, appunto, il luogo di atterraggio sulla base della velocità all’ingresso nell’atmosfera, il relativo angolo di discesa e l’orbita in cui sarebbe avvenuta la retrofrenata. Il risultato fu incredibile, per quei tempi di guerra fredda: alcune aree, infatti, erano situate in Nord America: Texas, Nord Dakota ed al confine con il Canada. Altre aree nel Mar del Giappone. Analizzando altri dati, relativi ad intercettazioni di precedenti voli, si è arrivati, a ritroso, fino alla missione congiunta Apollo ASTP/Sojuz-19. Anche in questo caso, in conseguenza dei famosi “angoli di atterraggio” comunicati a Leonov ed a Kubasov, la Sojuz-19, in caso di emergenza, sarebbe potuta atterrare in Canada, Ucraina e, persino, in Francia!
La cosa, come ho detto all’inizio, potrebbe stupire ma, se inquadrata, appunto, nelle convenzioni previste dal diritto internazionale della navigazione, ha perfettamente senso.
Sul fondo della sezione SA della Sojuz, il modulo che rientra a terra, ci sono scritte in russo ed in inglese su come debba essere trattata la navicella prima di avvicinarsi e tentare l’estrazione dell’equipaggio. Ma, in più, oggi è noto che la prima missione umana nello spazio, il volo di Gagarin del 12/4/1961, venne preceduta da un dispaccio internazionale con la possibilità di richiesta di aiuto per ogni nazione che sarebbe stata interessata dal sorvolo della Vostock-1.
Insomma, in caso di necessità, da sempre, le questioni politiche sarebbero state lasciate a chi fa questo di mestiere. La prima cosa sarebbe stata solo ed unicamente il soccorso e la messa in sicurezza dell’equipaggio. Di qualsiasi nazionalità esso sia.
Un ringraziamento al sito www.popmech.ru per l’articolo, a firma di Pavel Haiduk, dal quale ho tratto ispirazione e materiale fotografico.
L'equipaggio della navicella spaziale Soyuz-33, il comandante del veicolo spaziale Nikolai Rukavishnikov e l'ingegnere di volo, il primo cosmonauta bulgaro Georgy Ivanov
La tabella, compilata da Mark Severance ed integrata dai calcoli di Sven Gran con la determinazione delle coordinate di atterraggio relative ad ogni possibile deorbita ed angolo di atterraggio impostato
Il pannello del sistema Neptune di guida e controllo sulle vecchie Sojuz dove venivano impostati i dati dell'angolo di atterraggio.
Mappa dei possibili siti di atterraggio della Sojuz-33
Le scritte bilingui sul fondo del modulo SA della Sojuz che spiegano come comportarsi per avvicinarsi ed estrarre l'equipaggio
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