Alumna interpretatur

Il treno ha fischiato

“Il treno ha fischiato” è una novella scritta da Luigi Pirandello, pubblicata il 22 febbraio 1914 sul “Corriere della Sera” e appartenente alla raccolta “Novelle per un anno”. Si narra di un impiegato modello, Belluca, il quale, dopo una vita di totale obbedienza e sottomissione, udendo nel pieno della notte il lontano fischio di un treno, si ribella al capoufficio e viene portato in manicomio. La sua ribellione, più che giustificata, deriva dal fatto che proprio grazie a quel fischio udito in lontananza, egli abbia riscoperto, o meglio, si sia ricordato che esiste un’altra vita “oltre” quella che è costretto a vivere: turni di lavoro sfiancanti, essere usato da tutti come uno zerbino e costretto a badare alla moglie, alla suocera e alla sorella della suocera, tutte e tre cieche oltre ai sette bambini delle due figlie rimaste vedove. “Rinasce”, rendendosi conto che può viaggiare ovunque e sentirsi finalmente libero, grazie alla fantasia e all’immaginazione. Nell’estratto sottostante del brano, viene raccontato il “risveglio” di Belluca, la sua “rinascita”, la rivelazione, data dal fischio del treno in corsa, di un’esistenza mai vissuta, la possibilità di riscattarsi e riconquistare una parte di libertà assaporata per la primissima volta.

Luigi Pirandello


Testo: Ebbene, signori: a Belluca, in queste condizioni, era accaduto un fatto naturalissimo.

Quando andai a trovarlo all’ospizio, me lo raccontò lui stesso, per filo e per segno. Era, sì, ancora

esaltato un po’, ma naturalissimamente, per ciò che gli era accaduto. Rideva dei medici e degli

infermieri e di tutti i suoi colleghi, che lo credevano impazzito.

– Magari! – diceva. – Magari!

Signori, Belluca, s’era dimenticato da tanti e tanti anni – ma proprio dimenticato – che il mondo

esisteva. Assorto nel continuo tormento di quella sua sciagurata esistenza, assorto tutto il giorno nei

conti del suo ufficio, senza mai un momento di respiro, come una bestia bendata, aggiogata alla

stanga d’una nòria o d’un molino, sissignori, s’era dimenticato da anni e anni – ma proprio

dimenticato – che il mondo esisteva. Due sere avanti, buttandosi a dormire stremato su quel

divanaccio, forse per l’eccessiva stanchezza, insolitamente, non gli era riuscito d’addormentarsi

subito. E, d’improvviso, nel silenzio profondo della notte, aveva sentito, da lontano, fischiare un

treno. Gli era parso che gli orecchi, dopo tant’anni, chi sa come, d’improvviso gli si fossero sturati.

Il fischio di quel treno gli aveva squarciato e portato via d’un tratto la miseria di tutte quelle sue

orribili angustie, e quasi da un sepolcro scoperchiato s’era ritrovato a spaziare anelante nel vuoto

arioso del mondo che gli si spalancava enorme tutt’intorno. S’era tenuto istintivamente alle coperte

che ogni sera si buttava addosso, ed era corso col pensiero dietro a quel treno che s’allontanava

nella notte. C’era, ah! c’era, fuori di quella casa orrenda, fuori di tutti i suoi tormenti, c’era il

mondo, tanto, tanto mondo lontano, a cui quel treno s’avviava... Firenze, Bologna, Torino,

Venezia... tante città, in cui egli da giovine era stato e che ancora, certo, in quella notte sfavillavano

di luci sulla terra. Sì, sapeva la vita che vi si viveva! La vita che un tempo vi aveva vissuto anche

lui! E seguitava, quella vita; aveva sempre seguitato, mentr’egli qua, come una bestia bendata,

girava la stanga del molino. Non ci aveva pensato più! Il mondo s’era chiuso per lui, nel tormento

della sua casa, nell’arida, ispida angustia della sua computisteria... Ma ora, ecco, gli rientrava,

come per travaso violento, nello spirito. L’attimo, che scoccava per lui, qua, in questa sua prigione,

scorreva come un brivido elettrico per tutto il mondo, e lui con l’immaginazione d’improvviso

risvegliata poteva, ecco, poteva seguirlo per città note e ignote, lande, montagne, foreste, mari...

Questo stesso brivido, questo stesso palpito del tempo. C’erano, mentr’egli qua viveva questa vita

«impossibile», tanti e tanti milioni d’uomini sparsi su tutta la terra, che vivevano diversamente. Ora,

nel medesimo attimo ch’egli qua soffriva, c’erano le montagne solitarie nevose che levavano al

cielo notturno le azzurre fronti... Sì, sí, le vedeva, le vedeva, le vedeva così... c’erano gli oceani...

le foreste... E, dunque, lui ora che il mondo gli era rientrato nello spirito – poteva in qualche modo

consolarsi! Sì, levandosi ogni tanto dal suo tormento, per prendere con l’immaginazione una

boccata d’aria nel mondo. Gli bastava! Naturalmente, il primo giorno, aveva ecceduto. S’era

ubriacato. Tutto il mondo, dentro d’un tratto: un cataclisma. A poco a poco, si sarebbe ricomposto.

Era ancora ebro della troppa aria, lo sentiva. Sarebbe andato, appena ricomposto del tutto, a


chiedere scusa al capo-ufficio, e avrebbe ripreso come prima la sua computisteria. Soltanto, il capo-

ufficio ormai non doveva pretender troppo da lui come per il passato: doveva concedergli che di


tanto in tanto, tra una partita e l’altra da registrare, egli facesse una capatina, sì, in Siberia... oppure

oppure... nelle foreste del Congo:

– Si fa in un attimo, signor Cavaliere mio. Ora che il treno ha fischiato...

Giorgia Di Massimo