Assisi

La Divina Commedia, summa opera nello scenario italiano e non, è immancabilmente intrisa d’un realismo vibrante. Un realismo da ritenersi pittorico, poietico. Il magistral poeta, infatti, delinea immagini vivide e palpitanti, evoca percezioni palpabili e chiare. Ragion per cui, accadimenti storici, spaccati paesaggistici e riferimenti topografici, tribolazioni d’animo e pulsioni umane, le sevizie dei dannati e il gaudio dei beati prendono vita in un coacervo di dissonanti sfumature cromatiche e di sensazioni eterogenee. Volenti o nolenti, la proiezione ideale dell’oltretomba, così com’è radicata nell’immaginario comune, non è avulsa dal condizionamento del sommo Poeta. Dante ha reso tangibile l’imperscrutabile. E se dell’Inferno s’ha la percezione d’averne avvertito il fiato rovente, del Paradiso, così evanescente ed impalpabile, s’è udita appena la sinfonia dolce, ci si è lasciati carezzare da un lucore accecante. Così, pare d’aver sentito scorrere sulla propria pelle i rivoli di sangue sgorganti, caldi e celeri, dalle fronde dei suicidi. Le stesse fronde seviziate dalle Arpie (Inferno XIII). Oppure, s’ha l’impressione d’averla vista dinanzi a sé la processione mistica del canto XXXII del Purgatorio. Le vicissitudini cui è andata incontro la Chiesa si mostrano celeri, in un turbinoso susseguirsi di fotogrammi: in un lampo l’Aquila plana sul carro della Chiesa, ne spezza l’albero maestro; un drago famelico ne frantuma il fondo; voluttuosa e piacente la Chiesa siede con sguardo suadente. Infine, ci si convince (quasi) d’aver infranto l’inesplicabilità della Trinità da considerarsi quale sovrapposizione di 3 circonferenze. Esse sono concentriche e d’una sola “contenenza”, paiono una il riflesso dell’altra “come da iri a iri” (Paradiso XXXIII). Seppur sparuti esempi bastino a render l’idea della forza poietica e pittorica dei versi danteschi, v’è ben altro di cui stupirsi. Il poeta, infatti, non soltanto ha infusa la vita nella finzione letteraria, ma ha permesso ai lettori, per mezzo di puntuali digressioni geografiche, di vivere i luoghi della Commedia, di percepirne la calura, di ammirarne le prodezze, le bellezze naturalistiche. L’opera fa da eco all’immaginario e, allo stesso tempo, è l’acuto specchio del reale. Alla luce di tali considerazioni, è mirabile la dovizia di particolari nell’esplicare ove la città di Assisi sia situata (canto XI Paradiso). Lo spaccato paesaggistico in cui sorge “Ascesi” è d’un rigore impressionante: pare di guadarne i fiumi, di valicarne i monti; pare che il vento spiri sulle gote del lettore, ne pervada la pelle di brividi gelidi. “Intra Tupino e l’acqua che discende dal colle eletto del beato Ubaldo”: tale è il verso incipitario della suddetta digressione. Ascesi è “l’Oriente” del mondo cui si devono i natali dell’umil Santo: iI paladino che, primo di ogni altro, ha presa in sposa la Povertà, rinnegato lo sfarzo, fatta propria la frugalità. L’Oriente del mondo si erge, maestoso, tra due corsi d’acqua. Questi, color lapislazzuli, bagnano le distese verdi sconfinate del territorio umbro, ne nutrono gli imponenti monti; ne dissetano le radici profonde, avide. Il primo, il fiume Topino (un tempo noto quale Supunna, poi col denominativo di Timia sino all’attuale appellativo), origina dal monte Pennino. Sgorga alacre traversando terreni umbri, riecheggia vivace nel suo perpetuo sciabordare. Lo stesso s’insinua, dolce, nel comune di Nocera Umbra: prosegue la sua corsa, irrefrenabile. Dà, poi, vita alle suggestive, scroscianti cascate delle Ferce per poi confluire, in ultima istanza, nel più poderoso Tevere. In esso s’annulla, perde la sua voce ma soltanto dopo aver raccolto in sé le acque d’altri corsi d’acqua minori quali Alveolo, Ose, Clitunno. Il poeta prosegue, poi, nell’intento di plasmare, poco a poco, l’idea d’un luogo che prende vita. Un altro corso d’acqua si delinea nell’immaginario: “l’acqua che discende del colle eletto del beato Ubaldo”. Tramite tal perifrasi egli intende significare il fiume Chiascio le cui acque sgorgano inesorabili originando dal monte Ansciano nei pressi di Gubbio. Il citato fiume umbro è affluente in sinistra del Tevere. In esso convergono numerosi corsi minori tali da incrementarne il flusso tra i quali si considerino il Doria, il Rasina ed il Saonda. Ad un certo punto della sua corsa, esso s’insinua nei territori facenti parte del comune della città madre cui s’ha fatta illusione in esordio. In tal zona, il corso d’acqua fa da “cicerone” aprendo la via ad una vista mozzafiato. Ci si trova innanzi, tutto ad un tratto, il castello di Petrignano di matrice e stile medievale che, nel contado assisano, s’erge nella sua magnificenza dalla spiccata nota antiquaria. Di esso, si noti il torrione orientale, eretto in funzione di baluardo difensivo e significativamente imperioso. Si tratta, dunque, del guardingo, tenace difensor di pietra. A pochi metri da Ascesi ne ha costituito il guardiano perpetuo di remota memoria. Rifacendosi nuovamente alla perifrasi di cui sopra, s’è detto dell’Ansciano che esso fosse l’eletto monte del vescovo Ubaldo Baldassini. Infatti, egli vi si recava in eremitaggio, lungi dalla mera dimensione terrena in una solitudine ch’apre la via al trascendentale, alla comunione d’intenti con Dio. Ora è la volta che si citi il Subasio o meglio la “fertile costa (che) d’alto monte pende”. Esso s’erge, nella sua maestosità silente, ed i corsi d’acqua cui s’alludeva in precedenza ne fanno da cornice. Il versante occidentale dello stesso è scudo protettivo dal turbinio dei più impetuosi dei venti che essi spirino arida calura o che imperversino rigide correnti (“onde Perugia sente freddo e caldo”). Esso è lo strenuo difensore del quieto vivere perugino. Infatti, è esattamente alle pendici di questi che sorge il fitto intrico di cunicoli, monumenti, abitazioni e chiese della città che, di matrice etrusca, fu successivamente plasmata dall’influenza medievale. Proprio in virtù dell’origine etrusca, il sapiente poeta fa allusione alla porta Sole (“da porta Sole”). Essa, anche nota quale “arco dei gigli”, varco nella cinta muraria eretta ai tempi dell’Etruria, è una delle antiche porte d’accesso alla città. Da siffatta posizione s’ha la fortuna di gettare l’occhio avido su di uno scorcio incredibilmente suggestivo. Lo sguardo non solo cade sui borghi perugini di Sant’Antonio e Sant’Angelo ma, irrefrenabile, scorre celere sull’orizzonte, s’impadronisce della Valle umbra, fa sua la vista di Assisi in lontananza. L’occhio famelico di bellezza è pago dinanzi a tal scenario, l’Oriente gli si fa innanzi, il Sole sorge al suo cospetto. E’ proprio perché, tra l’altro, si scorge Ascesi che la porta è anche denominata “sole” a rivangar la tesi che si tratti dell’est del mondo, della culla indiscussa del Sole del cristianesimo, dello strenuo difensore della bistrattata sua coniuge, la Chiesa. D’altro canto, “di retro” al Subasio or “le piange per grave giogo Nocera con Guado”. Antitetica è la situazione che si ravvisa al versante opposto del monte. Se il versante occidentale è da considerarsi, per Perugia, imperterrito protettore dalle intemperie, quello diametralmente opposto è “impedimentum” crudele che rende monca la vista per le terre giacenti alle sue pendici. Nocera e Guado non godono mica del medesimo alacre scorcio di cui sopra: la posizione geografica è piuttosto infelice. Il Subasio si fa meschino ladro del sol raggiante, incombente ed oscura ombra che determina sorti nefaste. Le città sopracitate patiscono rigide e taglienti correnti, non conoscono il bacio caldo del sole canarino. Ma, lungi dal soffermarsi sull’infelice condizione del versante orientale, si prenda nota che “lì dov’ella frange più sua rattezza”, lì ove la ripidità del monte si fa men spiccata, nacque il Sole. Ore che la digressione geografica è giunta al termine s’ha la persistente impressione di aver navigato i fiumi Topino e Chiascio, d’averne saggiato le cristalline e gelide acque, d’aver scorto cogli occhi propri l’imponenza della Valle Umbra, d’aver percepito i venti, impetuosi, scalfire la nostra stessa pelle. In epilogo, l’impressione del vero si radica nel lettore o meglio nel “turista”. S’è visitata la “culla” del Santo assieme al sommo poeta, s’è visto il Sole sorgere. Gli occhi son paghi, roteanti di stupore, l’anima satolla d’esperienza terrena e trascendentale insieme. La Divina Commedia è, ad un tempo, periglioso cammino nella profondità dell’animo e nell’intrico dell’immaginario, nel vivido oltretomba e nella concretezza del reale.

Martina Bonifaci Di Marzio