Lo Zibaldone delle recensioni

Effetto notte: l'estetica della notte nel cinema

La notte è un’ambientazione estremamente simbolica: corrisponde a un momento vicino al mistero, caratterizzato dal buio, quindi dall’ignoto.

Il genere horror è conosciuto per sfruttare le caratteristiche inerentemente misteriose dell’assenza di luce. Oggi, però, voglio riflettere su un altro stilema ricorrente nel notturno: le zone d’ombra della psiche umana che vengono a galla in un momento della giornata in cui le attività ordinarie e diurne sono sospese.

In questa dimensione di confusione spesso accadono

avvenimenti al di fuori dalla normalità, che sembrano appartenenti a una dimensione onirica. Su questo concetto si basa il film del 1985 “Fuori Orario” diretto da Martin Scorsese. Paul, il protagonista, vagabonda per SoHo in quella che sembra un’Odissea contemporanea, tra appartamenti dismessi, feste infinite, bar sgangherati. Eventi irragionevoli accadono, imprigionando l’uomo in un incubo tragicomico che sembra non avere fine. La notte è un’ambientazione chiave per questo tipo di film: lo spettatore, infatti, ha la netta sensazione che ciò che avviene sullo schermo è fuori dall’ordinario. Alla frenetica interpretazione di Griffin Dunne, si aggiunge anche l’impazienza. Durante il film non si vede l’ora che il sogno finisca, che ci si svegli e che tutto sia finito. Lo stare in piedi, attivi, durante la notte è già anomalo, soprattutto se ci si ritrova a combattere contro un fato vendicativo, che sembra gradire poco il protagonista.

In questo caso la notte è uno strumento narrativo che aiuta il regista a comunicare uno stato di tensione, e rendere ancora più assurdi certi avvenimenti. Il

“popolo della notte” è paradossale e illogico, inspiegabile come la notte stessa. La notte non è solo fretta e paura, è anche conoscenza di sé. Quando l’attività mentale ordinaria, infatti, viene sospesa, ci si ritrova a pensare a eventi passati o ad aspetti della propria persona che non erano mai stati presi in considerazione prima. Elaine May nel suo film “Mikey and Nicky” riesce a esternare perfettamente questa sensazione. Due gangster, che danno il nome alla pellicola, legati da un’amicizia lunga una vita, si ritrovano per un’ultima notte di realizzazioni, di screzi e di sfoghi. I due uomini sono accomunati da una vita dura, fatta di sospetti e crimini. Insieme, però, proprio in virtù del grande affetto che provano l’uno per l’altra, riescono a lucubrare sui loro sentimenti più reconditi. Tutto ciò accade in una notte, in una Philadelphia assonnata che non li osserva, non li scruta. Durante la notte sono in grado di essere veramente loro stessi, di dare il loro meglio e il loro peggio.

L’oscurità, infatti, offre una protezione a chi ne ha bisogno. Il movimento è più libero in una città deserta. Non si prova vergogna nel rivelare che si ha paura di morire, gesto colmo di ironia tragica, si capisce una volta visto il film; o di confessare che la morte

del fratellino minore è stata un duro colpo, anche per un “duro” come un gangster. La notte funge, quindi, da confessionale. L’aria macabra di una notte umida e piovosa, la fretta che Mikey, padre di famiglia, ha di tornare a casa dal figlio contrapposta all’erraticità di Nicky, che si muove di qua e di là per tentare di fuggire a un destino oscuro che lo aspetta all’alba. Nel film del 1976, l’alba fa da spartiacque tra la vita e la morte, tra la verità e la finzione, tra amore e odio. Chi siamo veramente quando nessuno guarda? Chi siamo veramente di notte?







Emanuela Tomassini