Ravenna

Il viaggio della Divina Commedia nell’Oltretomba mostra i luoghi dell’aldilà che, grazie alle parole del Sommo Poeta, diventano tangibili e riescono a prendere forma e vita nella nostra mente. Pare di poter entrare con Dante nella selva oscura, di smarrirsi con lui all’interno dei colori plumbei e purpurei dell’Inferno, di sentire gli odori, di percepire il vento, il caldo e il freddo e di ascoltare le grida dei dannati rimbombare tra le pareti asfissianti.


Allo stesso modo, una volta arrivati nel Purgatorio, pare di poter tornare a respirare, di ritrovare l’atmosfera, quell’involucro di gas che avvolge la Terra che ci fa respirare e vivere. Ci si sente quasi a casa, tutto è più umano e una volta rivolti gli occhi verso l’alto riusciamo a vedere ciò che ci è più familiare e che cerchiamo sempre, il nostro punto di riferimento, il cielo.


Infine, giunto nel Paradiso, seppur con grandi difficoltà, Dante s’impegna per farci almeno assaggiare ciò che di etereo ha vissuto, la visione di Dio. Tale esperienza, pur essendo la più oscura per noi terrestri, è quella che immaginiamo più luminosa, così come Dante la descrive, quasi accecante, qualcosa di davvero poco accessibile all’uomo.


“Trasumanar significar per verba non si poria” avvisa Dante. E’ fin dal canto I del Paradiso che egli si rende conto dell’impossibilità di rendere umane le cose divine attraverso le parole, mezzo umano non sufficientemente all’altezza della materia divina. Nel descrivere il Paradiso, egli non è che in grado di parlare come fa un neonato che si è appena bagnato la bocca con il latte materno. “Fammi del tuo valor sì fatto vaso” implora Dante ad Apollo, chiedendo di essere colmato di virtù poetica, come quando si riempie un vaso, per riuscire nella scrittura dell’ultima cantica. Dante allude continuamente alla mortalità umana di fronte alla dimensione divina: siamo “mortali”, la luce che c’è nel Paradiso è “oltre nostr’uso” .


Dante, pur sapendo di trovarsi nell’aldilà, è un umano e, come noi, ragiona e pensa come un mortale. E’ per questo che introducendo le anime che incontra, egli racconta la storia di queste, di quando erano sulla terra e ne riporta i luoghi di provenienza, attraverso particolari descrizioni topografiche. Così facendo, Dante dà vita ad un legame eterno con noi lettori italiani, una connessione sempreverde che si fonda sulla conoscenza e sulla frequentazione degli stessi territori. Ciò che accomuna noi lettori e lui poeta, a distanza di secoli, è proprio l’Italia. Nel canto V dell’Inferno, uno dei più emozionanti della Divina Commedia, Dante cede la voce ad un’anima femminile, quella di Francesca da Rimini figlia di Guido da Polenta, signore di Ravenna, e sposa di Gianciotto Malatesta, signore di Rimini.


Così come le anime di Ulisse e Diomede erano accoppiate nelle fiamma a doppia lingua descritta nel canto XXVI dell’Inferno come “il fuoco che vien sì diviso di sopra”, l’anima di Francesca è appaiata ad un’altra, quella dell’amante e suo cognato Paolo Malatesta.


Prima di narrare la patetica e fatale storia d’amore di Paolo e Francesca, quest’ultima si presenta brevemente, descrivendo il suo luogo di nascita, Ravenna.


“Siede la terra dove nata fui

su la marina dove ‘l Po discende

per aver pace co’ seguaci sui.”


Questa la terzina con la quale Francesca descrive il suo luogo di provenienza. Ai tempi di Dante Ravenna sorgeva sul mare Adriatico, alla foce del Po, dove il fiume si gettava nel mare per terminare il suo corso con i suoi affluenti.


Nel Medioevo la città era simile a quella di Venezia: era circondata dal mare e da piccole lagune, punti nei quali gli affluenti del Po si gettavano nell’Adriatico, che non comunicavano direttamente con il mare, ma erano separate da un cordone di dune sul cui lembo venne fondata Ravenna.


All’inizio del XII secolo, periodo delle lotte tra Impero e Papato, Ravenna divenne dapprima un comune il cui podestà era nominato dall'arcivescovo e poi un ducato, con a capo un duca nominato dall’imperatore del tempo, Enrico VI. Il Ducato di Ravenna svanì dopo poco tempo, quando le città romagnole si unirono in una lega e con la riappropriazione dei possedimenti della Chiesa, ottennero l’appoggio di Papa Innocenzo III per la cacciata del duca da Ravenna.


Con l’ascesa di Federico II di Svevia, durante alcune lotte interne tra casati, il fiume Lamone che da anni bagnava Ravenna, fu deviato verso nord per far capitolare la città. Gli effetti della deviazione furono visibili nei secoli successivi, quando il fiume dirigendosi a nord di Ravenna, rese le valli romagnole molto fertili favorendo così un incremento dell’attività agricola. La città crescendo si sviluppò quindi più verso l’interno a circa 7 km dal mare, dove sorge ancora oggi. Ravenna non è solo la città di nascita di Francesca ma è anche il luogo dove Dante, costretto a viaggiare per l’esilio al quale fu condannato a partire dal 1302, soggiornò negli ultimi anni della sua vita, ospite presso la famiglia nobile dei Da Polenta , e dove morì nel settembre 1321. Il Poeta visse in una casa messa a disposizione dal suo oste, il signore di Ravenna Guido Da Polenta, dove trovarono posto anche i figli Pietro, Jacopo e Antonia, che prese i voti monastici con il nome di Beatrice.


Il soggiorno a Ravenna fu un periodo sereno per la vita e lo studio. E’ qui che Dante scrisse le Egloge, l’estremo lascito letterario della sua arte, dove sono presenti, sotto l’allegoria pastorale alcuni personaggi del nucleo di devoti e ammiratori riuniti intorno a lui, e soprattutto è qui che, secondo la teoria più condivisa dalla critica, portò a termine la stesura della Divina Commedia. Dopo la morte del Sommo Poeta, a Ravenna furono attivi maestri e letterati che fecero della città un centro di rilievo del primo umanesimo e furono protagonisti della prima diffusione della Divina Commedia in tutto il nord Italia.

Caterina Barbieri