“Narciso e Boccadoro”, parte conclusiva del Capitolo XX, Hermann Hesse.
Nel clima del medioevo leggendario del cattolicesimo monastico, nasce e si sviluppa l'avvincente amicizia fra il dotto e ascetico Narciso, destinato a una brillante carriera religiosa al riparo dalle insidie del mondo, e Boccadoro, l’artista geniale e vagabondo, tentato dall’infinita ricchezza della vita e segretamente innamorato anche della sua caducità. Hermann Hesse, con questo romanzo del 1930, riflette sul contrasto fra natura e spirito, fra eros e logos, fra arte e ascesi, alla ricerca di una loro possibile conciliazione e pone al lettore, in una limpida fusione di favola simbolica e romanzo picaresco i grandi ed inquietanti interrogativi sulla condizione dell’uomo contemporaneo.
“Pensi sempre a morire?” domandò Narciso. “Si, ci penso, e penso a quello ch'è diventata la mia vita. Quand’ero giovinetto e ancora tuo scolaro, avevo il desiderio di diventare una persona spirituale come te. Tu mi hai mostrato che non era la mia vocazione. Allora mi sono gettato dall’altra parte della vita, quella dei sensi, e le donne mi hanno aiutato a trovar lì il mio piacere: sono così volenterose e avide! Ma non vorrei parlare di loro con disprezzo e neppure del piacere sensuale; sono stato spesso molto felice. E ho avuto anche la fortuna di sperimentare come la sensualità possa venir animata. Di qui nasce l’arte. Ma ora le due fiamme sono spente. Non ho più la felicità bruta della voluttà… e non l’avrei nemmeno se le donne mi corressero dietro ancora. E anche creare opere d’arte non è più il mio desiderio; di statue ne ho fatte abbastanza, non è il numero che conta. Perciò è ora per me di morire. Sono pronto e curioso della morte.” “Perché curioso?” domandò Narciso. “Mah, E forse un po’ sciocco da parte mia. Eppure sono davvero curioso. Non dell’al di là, Narciso, di questo mi do poco pensiero e, se mi è lecito dirlo apertamente, non ci credo più. Non c’è un al di là. L’albero disseccato è morto per sempre, l’uccello assiderato non torna più in vita e così pure l’uomo quando è morto. Si può pensare a lui per qualche tempo, dopo che se n’è andato, ma anche questo non dura a lungo. No, sono curioso della morte, perché la mia fede o il mio sogno è sempre di essere in cammino verso mia madre. Spero che la morte sia una grande felicità, una felicità grande come quella del primo appagamento dell’amore. Non posso staccarmi dal pensiero che, invece della morte armata di falce, sarà mia madre a riprendermi con sé e a ricondurmi nel nulla e nell’innocenza.” In una delle sue ultime visite, dopo parecchi giorni che Boccadoro non parlava più, Narciso lo trovò di nuovo sveglio e loquace. “Padre Antonio pensa che tu devi avere spesso grandi sofferenze. Come fai, Boccadoro, a sopportarle con tanta tranquillità? Mi sembra che ora tu abbia trovato la pace.” “Intendi la pace con Dio? No, questa non l’ho trovata. Non voglio far pace con lui. Egli ha creato male il mondo, non c'è bisogno che noi lo esaltiamo, e anche a lui importerà poco anche io lo esalti o no. Ha creato male il mondo. Ma con le sofferenze nel mio petto ho fatto la pace, questo è vero. Prima non sapevo sopportar bene i dolori, e, quantunque talvolta fossi del parere che la morte mi sarebbe stata lieve, era un errore. Quando dovevo morire sul serio, quella notte nella prigione del conte Enrico, ne ebbi la rivelazione: non potevo assolutamente morire, ero ancora troppo forte e troppo indomito, avrebbero dovuto ammazzare due volte ogni membro del mio corpo. Ma ora è un’altra cosa.” Parlare lo stancava, la sua voce s’affievoliva. Narciso lo pregò di avere riguardo per sé. “No”, insisté, “voglio raccontarlo. Prima mi sarei vergognato a dirtelo. Dovrai ridere. Quel giorno che salii sul mio cavallo e partii di qui, non fu proprio senza uno scopo. Avevo sentito dire che il conte Enrico era ancora nel paese e con lui la sua amante, Agnese. Ebbene, questo non ti sembra importante, e neppure a me oggi sembra importante. Ma allora la notizia mi bruciò sul vivo, non pensai più che ad Agnese; era la più bella donna che avessi conosciuta e amata, volevo rivederla, volevo essere felice ancora una volta con lei. Dopo una settimana di cavalcate, la trovai. Là, in quell’ora, avvenne la mia trasformazione. Trovai dunque Agnese: non era meno bella d’un tempo ed ebbi anche occasione di mostrarmi a lei e di parlarle. E pensa, Narciso, non voleva più saperne di me! Ero diventato troppo vecchio per lei, non ero più abbastanza bello e gaio, non si riprometteva più nulla da me. Con ciò il mio viaggio era propriamente finito. Continuai a cavalcare; non volevo ritornare da voi così deluso e ridicolo, e, mentre cavalcavo così, la forza, la giovinezza, il senno mi avevano già abbandonato, poiché precipitai col mio cavallo in una gola e in un torrente, mi ruppi le costole e rimasi nell’acqua. Allora per la prima volta conobbi le vere sofferenze. Cadendo sentii subito spezzarsi qualcosa dentro il mio petto e quello spezzarsi mi fece piacere, lo sentii volentieri, ne fui contento. Rimasi nell’acqua e compresi che dovevo morire, ma tutto era diverso da allora quand’ero nella prigione. Non avevo nulla in contrario, la morte non mi pareva più un male. Sentii quei dolori violenti, che da allora ho riavuti spesso, ed ebbi un sogno o una visione, come vuoi chiamarla. Ero là disteso e il petto mi bruciava dolorosamente e io volevo difendermi e gridare, ma un tratto udii una voce che rideva, una voce che non avevo più udita dalla mia infanzia. Era la voce di mia madre, una voce femminile profonda, piena di voluttà e d’amore. E allora vidi che era lei, che mia madre era presso di me e mi aveva sul suo grembo e mi apriva il petto e affondava le sue dita fra le mie costole, per liberarne il cuore. Quando vidi e compresi questo, non sentii più male. Anche ora, quando i dolori mi ritornano, non sono dolori, non sono nemici; sono le dita della madre, che mi prendono fuori il cuore. Ella è zelante nell’opera sua. Talvolta preme e geme, come in voluttà. Talvolta ride e mormora suoni teneri. Talvolta non è accanto a me, ma su in cielo: io vedo fra le nubi il suo volto, grande come una nube, là essa vaga e sorride con tristezza, e il suo triste sorriso mi sugge il cuore dal petto.” Tornava sempre a parlare di lei, della madre. “Ricordi ancora?” domandò uno degli ultimi giorni. “Una volta avevo dimenticato mia madre, ma tu la rievocasti. Anche allora mi fece molto male, come se fauci di belve mi divorassero le viscere. Allora eravamo ancora giovinetti, eravamo dei bei ragazzi. Ma già allora la madre mi aveva chiamato e io dovetti seguirla. Ella è dappertutto. Era la zingara Lisa, era la bella Madonna di maestro Nicola, era la vita, l’amore, la voluttà, era anche l’angoscia, la fame, l’istinto. Ora è la morte, ha le sue dita nel mio petto.” “Non parlar troppo, caro”, pregò Narciso, “aspetta fino a domani”. Boccadoro lo guardò negli occhi col suo sorriso, con quel sorriso nuovo che aveva riportato dal suo viaggio, che appariva così vecchio e malato e a volte sembrava un po’ ebete, a volte era tutto luce di bontà e di saggezza. “Mio caro”, bisbigliò, “non posso aspettare fino a domani. Debbo prendere congedo da te come congedo debbo dirti ancora tutto. Ascoltami un momento ancora. Volevo raccontarti della madre, che mi tiene le dita strette intorno al cuore. Da molti anni, creare una figura della madre è stato il mio sogno più caro e più misterioso, era per me la più santa di tutte le immagini, me la portai sempre in cuore, una figura piena d’amore e piena di mistero. Ancora poco tempo fa mi sarebbe stato insopportabile il pensiero di dover morire senza aver realizzato questo mio sogno; tutta la mia vita mi sarebbe apparsa inutile. E ora guarda che strano destino: invece di essere le mie mani e formarla e plasmarla, è lei a formare a plasmare me. Ha le sue mani intorno al mio cuore e lo stacca dal mio corpo e mi svuota; mi ha allettato a morire, e con me muore anche il mio sogno, la bella figura, l’immagine della grande Eva-Madre. La vedo ancora e, se avessi forza nelle mani, potrei darle forma. Ma essa non vuole, non vuole che io renda visibile il suo mistero. Preferisce che io muoia. Muoio volentieri: essa mi rende facile il trapasso.” Narciso ascoltava costernato quelle parole e dovette chinarsi fin sul volto dell’amico per poter afferrarle ancora. Alcune gli giunsero indistinte, altre chiare, ma il loro significato gli rimase nascosto. Poi il malato spalancò gli occhi ancora una volta e fisso a lungo il viso dell’amico. Con gli occhi prese congedo da lui e con un movimento, quasi tentasse di scuotere la testa, sussurrò: “Ma come vuoi morire un giorno, Narciso,se non hai una madre? Senza madre non si può amare. Senza madre non si può morire”. Ciò che mormorò ancora in seguito non fu più comprensibile. Le due ultime giornate Narciso rimase seduto al suo letto giorno e notte, e lo guardò spegnersi. Le ultime parole di Boccadoro gli bruciavano nel cuore come fuoco.
“Narciso e Boccadoro” è uno dei libri più belli che abbia mai letto, talmente tanto bello e poetico da essere stata spinta a rileggerlo per ben quattro volte consecutive dopo averlo acquistato. Lo stupendo legame di amicizia che unisce Narciso, dedito alla vita religiosa e con una fede immensa, e Boccadoro, spirito indomabile sempre pronto all’avventura, è una delle amicizie più belle esistenti nel mondo della letteratura. Ho deciso di presentare qui le ultime quattro pagine del capitolo XX perché le ritengo molto significative nel rappresentare ciò che l’autore ha voluto raccontare: il connubio perfetto tra temi apparentemente discordanti. Consiglio assolutamente a tutti voi la lettura del libro in questione e sono certa, tanta è la bellezza del romanzo, che qualche lacrima, arrivati al termine della storia, righerà il vostro volto. Boccadoro vi trascinerà nelle sue fenomenali avventure e nei suoi pensieri più profondi. Concludo con un messaggio significativo del romanzo: trovare la propria strada implica un percorso diverso per ognuno di noi, anche se si è amici e anche se ci si trova nello stesso posto. Mai costringersi in vesti che non sono in grado di valorizzare l’essenza dell’individuo.
Giorgia di Massimo