Il Signore delle Mosche di William Golding è uno dei grandi classici della letteratura del XX secolo, forse fin troppo sconosciuto dalla nostra generazione. La trama, di facile comprensione ma avvincente, ruota attorno ad un gruppo di ragazzini britannici di classe medio-borghese che, a seguito di un incidente aereo, si ritrovano in un’isola tropicale a sopravvivere senza neanche un adulto di riferimento. In questo modo, Golding sviluppa l’idea di “distopia”, ovvero un’utopia negativa, che mette a nudo il pessimismo e la sfiducia dell’autore nei confronti dell’umanità, andando contro le utopie e le ideologie che inneggiano alla capacità dell’uomo di dominare sulla natura. Tutto ciò viene esposto attraverso la meticolosa analisi del comportamento dei ragazzini protagonisti che, per imitazione degli adulti, tentano di costruire una società democratica, con un capo, Ralph, che istituisce assemblee allo scopo di organizzare i compiti dei più grandi. Nonostante l’iniziale entusiasmo dei ragazzi che si concretizza nel tener vivo il fuoco, fondamentale segnale di soccorso, le tensioni all’interno del gruppo degenerano talmente in fretta che si giunge ad estreme conseguenze. La tematica attorno a cui ruota il romanzo è certamente quella della convivenza sociale, dei rapporti che si instaurano fra gli uomini, in che modo la paura, insediata nei più neri meandri della mente, influenza le azioni e le relazioni umane. Essendo i protagonisti tutti bambini, è ovvio che le problematiche sociali, di qualsiasi genere, vengano particolarmente amplificate; si tratta di uno stratagemma ben studiato e brillante. I bambini sono, di natura, particolarmente impulsivi: non pensano a cosa dire, né a come dirlo. In una sorta di ritorno agli istinti primitivi, i ragazzi instaurano delle dinamiche che tendono a degenerare perché condizionate dalla priorità incombente di soddisfare sé stessi prima di occuparsi della comunità. Nel corso del romanzo, costruito in una climax ascendente che culmina nella separazione del gruppo di ragazzi in due tribù, serpeggia la paura di una “bestia”, allegoria profondissima. Essa rappresenta il collante della comune società: la paura. Proprio fra fine Ottocento e per tutto il Novecento (periodo nel quale Golding scrive, nel 1954) , autori, sociologi e filosofi si sono espressi al riguardo, soprattutto per gli effetti che le Grandi Guerre avevano causato sulla gente comune. Per George Simmel, la paura è una forza psicologica talmente grande che è capace di trasformare un qualunque spazio geografico in uno Stato, in un luogo in cui si può “politicare”. Effettivamente, nella storia più antica (ad esempio quella romana, o addirittura quella anglosassone fino al XVIII secolo), le più grandi e potenti istituzioni statali nascono per portare tranquillità ai propri sudditi, fingendosi addirittura governanti scelti dal divino. Forse, con la volontà di convincere intere comunità della propria discendenza da Dio, hanno convinto anche se stessi. Perché non c’è nulla che temiamo di più dell’essere soli, lasciati a noi stessi, in uno spazio così grande – che neanche conosciamo! - da coincidere, in proporzione, a poco più di una particella subatomica. Non c’è nulla di più intrinseco in noi della paura dell’ignoto. Come potremmo mai sopravvivere come individui, se siamo attanagliati dall’angoscia di sentirci insignificanti ed infimi di fronte alla grandezza dell’universo e alla supposta esistenza di un’entità superiore? Ecco perché, per tentare di avere controllo su di essa, ci aggreghiamo; ecco perché i protagonisti indicono assemblee, scelgono un capo e delle figure di riferimento. Hanno bisogno di ordine, hanno bisogno di sentirsi capi di un’isola che è loro ostile, un po’ per la precocità in cui si sono abbattuti in quella situazione di sopravvivenza, un po’ perché è un’isola su cui l’uomo non ha mai messo piede. La riflessione che questa tematica induce ricorre in tutto il romanzo, è sempre presente, rincorre la trama e le azioni dei personaggi in maniera subdola, un po’ come fa la bestia. E ci porta anche a dibattere costantemente, soprattutto fra noi stessi, sull’esistenza o meno del terribile mostro, che si aggira nel buio, che ci perseguita. È la paura a tenerci assieme, il bisogno di sapere cosa temiamo, invece, a farcene parlare. Il Signore delle Mosche è il libro perfetto per comprendere come le relazioni umane funzionano, cos’è che scatena gli attriti all’interno dei più piccoli gruppi sociali, la macro-divisione umana fra coloro che si affidano completamente alla razionalità tipica della nostra specie e colore che, invece, fanno leva sull’impulsività.
Lucrezia di Filippo