Alumna interpretatur

Fontamara, Ignazio Silone

“Fontamara”, parte conclusiva del Capitolo IX, Ignazio Silone.

“A chi guarda Fontamara da lontano, dal Feudo del Fucino, l’abitato sembra un gregge di pecore scure e il campanile un pastore. Un villaggio insomma come tanti altri; ma per chi vi nasce e cresce, il cosmo. L’intera storia universale vi si svolge: nascite, morti, amori, odii, invidie, lotte, disperazioni.” Nei primi anni della dittatura fascista, qui, a Fontamara, nome immaginario di un piccolissimo paesea mezza costa, tra colline e montagna, sopra la piana del Fucino, i “cafoni” – braccianti, manovali, artigiani poveri – subiscono soprusi e ingiustizie così antichi da sembrare loro naturali come la pioggia, il vento, la neve. Fontamara è provvista di una terra fertile e adatta a varie tipologie di coltivazione però è collocata su un territorio scosceso e avaro di frutti: tale conformazione del territorio costringe gli abitanti a lavorare a giornata come braccianti negli appezzamenti dei piccoli proprietari locali. Si crea così, inevitabilmente, una netta contrapposizione sociale tra lo strato più basso e povero della popolazione – i sopracitati “cafoni” – e i possidenti della classe media, tutelati dal potere fascista e dall’istituzione ecclesiastica: i “galantuomini”. Le vicende sono ambientate verso il 1929. Tra tutti gli abitanti di Fontamara, Berardo Viola, che porta una scintilla di ribellione, subirà le torture della milizia fascista e sarà ucciso, ma assurge a emblema di un nuovo, seppure ancora impreciso e velleitario, livello di dignità. In Fontamara, opera intessuta di una precisa verità storica e scandita da un’alternanza di registri, Ignazio Silone riesce a fondere ballata popolare, parabola evangelica e satira politica in una partitura corale ritmata che si fa denuncia violenta di ogni ingiustizia.


Testo:

Berardo non rispondeva. Egli guardava come ipnotizzato il giornaletto che il commissario gli aveva posto davanti e in cui c’era stampato il suo nome e quello di Elvira. In cui c’era scritto a grandi caratteri: Viva Berardo Viola.

“Parlate dunque” insisté il commissario.

“Impossibile, signor commissario” gli rispose Berardo preso da una strana commozione. “Adesso piuttosto preferisco morire.”

Il commissario continuò ad esortarlo. Ma Berardo era, in spirito, già altrove. Egli non vedeva più il commissario. Egli non lo sentiva più. Egli si lasciò ricondurre in cella come qualcuno che ha fatto testamento, prima di morire. Eppure la lotta non era finita.

Nessuno di noi due chiuse occhio durante la notte. Berardo si teneva la testa fra le mani come se stesse per scoppiargli. Decideva di confessare, si pentiva, tornava a decidersi, tornava a pentirsi. Si stringeva la testa con le mani perché non gli scoppiasse. Perché doveva restare in carcere? Perché doveva morire in carcere, a trent’anni? Per l’onore? Per l’idea? Ma quando mai lui si era occupato di politica? Così passavano le ore della notte. Così parlava, a me e a sé, Berardo Viola, mentre l’altro cercava di cogliere ogni sua parola. La lotta continuava:

“Che senso ha il vivere ora che Elvira è morta? E se io tradisco, tutto è perduto. Se io tradisco” diceva “la dannazione di Fontamara sarà eterna. Se io tradisco passeranno ancora centinaia di anni prima che una simile occasione si ripresenti. E se io muoio? Sarò il primo cafone che non muore per sé, ma per gli altri.”

Questa era la sua grande scoperta. Questa parola gli fece sbarrare gli occhi, come se una luce abbagliante fosse entrata nella cella.

Mai dimenticherò il suo sguardo, la sua voce in quelle ultime parole.

“Sarà” egli disse “qualche cosa di nuovo. Un esempio nuovo. Il principio di qualche cosa del tutto

nuova.” Poi aggiunse, ricordandosi all’improvviso di un fatto assai importante:


“Fin da ragazzo mi era stato predetto che sarei morto in carcere.” Questa persuasione gli diede una grande pace. Egli era steso sul cemento come un albero abbattuto, un albero pronto per il fuoco.

Aggiunse soltanto: “Quando li rivedrai, saluta gli amici.” Furono le ultime parole che io udii da Berardo.

Al mattino seguente fummo separati definitivamente. E due giorni dopo fui chiamato dal commissario, insolitamente gentile. Berardo Viola si è ucciso stanotte” mi disse. “Egli si è impiccato alla finestra della sua cella, per disperazione. Il fatto è certo. Però nessuno era presente al fatto e manca un verbale. Un verbale è indispensabile. Se tu sei disposto a firmare un verbale in cui si certifica che quel tuo paesano si è impiccato, oggi stesso sarai libero.” A sentire che Berardo Viola era stato ammazzato, mi misi a piangere. Il commissario scrisse qualche cosa su un pezzo di carta ed io firmai senza leggerlo. Avrei firmato qualunque cosa, anche la mia condanna a morte.

Poi fui condotto nell’ufficio del capo della polizia. “Era lei l’amico del defunto Berardo Viola?” mi chiese.

“Signor sì.”

“Conferma che il defunto aveva sempre manifestato tendenze al suicidio?”

“Signor sì.”

“Conferma che il defunto aveva ultimamente gravi dispiaceri amorosi?”

“Signor sì.”

“Conferma che il defunto era rinchiuso nella medesima cella di lei ed ha approfittato del fatto che lei dormiva per appendersi ad una inferriata?”

“Signor sì.”

“Bravo” mi disse all’uscita il commissario che aveva assistito all’interrogatorio, e mi offrì una sigaretta. Poi fui condotto nel palazzo di giustizia, nell’ufficio di un giudice. E fu la stessa cantilena.

“Era lei amico del defunto Berardo Viola?” mi chiese il giudice “Conferma che il defunto aveva ultimamente gravi dispiaceri amorosi? Conferma che il defunto era rinchiuso nella medesima cella di lei ed ha approfittato del fatto che lei dormiva per appendersi ad una inferriata?”

“Signor sì, signor sì, signor sì.”

Anche lui mi fece firmare la carta e mi licenziò. A mezzogiorno fui rimesso in libertà, accompagnato alla stazione e caricato sul treno con foglio di via obbligatorio. Il resto lo potranno raccontare mia madre e mio padre.

Giorgia di Massimo