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Cosa sta succedendo in Iran?

di Sofia Machetti

L’Iran ufficialmente si chiama Repubblica Islamica dell’Iran ed è situato all'estremità orientale del Medio Oriente.

Nel 1979, a seguito di una vera e propria rivoluzione, venne redatta e ratificata la Costituzione dell’Iran che lo configura come una repubblica teocratica presidenziale. Insomma, ci sono due istituzioni principali: quelle politiche, elette dal popolo, e quelle religiose, non elettive, che giudicano l’operato dell’esecutivo in base al loro rispetto per le norme dell’Islam, ovviamente religione di Stato nella variante sciita duodecimana, e del Corano.

I vari organi amministrativi sono organizzati seguendo un modello religioso severissimo, che trasporta l’Islam in ogni aspetto della vita pratica dei cittadini iraniani. In linea teorica, la Costituzione dovrebbe tutelare tutti i cittadini e assicurar loro pensione, cure mediche, sussidi e servizi vari, ma nella realtà dei fatti la situazione iraniana è ben diversa.

Salta subito all’occhio la presenza nell’ordinamento giuridico iraniano della pena di morte; l’Iran è la terza Nazione al mondo per esecuzioni capitali annue (dietro alle grandi Stati Uniti e Cina). Il metodo di esecuzione principale è l’impiccagione, ma non mancano casi di fucilazione e decapitazione, mentre non si ricorre alla lapidazione dal 2002. Le esecuzioni possono essere pubbliche e alcuni dei reati per cui è contemplata la pena capitale sono l’apostasia (abbandono della propria religione), omosessualità e atti sessuali illeciti, adulterio, alto tradimento e altro.

Ma la critica situazione iraniana per quanto concerne i diritti umani non riguarda solo la pena di morte, purtroppo ancora in vigore in addirittura 58 Stati in tutto il mondo.

Le condizioni di vita di molte categorie di cittadini sono veramente problematiche, in particolar modo quelle delle donne. Secondo la cultura araba le donne hanno una posizione in assoluto subordinata a quella dell’uomo e poiché la vita è regolata secondo le norme religiose, le donne hanno l’obbligo di indossare l’hijab, il velo islamico. L’hijab, che è solo uno dei vari tipi di velo, nonché il meno coprente, previsti dalla religione islamica, non solo prevede la copertura totale dei capelli, ma anche un tipo di abbigliamento che non deve assolutamente lasciare visibili alcun tipo di forme o qualsiasi parte del corpo che non sia piedi, mani o viso.

È proprio da questa questione che il 17 settembre scorso è scoppiata la grande rivolta delle donne iraniane, e non solo. Infatti, in quella giornata si stavano celebrando i funerali della 22enne Mahsa Amini. Questa giovane donna si trovava nella capitale iraniana, Teheran, in visita con la sua famiglia, quando la polizia morale l’ha fermata perché dal suo velo sporgevano due ciocche di capelli. Mahsa è morta due giorni dopo in ospedale. Il comunicato delle istituzioni iraniane ci ha riferito di una morte naturale, ma la verità, venuta a galla non solo perché ovvia, ma anche grazie all’azione di informatici abilissimi che sono riusciti a penetrare nei server del regime, è che Mahsa Amini è stata pestata a sangue dai poliziotti fino alla morte, sopraggiunta per trauma cranico. Questo grave avvenimento ha causato l’insorgere dei protestanti, via via sempre più numerosi e difficili da reprimere. Il primo atto di rivolta è stato fatto da un gruppo di giovani donne iraniane che si sono tolte il velo e hanno fieramente e coraggiosamente iniziato a sventolarlo per strada, addirittura, in alcuni casi, a bruciarlo pubblicamente. Le donne iraniane hanno cominciato la loro inarrestabile protesta. La repressione del regime è stata fin da subito violentissima. Secondo alcuni dati, molto difficili da ufficializzare, ad oggi sarebbero morti negli scontri almeno 348 persone di cui 52 minorenni e, secondo le istituzioni, 38 membri delle forze armate, gli arresti 16mila. L’esercito, davanti all’impeto dei rivoltosi, ha utilizzato metodi disumani: gli ospedali denunciano che alle protestanti viene sparato in viso, sul seno e sui genitali. Fortunatamente anche molti uomini si sono aggregati alla rivolta, dimostrando che anche coloro che sono considerati essere la fascia più conservatrice della popolazione sono indignati dai provvedimenti di questo regime. Di fatti, da mercoledì moltissimi commercianti, bottegai e artigiani hanno scioperato; sul web è possibile vedere con i propri occhi video degli immensi mercati nelle più importanti città dell’Iran completamente deserti, intere vie che diventano una sterminata sequenza di saracinesche abbassate. I protestanti scioperano, occupano scuole, università, edifici, strade e piazze.

Le istituzioni si sono viste obbligate a vagliare un’ipotesi che mai avevano preso in considerazione: la promessa di vagliare in una consulta le norme sull’abbigliamento delle donne e l’interruzione dell’operatività della polizia morale. Ma facciamo una piccola digressione – necessaria – su quest’organo. La polizia morale è un ramo delle forze dell’ordine istituito nel 2005 con lo specifico compito di occuparsi del rispetto delle norme di abbigliamento imposte alle donne secondo la Costituzione. Una volta fermate e arrestate le donne che non rispettano tali norme, sono portate in “strutture di riabilitazione” o centrali di polizia, dove gli agenti hanno il compito di insegnare loro come vestirsi adeguatamente. Dopo di ciò, le donne sono rilasciate, in custodia di un parente, esclusivamente maschio, che si fa garante del rispetto delle regole sull’abbigliamento per la donna in questione. Le donne che non si vestono adeguatamente possono ricevere fino a 74 frustate e una pena di 60 giorni di carcere.

Ma se da un lato ciò ha rappresentato un piccolo passo nella scalata alla libertà delle donne iraniane, allo stesso tempo il governo ha continuato ad agire come prima, arrivando a dichiarare estinto il conto corrente delle donne che non indossano l’hijab e a demolire la casa di Elnaz Rekabi.

Vi ricordate di Elnaz? Era la scalatrice iraniana che si era presentata alla finale dei Campionati Asiatici di scalata 2022 senza indossare l’abbigliamento sportivo specifico, comprensivo dell’hijab. Poco dopo la gara, l’atleta si è vista costretta a dichiarare di essersi semplicemente scordata di indossare il velo, probabilmente perché in ritardo per la competizione, ma questo non è bastato ai servizi di polizia, che nel giro di poche ore l'hanno fatta scomparire. Elnaz è ricomparsa qualche giorno dopo, visibilmente scossa, con la testa bassa, un abbigliamento trasandato e rigorosamente un copricapo. Ha dichiarato di non aver subito alcun tipo di violenza o tortura. Inoltre, proprio venerdì 9 dicembre è stata eseguita la prima impiccagione delle 11, momentanee, sentenze di morte di coloro che sono stati arrestati tra i manifestanti. Il giovane uomo ucciso aveva bloccato insieme ad altri manifestanti una strada qualche giorno fa e in quell’occasione aveva ferito con un coltello un membro delle forze armate. Dopo torture e confessioni estorte, è stato impiccato senza avere la possibilità di salutare sua madre, che all’esterno dell’edificio implorava di sapere cosa stesse succedendo al figlio. Le esecuzioni rischiano di diventare una pratica quotidiana. L’eco della rivolta, grazie all’azione dei social media, si è sparso in tutto il mondo e da tutti gli angoli del pianeta sono giunti messaggi e simboli di solidarietà. Uno dei primi è stata la diffusione di numerose donne, non islamiche e tantomeno iraniane, che si riprendevano nell’atto di tagliarsi da sole grosse ciocche di capelli. Altro esempio eclatante ci giunge dai Campionati Mondiali di Calcio, attualmente in svolgimento in Qatar, dove molti tifosi si sono recati allo stadio con maglietta, striscioni e cartelli inneggianti alla pace in Ucraina e al riconoscimento dei diritti delle donne iraniane e afghane (anch’esse versano nelle stesse situazioni insostenibili) o ad altri temi di forte attualità in campo sociale. Purtroppo, la maggioranza di questi tifosi sono stati allontanati dal campo e in alcuni casi multati. Sorprendentemente coraggiosi sono stati, invece, i giocatori e tutto lo staff della Nazionale Iraniana di Calcio, che nella loro partita inaugurale del mondiale si sono rifiutati di cantare l’inno nazionale. Paradossalmente la loro fortuna è stata quella di trovarsi fuori dal Paese e di conseguenza il fatto che tutto ciò che il regime poteva far loro erano minacce. Inutile dire che prima della seconda partita l’Iran ha cantato l’inno.

In conclusione, se pur le vittorie di questa “guerra” saranno sporadiche e banali, è importante che si impedisca al regime degli ayatollah di spadroneggiare nel Paese, in barba alle convenzionali norme sui diritti umani. Mantenendo perennemente i riflettori accesi, attraverso l’informazione e attraverso la potentissima azione dei mass media, sull’Iran, si potrà incastrare i governatori, i militari, i politici e tutti coloro coinvolti nell’amministrazione spalle al muro; in modo tale da rendere sempre più potente e ineluttabile la rivolta degli iraniani.