Dual Ciak: consigli di cinema

"FOLLIA PERVERSA...MA ANCHE UN PO' DISPERATA"



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"DOGMAN" (Matteo Garrone, 2018)

Un uomo sulla trentina del quartiere della Magliana. Roma. 18 febbraio 1988. Cronaca del tempo. Il suo nome è Pietro De Negri, detto "il canaro" per via del suo impiego come toelettatore di cani. La sua è una storia a dir poco travagliata, e la sua pena comincia con la conoscenza dell'ex pugile Giancarlo Ricci per motivi di spaccio. Proprio così, il Canaro non era proprio uno stinco di santo. Egli infatti, oltre al suo impiego principale, faceva uso di cocaina – vendendola anche - con qualche piccolo furto, per concludere.

Giancarlo Ricci era un individuo assai noto per via della sua prepotenza, con una leggera esperienza da pugile e "gambizzato" da una probabile organizzazione criminale, a mò di avvertimento per un torto da lui commesso. Per cui, la sua reputazione era ben nota nel quartiere.

Nella rappresentazione cinematografica di Matteo Garrone - ambientata nel 2017 e non nel 1988

- la storia segue più o meno fedelmente ciò che fu dichiarato dal De Negri e da fonti esterne probabilmente coinvolte nell'omicidio. Quale omicidio?

L'omicidio compiuto dal De Negri in quel lontano 18 febbraio, dovuto all'esasperazione raggiunta in risposta alle continue angherie di Ricci.

Il formidabile Marcello Fonte ci ha regalato un immagine minuta e completamente succube dell'ex pugile, tanto da sviluppare un rapporto ai limiti del masochismo per via dei furti e dello spaccio di cocaina.

La follia del gesto del Canaro è proprio da scovarsi in un disturbo paranoide verso il Ricci per via dei suoi gesti prepotenti e tirannici. Il tutto amplificato dall'effetto sempre più incombente della cocaina, inalata durante l'omicidio.

La disperazione può annebbiare la propria razionalità, e la vendetta prende piede con succube velocità.


L’OCCHIO CHE UCCIDE (Michael Powell, 1960)

Tra le più avanguardistiche dell’epoca, “L’Occhio che Uccide” (in originale “Peeping Tom” ovvero “guardone” secondo la leggenda popolare inglese) è una pellicola del 1960 diretta da Michael Powell (“Scarpette Rosse”, “Narciso Nero” e numerosi altri). Il film gira attorno alla figura di Mark Lewis (Carl Boehm), aspirante regista che convive con una perversione malsana: voler ritrarre la paura nella sua essenza. Questa ossessione lo porta a patire di una particolare forma di scopofilia, malattia mentale meglio nota col nome di voyeurismo, per cui, portandosi addietro ossessivamente la propria macchina da presa, riprende le proprie vittime nel mentre che le uccide. L’opera è caratterizzata da un’analisi psicologica e sociologica molto complessa e accurata; mette a nudo le repressioni della Gran Bretagna del periodo

pre-sessantottino in cui la società era ancora ignara delle dinamiche che potevano portare un uomo alla pazzia. Il protagonista è costantemente in lotta con la propria ossessione, scaturita dalla propria famiglia che in un meccanismo freudiano

ha influito sulla sua salute mentale e sessuale, e lo vediamo sdoppiato in 2 personalità distinte: una razionale e repressa, l’altra animalesca e impetuosa. La pellicola ha come elementi prevalenti una scenografia e una fotografia che richiamano i toni tranquilli dell’ambiente borghese delle vicende in netto contrasto con la storia contorta e disturbante che viene narrata. L’impostazione delle inquadrature è tra le più innovative dell’epoca: la sequenza iniziale in cui dall’occhio si passa alla soggettiva della macchina da presa del protagonista aiuta ad enfatizzare l’ossessività del protagonista.

N.B.

L’opera si contrappone al film “Dogman” del 2018 per la regia di Matteo Garrone in quanto i fatti narrati dipingono una situazione tragica nata in un ambiente benestante e medio-borghese; mentre nella pellicola garroniana la vicenda nasce nel quartiere malfamato del protagonista che arriva al raptus di follia per disperazione.




Riccardo Angelozzi

Cristiano Manari