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Orlando pazzo d'amore
Orlando pazzo d'amore
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Orlando furioso, XXIII, 129-136; XXIV, 1-13.
129
Pel bosco errò tutta la notte il conte;
e allo spuntar della dïurna fiamma
lo tornò il suo destin sopra la fonte
dove Medoro insculse l’epigramma.
Veder l’ingiuria sua scritta nel monte
l’accese sí, ch’in lui non restò dramma
che non fosse odio, rabbia, ira e furore;
né piú indugiò, che trasse il brando fuore.
130
Tagliò lo scritto e ’l sasso, e sin al cielo
a volo alzar fe’ le minute schegge.
Infelice quell’antro, et ogni stelo
in cui Medoro e Angelica si legge!
Cosí restar quel dí, ch’ombra né gielo
a pastor mai non daran piú, né a gregge:
e quella fonte, giá si chiara e pura,
da cotanta ira fu poco sicura;
131
che rami e ceppi e tronchi e sassi e zolle
non cessò di gittar ne le bell’onde,
fin che da sommo ad imo sí turbolle,
che non furo mai piú chiare né monde.
E stanco al fin, e al fin di sudor molle,
poi che la lena vinta non risponde
allo sdegno, al grave odio, all’ardente ira,
cade sul prato, e verso il ciel sospira.
132
Afflitto e stanco al fin cade ne l’erba,
e ficca gli occhi al cielo, e non fa motto.
Senza cibo e dormir cosí si serba,
che ’l sole esce tre volte e torna sotto.
Di crescer non cessò la pena acerba,
che fuor del senno al fin l’ebbe condotto.
Il quarto dí, da gran furor commosso,
e maglie e piastre si stracciò di dosso.
133
Qui riman l’elmo, e lá riman lo scudo,
lontan gli arnesi, e piú lontan l’usbergo:
l’arme sue tutte, in somma vi concludo,
avean pel bosco differente albergo.
E poi si squarciò i panni, e mostrò ignudo
l’ispido ventre e tutto ’l petto e ’l tergo;
e cominciò la gran follia, sí orrenda,
che de la piú non sará mai ch’intenda.
134
In tanta rabbia, in tanto furor venne,
che rimase offuscato in ogni senso.
Di tor la spada in man non gli sovenne;
che fatte avria mirabil cose, penso.
Ma né quella, né scure, né bipenne
era bisogno al suo vigore immenso.
Quivi fe’ ben de le sue prove eccelse,
ch’un alto pino al primo crollo svelse:
135
e svelse dopo il primo altri parecchi,
come fosser finocchi, ebuli o aneti;
e fe’ il simil di querce e d’olmi vecchi,
di faggi e d’orni e d’illici e d’abeti.
Quel ch’un ucellator che s’apparecchi
il campo mondo, fa, per por le reti,
dei giunchi e de le stoppie e de l’urtiche,
facea de cerri e d’altre piante antiche.
136
I pastor che sentito hanno il fracasso,
lasciando il gregge sparso alla foresta,
chi di qua, chi di lá, tutti a gran passo
vi vengono a veder che cosa è questa.
Ma son giunto a quel segno il qual s’io passo
vi potria la mia istoria esser molesta;
et io la vo’ piú tosto diferire,
che v’abbia per lunghezza a fastidire.
1
Chi mette il piè su l’amorosa pania,
cerchi ritrarlo, e non v’inveschi l’ale;
che non è in somma amor, se non insania,
a giudizio de’ savi universale:
e se ben come Orlando ognun non smania,
suo furor mostra a qualch’altro segnale.
E quale è di pazzia segno piú espresso
che, per altri voler, perder se stesso?
2
Varii gli effetti son, ma la pazzia
è tutt’una però, che li fa uscire.
Gli è come una gran selva, ove la via
conviene a forza, a chi vi va, fallire:
chi su, chi giú, chi qua, chi lá travia.
Per concludere in somma, io vi vo’ dire:
a chi in amor s’invecchia, oltr’ogni pena,
si convengono i ceppi e la catena.
3
Ben mi si potria dir:- Frate, tu vai
l’altrui mostrando, e non vedi il tuo fallo.-
Io vi rispondo che comprendo assai,
or che di mente ho lucido intervallo;
et ho gran cura (e spero farlo ormai)
di riposarmi e d’uscir fuor di ballo:
ma tosto far, come vorrei, nol posso;
che ’l male è penetrato infin all’osso.
4
Signor, ne l’altro canto io vi dicea
che ’l forsennato e furïoso Orlando
trattesi l’arme e sparse al campo avea,
squarciati i panni, via gittato il brando,
svelte le piante, e risonar facea
i cavi sassi e l’alte selve; quando
alcun’ pastori al suon trasse in quel lato
lor stella, o qualche lor grave peccato.
5
Viste del pazzo l’incredibil prove
poi piú d’appresso e la possanza estrema,
si voltan per fuggir, ma non sanno ove,
sí come avviene in subitana tema.
Il pazzo dietro lor ratto si muove:
uno ne piglia, e del capo lo scema
con la facilitá che torria alcuno
da l’arbor pome, o vago fior dal pruno.
6
Per una gamba il grave tronco prese,
e quello usò per mazza adosso al resto:
in terra un paio addormentato stese,
ch’al novissimo dí forse fia desto.
Gli altri sgombraro subito il paese,
ch’ebbono il piede e il buono aviso presto.
Non saria stato il pazzo al seguir lento,
se non ch’era giá volto al loro armento.
7
Gli agricultori, accorti agli altru’esempli,
lascian nei campi aratri e marre e falci:
chi monta su le case e chi sui templi
(poi che non son sicuri olmi né salci),
onde l’orrenda furia si contempli,
ch’a pugni, ad urti, a morsi, a graffi, a calci,
cavalli e buoi rompe, fraccassa e strugge;
e ben è corridor chi da lui fugge.
8
Giá potreste sentir come ribombe
l’alto rumor ne le propinque ville
d’urli e di corni, rusticane trombe,
e piú spesso che d’altro, il suon di squille;
e con spuntoni et archi e spiedi e frombe
veder dai monti sdrucciolarne mille,
et altritanti andar da basso ad alto,
per fare al pazzo un villanesco assalto.
9
Qual venir suol nel salso lito l’onda
mossa da l’austro ch’a principio scherza,
che maggior de la prima è la seconda,
e con piú forza poi segue la terza;
et ogni volta piú l’umore abonda,
e ne l’arena piú stende la sferza:
tal contra Orlando l’empia turba cresce,
che giú da balze scende e di valli esce.
10
Fece morir diece persone e diece,
che senza ordine alcun gli andaro in mano:
e questo chiaro esperimento fece,
ch’era assai piú sicur starne lontano.
Trar sangue da quel corpo a nessun lece,
che lo fere e percuote il ferro invano.
Al conte il re del ciel tal grazia diede,
per porlo a guardia di sua santa fede.
11
Era a periglio di morire Orlando,
se fosse di morir stato capace.
Potea imparar ch’era a gittare il brando,
e poi voler senz’arme essere audace.
La turba giá s’andava ritirando,
vedendo ogni suo colpo uscir fallace.
Orlando, poi che piú nessun l’attende,
verso un borgo di case il camin prende.
12
Dentro non vi trovò piccol né grande,
che ’l borgo ognun per tema avea lasciato.
V’erano in copia povere vivande,
convenïenti a un pastorale stato.
Senza il pane discerner da le giande,
dal digiuno e da l’impeto cacciato,
le mani e il dente lasciò andar di botto
in quel che trovò prima, o crudo o cotto.
13
E quindi errando per tutto il paese,
dava la caccia e agli uomini e alle fere;
e scorrendo pei boschi, talor prese
i capri isnelli e le damme leggiere.
Spesso con orsi e con cingiai contese,
e con man nude li pose a giacere:
e di lor carne con tutta la spoglia
piú volte il ventre empí con fiera voglia.
Giorgia Di Massimo