Gli eredi di Dante

Dante Alighieri, padre della poesia Italiana e mondiale, è l'autore più studiato e letto per la forma che caratterizza le sue opere e per la naturalezza e fluidità dei versi. Nella sua varietà di stili e registri e con la sua capacità di saper spaziare con i versi dalla trivialità dei diavoli al sublime delle digressioni teologiche e filosofiche, chiunque abbia la possibilità di leggere Dante e la sua Commedia (summa dottrinale) ne rimane stupefatto e si domanda come la sua capacità di rappresentare con estremo realismo i vizi e i peccati della vita di un uomo fino alla sua rivelazione nell’aldilà, sia potuta essere creazione di un singolo uomo. E’ inevitabile quindi che più di un autore abbia tratto ispirazione da Dante, infatti Borges dice:«raggiunte le pagine finali del Paradiso, la Commedia può essere molte cose, forse tutte le cose».

Talvolta le affinità sono esplicite o impercettibili. Partiamo da Gabriele D’Annunzio e dal suo rapporto contraddittorio con Dante nell'opera “Alcyone”, il Pescarese presenta lo stesso tipo di lettura e stesura dell’opera dantesca. Per noi ora è facile immaginare che Dante, nella stesura della sua opera, abbia fatto molti riferimenti ad autori, sconosciuti a noi, ma che erano noti ai suoi contemporanei ed è difficile pensare che un poeta o lettore del suo tempo potesse cogliere integralmente la miriade di rimandi extra‒testuali presenti nella Commedia. Il testi di D’Annunzio non lasciano spazio a dubbi: com’è noto, la varietà di registri è una peculiarità della Commedia, e nell’”Alcyone” possiamo osservare dei cambi di registro, chiaramente ispirati alla poesia dantesca (troviamo da un lato dantismi infernali come “roggio”, “piloso”, “bragia”, dall’altro termini alti e presenti nel Paradiso come “plenitudine”, “infuturarsi”, “incielarsi”), con lo scopo di rendere le immagini ricche, precise e dettagliate.


Con Ignazio Silone riscopriamo la figura di “Colui che fece il gran rifiuto”, identificato dagli antichi commentatori come Celestino V, con il nome di Pietro Angeleri, monaco molisano, collocato da Dante nell’Inferno tra gli Ignavi per essersi dimesso dall’incarico di pontefice dopo soli cinque mesi dalle elezioni a causa della sua incapacità di gestire il potere, per la poca abilità nelle questioni politiche e la poca capacità di resistere all’influenza di Carlo D’Angiò, spaventato probabilmente dagli intrighi della Curia. Dante attacca la figura di Celestino V per la sua incapacità di assumersi le responsabilità legate al più alto ruolo di ministero della cristianità portando al soglio pontificio come suo successore Papa Bonifacio VIII, colui che oltre ad essere stato l’artefice dell’esilio di Dante da Firenze è anche l’emblema della simonia, della sodomia e della eresia, segnando la decadenza della Chiesa medievale sostenendo che la gestione del potere papale dovesse essere di tipo teocratico: papa Bonifacio riteneva infatti che i sovrani dovessero sottomettersi alla sua autorità, riconoscendogli un'assoluta supremazia. A questo punto interviene Ignazio Silone sostenendo e difendendo la figura tanto scomoda al tempo di Celestino V: dichiara che il giudizio di Dante fosse tanto più legato alle beghe politiche di quel tempo che ad una sua reale opinione critica, e nel suo libro «L’avventura di un povero cristiano» (1968) racconta l’intera vicenda restituendo a Pietro Angeleri la dignità e l’onore e delineandolo come una grande personalità capace, con il suo straordinario gesto, di denunciare la molte e gravi storture della Chiesa di quei tempi.


Qual era invece l’opinione di Alberto Moravia riguardante la figura di Buonconte da Montefeltro, collocato da Dante nel canto V del Purgatorio? Nella sua opera «La disubbidienza» (1948) affronta il tema dell’adolescenza come rivolta alla sicurezza del mondo borghese attraverso il personaggio di Luca Mansi. Una mattina a scuola il professore attraverso la lettura del canto risveglia nel giovane Luca il graduale ritorno alla salute e alla vita. Buonconte è l’anima che si lamenta di non essere ricordata da nessuno dei suoi parenti sulla terra e Moravia sembra essersi ispirato per il suo giovane protagonista proprio a lui: dalla morte nella battaglia del Campaldino e il racconto di come in fin di vita nell’invocazione della Madonna la sua anima sia stata contesa tra l’angelo e il diavolo mentre il suo corpo giaceva nell’Arno, dopo che la tremenda tempesta scatenata dal diavolo ne ha fatto scempio.


“Era già l’ora che volge il disio”, è così che comincia l’ottavo canto del Purgatorio ed è così che Dante descrive attraverso questa bellissima immagine la sera vissuta dal navigante che parte o dal pellegrino in viaggio, mossi dalla “saudade” e dalla malinconia per ciò che si sta per lasciare: un’immagine invocata dal noto poeta Giuseppe Ungaretti, nella poesia «Stasera (L’allegria)» nella quale, attraverso la figura del soldato in trincea nel corso della Prima guerra mondiale che, come il pellegrino in viaggio, mosso dalla malinconia e dal senso di abbandono deve lasciare la sua patria quando il giorno è finito.


E’ frequente in Dante, la ricorrenza di una figura del discepolo riconoscente nei confronti del proprio maestro. Ne è un esempio il personaggio di Brunetto Latini collocato tra i sodomiti che, una volta di fronte alla figura di Dante oltre alla reverenza gli predice la gloria eterna ma anche un’ostile accoglienza da parte dei Fiorentini. Pascoli, ispirato da questo canto, definendosi lui stesso “vecchio scolaro” dedica al suo maestro Giosuè Carducci una prosa ricca di toccanti ricordi: «[...] Poiché il poeta, il maestro, tutti sanno che è grande; ma soli quelli che gli vissero e vivono da presso, soli specialmente i suoi vecchi e giovani scolari sanno che egli è anche più buono che grande.» Pascoli lascerà commosso il suo maestro nella lettura, così come Brunetto è reverente e grato nei confronti del suo maestro Dante. Inoltre, anche la figura di Belacqua, presente nel quarto canto del Purgatorio, porta ispirazione a Pascoli nella composizione del libro «Myricae» che, riproponendo in chiave autobiografica il tema proverbiale dell'ozio contemplativo di Belacqua (le gioie del poeta) è pascolianamente contento di ridursi a fanciullino nel coro onomatopeico delle rane.


Il poeta Giacomo Leopardi, travagliato dal sentimento di morte, nello scrivere «Appressamento della morte» trae spunto dall’itinerario dantesco, narrando nella cantica in prima persona un viaggio in forma di visione dalla miseria della vita reale alla beatitudine dell’empireo. Il personaggio-poeta è sorpreso da una bufera notturna mentre attraversa una selva; quando la tempesta si placa gli appare l’angelo custode che, dopo avergli annunciato la morte imminente, lo scorterà fino alla visione del Paradiso (possiamo dire che si sia più che ispirato). Oltre a ciò, la celebre apostrofe all’Italia nel sesto canto del Purgatorio rappresenta il primo grido di dolore per un’Italia dilaniata dalle guerre e mal governata. Essa segna l'inizio di una linea poetica che tocca, a parte Dante, la canzone “Italia mia” di Petrarca ed arriva sino al Recanatese. «All’italia» di Giacomo Leopardi è basata sull’antitesi tra il triste presente della patria e il glorioso passato e con tono sincero e appassionato piange la sua Italia vittima del tempo che tutto vince.


In conclusione ricordiamo le parole di Pascoli, che in «Fior da Fiore» definisce la Divina Commedia «un tempio bello dentro e fuori, e più bello nel suo complesso che ne’ suoi particolari», ricordiamo anche però l’autorità di Borges secondo il quale la grandezza di Dante risiede nella «varia e felice invenzione di particolari precisi», grazie alla quale «non c’è una parola priva di giustificazione». Se versi composti tanti secoli fa ammaliano e innamorano ancora così tante persone è evidentemente perché la Commedia non ha finito di dire quel che ha da dire.

Francesca di Eusanio