Planisfero

Un palcoscenico di sangue

di Rachele Malizia

Il Qatar al momento è al centro dell’attenzione globale, poiché sta ospitando la 22ª edizione dei mondiali di Calcio. È la prima volta nella storia del campionato che la competizione si svolge in Medio Oriente.

Questo stato suscita interesse in primis per la propria composizione demografica: dei circa 3 milioni di abitanti, solo 300.000 sono originari del Qatar; per il resto si tratta di lavoratori stranieri provenienti dal Sud-Est asiatico, Egitto, Filippine. A livello interno, l’emirato emerge per la mancanza di diritti umani e civili, di cui si è tanto discusso a livello globale, specialmente nell’ultimo periodo. Proprio con l’arrivo del mondiale è emerso lo sfruttamento dei lavoratori migranti. In realtà, la pratica disumana della kafala è alla base del reclutamento di operai, braccianti in Qatar e in altri paesi limitrofi da ormai molto tempo. Si tratta di un sistema antichissimo che regola il diritto del lavoro per gli stranieri nel mondo arabo: l’immigrato che arriva a lavorare in Qatar (ma anche in altri paesi arabi) deve rivolgersi a una sorta di garante, o sponsor, il quale però vanta diritti nei suoi confronti, come forma di tutela per la garanzia offerta. Tra questi diritti, c’è la possibilità di controllare gli spostamenti del lavoratore, per assicurarsi che non abbandoni il lavoro senza permesso, e perciò si arriva anche alla consegna del passaporto.

Negli anni successivi all’assegnamento dei mondiali al Qatar, migliaia di lavoratori migranti sono stati sfruttati da datori di lavoro senza scrupoli, per la costruzione di tutti e 8 gli stadi e tutte le altre infrastrutture.

Purtroppo ancora oggi i datori di lavori hanno troppo controllo sulla vita dei loro lavoratori: possono impedire loro di cambiare lavoro o farli lavorare un numero eccessivo di ore. Sono agghiaccianti i dati riportati da Amnesty International che mostrano che in Qatar dal 2010 al 2019 sono morti 15.021 stranieri di ogni età e occupazione di cui le cause dei decessi rimangono inattendibili. C’è da dire però che lo stato recentemente ha fatto dei assi avanti: nel 2020 l’emirato si è distinto per essere stato il primo Paese nella regione del Golfo Arabo a consentire a tutti i lavoratori migranti di cambiare lavoro prima della fine del contratto senza dover ottenere il consenso del datore di lavoro, che è uno degli aspetti chiave della kafala. Il Qatar è stato poi il secondo Paese della regione del Golfo a stabilire un salario minimo per i lavoratori migranti, dopo il Kuwait. Tuttavia, sono rimaste attive altre disposizioni legali che di fatto facilitano l’abuso e lo sfruttamento.

Molto critica è anche la condizione della donna: nella legge è previsto e incorporato il concetto discriminatorio di tutela maschile, che nega alla donne, in modo legale, il diritto di prendere decisioni chiave e importanti sulla loro vita in modo autonomo. Le donne in Qatar devono ottenere il permesso dai loro tutori maschi per sposarsi, studiare all’estero con borse di studio governative, lavorare, viaggiare fino a determinate età e ricevere alcune forme di assistenza sanitaria riproduttiva. Il sistema nega inoltre alle madri l’autorità di agire come tutrici principali dei loro figli.

Il diritto di famiglia, inoltre, limita fortemente i diritti femminili su matrimonio, divorzio, eredità.

Una volta sposata, per esempio, una donna è tenuta ad obbedire al marito e può perdere il sostegno finanziario del consorte

se lavora o viaggia o si rifiuta di avere rapporti con lui, senza un motivo “legittimo”. Gli uomini hanno un diritto unilaterale al divorzio, mentre le donne devono chiederlo ai tribunali e per ragioni limitate, oltre ad andare incontro a svantaggi economici più gravi rispetto agli uomini in caso di separazione. Le donne continuano inoltre a non essere adeguatamente protette contro la violenza domestica e sessuale.